La Gioconda e il fantasma di Daniel Oren

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Occasione sprecata per il teatro Verdi di Salerno che ha proposto un titolo affidato ad un cast non all’altezza del grand opéra. La direzione di Yishai Steckler lontana dalla passionalità della composizione di Amilcare Ponchielli

 

 

 

Di Olga Chieffi

 

“Ponchielli è l’ultimo dei nostri operisti che può ancora rifare Verdi”. E’ il Mila delle “Cronache musicali”, che si epifana nell’interpretazione de’ “La Gioconda”, costruita su di un soggetto tipico di un teatro romanzesco fatto di situazioni violente e di colpi di scena, su di un cupo sfondo di vita seicentesca, una tragedia già tutta enunciata, con tocco singolarissimo, nel preludio iniziale, impostato su due elementi fondamentali, il motivo “A te questo rosario”, che evoca ad un tempo la generosità di Laura, la riconoscenza della Cieca, l’amore e la magnanimità della Gioconda, e il tema che caratterizza il cinismo, quasi demoniaco di Barnaba. Nell’alternanza e nella sovrapposizione dei due temi, il secondo dei quali prenderà, poi, significativamente il sopravvento, la tragedia si intravede oscuramente; i due temi si avvicendano e mescolano i loro contorni, come in una cupa penombra, per emergere vivi dal loro sviluppo magmatico e prendere ciascuno rilievo e significato autonomo nel corso dell’azione. Su di un palcoscenico sapientemente trasformato nel ventre di una nave dallo scenografo Davide Gilioli, è salpata “La Gioconda”, di Amilcare Ponchielli, titolo che ha segnato, mercoledì sera, l’inaugurazione della seconda parte della stagione lirica del teatro Verdi di Salerno. Un brigantino, quello della Gioconda, che non ha avuto sfortunatamente, quale timoniere, il M° Daniel Oren, del quale pubblico e in particolare orchestrali hanno avvertito la mancanza, nell’esecuzione di una partitura che si attaglia perfettamente al suo sentire musicale, alla sua abilità tecnica, che lo avrebbe portato a sviluppare tutta l’azione nella pienezza e varietà dei suoi motivi. Volontà iniqua e punitrice da un lato, amore e magnanimità dall’altro configurano la linea di svolgimento del dramma, da cui prendono il loro moto e si dispiegano altri motivi di sviluppo drammatico, ritornando per vie nuove al nodo principale dell’azione, determinando singolari situazioni patetiche, a cui il giovane direttore Steckler  non è riuscito a offrire giusta evidenza con efficace rilievo espressivo, gettando alle ortiche forse l’unica possibilità che Salerno e con lei, l’orchestra e il pubblico di confrontarsi con quest’opera. Specchio di questo appiattimento totale, è stata la protagonista il soprano Hui He, al suo debutto nel ruolo, che affronterà certamente con tutti i crismi in quel di Berlino tra due anni. La Hui He non possiede ancora un registro grave tale da poter vestire i panni della cantatrice di Ponchielli, a differenza degli acuti che sono risultati levigati e sempre sotto controllo, capaci di donare alla linea vocale una scintilla di nobiltà. Compressa la gamma emotiva, in cui il soprano, non aiutata dal direttore, non è riuscita bene a comunicare la tenerezza ansiosa nei confronti della madre, l’amore travolgente per Enzo, l’odio per Barnaba, l’apertura del baratro sotto i suoi piedi nella meditazione sul “Suicidio”. Se la Gioconda ha avuto al suo fianco due interpreti di grande esperienza e consapevolezza musicale e teatrale, quali Francesca Franci nel ruolo della cieca e Luciana D’ Intino, una Laura di interessante impatto emotivo, la compagine maschile ha fatto acqua da tutte le parti a cominciare da Lado Ataneli, Barnaba, il quale non è riuscito ad proporre la giusta raffigurazione di quella fosca incarnazione del male che sembra anticipare lo Jago dell’Otello verdiano, per continuare con Hugh Smith, che ha dato voce a Enzo Grimoaldo, tenore infelice nel registro medio acuto, con diversi suoni appannati dalla polvere e Carlo Striuli, dallo strumento vocale ormai da revisionare, nei panni di Alvise Badoero. Il regista Maurizio Di Mattia, non ha osato nulla, così come la coreografa Pina Testa, per la Danza delle ore, affidata a giovani danzatori, che ci hanno ricordato colori e gesti dei “Pecheurs de Perles” della primavera scorsa. Solite e confortanti individualità in orchestra, a cominciare dai violoncelli, per continuare con i corni guidati da Vladimiro Cainero e dai flauti, tutti di scuola salernitana, al seguito del corposo suono di Antonio Senatore, che ha inaugurato il suo nuovo strumento Brannen & Cooper, adatto al nostro teatro. Prova dignitosa del coro, e delle sue voci femminili, unitamente ai piccoli mozzi della formazione di Silvana Noschese. Applausi tiepidissimi di un pubblico annoiato dalle lungaggini e dalla veemenza esteriore di quest’opera. Si replica questa sera, alle ore 21 e domenica in pomeridiana.

 

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