Frosinone. Villa Comunale. "L´eros nascosto" con opere di Fernando Rea, a cura di Alfio Borghese.

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    Fernando Rea, L’eros nascosto,  

    Villa Comunale, via Marco Tullio Cicerone 22 – Frosinone 

    25 gennaio – 10 febbraio 2012 

    Inaugurazione mercoledì 25 gennaio, ore 18,00  

     

     

     

    Mercoledì 25 gennaio 2012, alle ore 18,00 a Frosinone, presso la Villa Comunale, si inaugura la personale di Fernando Rea L’eros nascosto, curata da Alfio Borghese, con testo critico di Marcello Carlino.

     

    La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Frosinone, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia, rimarrà aperta fino al 10 febbraio tutti i giorni (compresa la domenica) dalle ore 9,00 alle 13,00 e dalle 15,00 alle 19,00.

     

    Raccoglie un nucleo importante di lavori inediti, che l’artista ha realizzato a partire dal 2000, nel segno di Eros e Thanatos, a creare un percorso articolato capace di restituire la complessità di un linguaggio che nel mito ha trovato stimoli, suggestioni e ragioni di essere.

     

    Per Rea da quasi un ventennio la mitologia rappresenta, infatti, non soltanto il motivo di irrinunciabili input creativi, quanto piuttosto la possibilità di costruire un sottile equilibrio tra passato e presente per cancellare la contrapposizione. Queste opere recenti si presentano quindi come una particolare rilettura del passato a livello del contemporaneo. In esse ritroviamo la tradizione dell’arte occidentale e la necessità di rinnovarla, avendo coscienza di quella pluralità di stratificazioni culturali che la caratterizzano, al punto che l’artista ha elaborato una metodologia di lavoro assolutamente innovativa, in cui le tecniche abituali, dal disegno alla pittura, dal collage alla grafica, si rapportano dialetticamente all’uso delle nuove tecnologie, dalla fotocopia all’elaborazione digitale. Le immagini da cui parte molto spesso sono prese dai giornali, decontestualizzate e ricontestualizzate attraverso manipolazioni, ritocchi, tagli e inevitabilmente interventi pittorici, cosicché i protagonisti di reportage, servizi di moda o pubblicità si svestono dell’attualità per animare una dimensione senza tempo.

     

    Venere, Orfeo, Giove, Persefone, Elena e altri dei ed eroi, che Fernando Rea crea senza soluzione di continuità, si presentano non solo come memoria di una cultura originaria, attraverso cui riscoprire le motivazioni del presente, ma anche come possibilità di ripensare alla classicità in una prospettiva critica, in cui i termini di tradizione e di sperimentazione sono intesi come complementari, non come contraddittori. Il processo di riattualizzazione del mito, messo in atto con un inesauribile desiderio di innovazione, è inteso come la possibilità di riappropriarsi dell’originaria identità culturale, per evitare la spersonalizzate e spesso sterile omologazione prodotta dall’inarrestabile globalizzazione.

     

    Come scrive Carlino nel testo critico: “Il lavoro pittorico di Rea punta nella direzione di un’origine, di un cominciamento prima di ogni tempo, e in parallelo, con ritmo altrettanto sostenuto, si volge al futuro come disseminandone gli indizi, i segni incipitari e sembra annunciare quel che non è ancora, configurandone l’eventualità. Il “di qua” di una indistinta e condivisa totalità originaria che ha i caratteri del sogno e dell’utopia e il “di là” di qualcosa che si mostra indeterminato e che tuttavia ci attende e attende il nostro impegno per l’avvenire: contro il postmoderno concentrato asfitticamente sul presente, ridotto sulle sue piccolissime misure, nella rappresentazione di queste tele l’oggi non ha tempo di consistere e si riapre dinamicamente, si rivitalizza riempiendosi di passato e di futuro”.

     

     

     

    Ecco il testo critico completo:

     

     

     

          Va certamente considerato tra i testi fondativi della cultura occidentale di secondo Novecento e la sua validità non è davvero pervenuta a scadenza; dico dei Miti d’oggi di Roland Barthes, che negli anni Sessanta argomentava come e quanto sia tipico di ogni gruppo sociale, non importa sotto quale cielo e di quale latitudine, costruirsi il suo catalogo di miti, derivandolo dalle immagini e dalle maniere che si mostrano, o piuttosto sono a bella posta confezionate e ammannite, nell’epoca a cui ha in sorte di appartenere, nella realtà storicamente determinata in cui è posto. E la realtà presente – il presente nell’Occidente di quel decennio e più ancora il presente di adesso, dieci lustri dopo – è pressoché totalmente nel segno, anzi sotto ipoteca, di una società di massa, con i suoi spettacoli rutilanti e con i suoi riti. I miti d’oggi sono dunque, quasi senza eccezione, epifenomeni di una dominante massificazione in atto: miti pertanto opachi, venali, svuotati di senso, strumentali.

     

          Da figurazioni diffuse ed esemplari, proiezioni e precipitati della infeconda mitopoiesi nostra contemporanea, parte la ricerca pittorica di Fernando Rea, della quale in questa mostra si coglie una puntuale refertazione delle tappe compiute insieme alle tracce di un work in progress che prosegue tenace e sicuro, ricco di promesse. Dall’immaginario che preme su di noi nei confini della comunicazione massmediatica, e ci invade, e ci aliena, Rea presceglie per ipotesti alcuni frammenti figurali – patinati per lo più, orientati al divismo, composti in corrive estetizzazioni – che hanno fisionomia e natura di sostituti mitologici. In ciò la sua operazione appare consimile a quella che veniva realizzata tanto dalle sponde della Pop Art, quanto da quelle delle decontestualizzazioni proprie dei collages verbovisivi. Appare consimile; di fatto, però, si distingue per un suo ben rilevato profilo.

     

          Nei prelievi e nei ricollocamenti effettuati negli anni Sessanta e Settanta, le icone speciali apparecchiate dai massmedia per la mitizzazione venivano soprattutto trattate con il metodo della demistificazione e dell’ironia, rimanendo declinate sull’oggi, sul presente. Con i procedimenti possibili grazie alla strumentazione tecnologica di cui disponiamo, e dunque attraverso un uso consapevole e sperimentale della tecnica prestata alla pittura, Rea impiega i miti d’oggi per farne la base di elaborazioni in cui è proprio l’oggi ad essere come elongato, sorpassato: i miti d’oggi su cui egli interviene sono quindi “rubati” all’oggi, riconvertiti per un “altro” tempo.

     

          Intanto consideriamo di particolare rilevanza questa scelta, questa “inclinazione” ideologica: il presente è il pensiero dominante in questo scorcio di terzo millennio, nella temperie culturale in cui viviamo, e invece, col suo discorso artistico, Rea rifiuta, contrasta un “gioco di società” siffatto, che si suole etichettare col termine ‘postmoderno’. Rea schiude l’oggi, ne schioda i confini.

     

          Scavalcare l’oggi – e traguardare il presente – significa che vengono restituiti profondità e respiro (l’appiattimento e la superficialità, la miopia di chi non conosce prospettiva sono le note caratteristiche della attuale civiltà di massa). Significa cioè che Rea per un verso si riporta al passato contaminando le figure di una bellezza da rotocalco (quelle che egli trapianta sulla tela) con i tratti soprasegmentali del mito “classico”, degli archetipi, della lingua antichissima dell’immaginario antropologico-umano universale (ecco i montaggi alternati, le trasfigurazioni, i cenni di volumetrie statuarie, gli statuti identificativi di mitologemi, le filigrane – tra gli altri – di Giove o di Orfeo e delle navi dei grandi, eterni viaggi); significa per un altro verso che gli stessi modelli adoperati e rifigurati sono decostruiti e riaperti, apparendo in movimento, sporti verso altro e verso altrove, lungo itinerari di una mitologia possibile, di una mitologia nuova, i quali non sono più rinvenibili sulle mappe passate e che si pongono a distanza siderale dall’oggi.

     

          Il movimento trasmutante è all’indietro e in avanti, insomma; il lavoro pittorico di Rea punta nella direzione di un’origine, di un cominciamento prima di ogni tempo, e in parallelo, con ritmo altrettanto sostenuto, si volge al futuro come disseminandone gli indizi, i segni incipitari e sembra annunciare quel che non è ancora, configurandone l’eventualità. Il “di qua” di una indistinta e condivisa totalità originaria che ha i caratteri del sogno e dell’utopia (Ermafrodito, qui di scena, era rinvenuto da Savinio come divino totale dei totali, pienezza primigenia perciò invidiata dagli dei) e il “di là” di qualcosa che si mostra indeterminato e che tuttavia ci attende e attende il nostro impegno per l’avvenire: contro il postmoderno concentrato asfitticamente sul presente, ridotto sulle sue piccolissime misure, nella rappresentazione di queste tele l’oggi non ha tempo di consistere e si riapre dinamicamente, si rivitalizza riempiendosi di passato e di futuro.

     

          Segnicamente un tale movimento (perpetuo, come nel mito di Orfeo è perpetuo il corrispondersi della morte e della vita) si fa forte di alcuni decisivi impulsi. Uno è la pertinenza all’acqua dello scorrere sequenziale delle immagini, o delle cangianze che si producono nel passaggio da un frammento iconico all’altro, o delle segmentazioni molecolari fluenti che rigano e frattanto congiungono le figure. Un altro è la funzione simbolica (raddoppiamento e conferma di una mutazione ciclica che ne è la sostanza o di un’utopia che può esserne per noi la ragion pratica) svolta da taluni oggetti di natura – fiori in specie – che spesso intervengono da contorno e per commento, per indice di una premialità possibile che piove gratificante come una manna. Un altro ancora è la sgranatura o la satinatura con effetti di sordina riservata ai colori (segnale, inoltre, di un esporsi al tempo che tutto muta, che ridipinge l’arte stessa), per cui le immagini ora si sovrappongono, ora si continuano senza soluzione come in un itinerario ininterrottamente metamorfico. E poi c’è la serialità, come in catene analogiche, che reinnesta e riavvia in cicli i rami del racconto e che non di rado si raccorcia in fasi triadiche, che sanno del processo progressivo, potenzialmente senza fine, della dialettica. E sanno contemporaneamente dell’eros necessario, insostituibile, fecondo, che è vitale principio del piacere, che è conoscenza, che ci slancia verso il futuro.

     

     

     

          Marcello Carlino

     

           

     

     

     

     

     

    Info:

     

    Villa Comunale

     

    Via Marco Tullio Cicerone 22 03100 Frosinone

     

    tel. 0775 874141

     

    orario tutti i giorni 9,00-13,00 15.00-19,00

     

    alfio.borghese@libero.it

     

     

     

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