La marcia di Clinton l’aborigeno. Da Perth a Canberra: 5.000 chilometri in un anno attraverso il deserto australiano

«Prima di morire mia madre mi ha insegnato a vivere con quello che ci dà la terra, come facevano i nostri antenati. Voleva che non mi vergognassi di essere parte del sogno. Sto facendo questa marcia per la mia gente, per me e anche per mamma». Clinton Pryor è un aborigeno dell’Australia occidentale — «un […]

«Prima di morire mia madre mi ha insegnato a vivere con quello che ci dà la terra, come facevano i nostri antenati. Voleva che non mi vergognassi di essere parte del sogno. Sto facendo questa marcia per la mia gente, per me e anche per mamma». Clinton Pryor è un aborigeno dell’Australia occidentale — «un Wajuk, Balardung, Kija e Yulparitja», si autodefinisce — che ricorda tanto Forrest Gump. Ma a differenza dell’ingenuo eroe cinematografico interpretato da Tom Hanks, che correva da un capo all’altro dell’America senza sapere perché, Clinton corre per una causa e ha una meta precisa. Alla fine di un percorso di oltre 5.000 chilometri, attraverso deserti infuocati e città, vuole entrare in Parlamento a Canberra per incontrare il premier e dirgli chiaro in faccia quello che la Prima nazione d’Australia aspetta da secoli: giustizia. Clinton è partito l’8 settembre da Matagarup, nel cuore di Perth, dove nel 2015 un centinaio di aborigeni e senzatetto creò un «campo rifugiati» per protestare contro la chiusura di oltre 150 riserve indigene (o, correttamente, comunità della Prima nazione) nelle zone più remote dell’Australia occidentale. «Non voglio che la mia gente perda le proprie case perché il governo ha deciso di non pagare più i servizi necessari», spiega lo «spirit walker», il camminatore dello spirito, sul sito Internet creato per spiegare la sua battaglia (clintonswalkforjustice. org). Anche Clinton ha vissuto in strada, per due anni. «Avevo perso il lavoro, la ragazza, la casa — racconta — Poi però mi sono rimesso in sesto perché ho capito che se non credevo più in me stesso non sarei andato da nessuna parte nella vita». Ha trovato uno scopo e ha iniziato a camminare. All’inizio in pochi si sono accorti di questo ometto di 27 anni, dalla pelle scura e la barba lunga, scortato da una vecchia auto e da un ciclista che porta l’acqua. In un anno ha percorso a piedi oltre 4.800 chilometri, trascorso il Natale ad Alice Springs, incontrato una nuova ragazza lungo la strada, toccato la montagna sacra di Uluru (Ayers Rock, in inglese) nel cuore dell’outback australiano, rischiato di morire nel deserto infuocato («per due giorni siamo rimasti senza acqua, ho continuato a camminare»). Soprattutto ha conosciuto centinaia di aborigeni, come lui, ascoltato storie di dolore e di rabbia, di suicidi e di alcolismo, di miseria e corruzione. Ha raccolto lamentele e richieste e ora, promette, le porterà nei salotti del potere. «Un sacco di gente non viene ascoltata in questo Paese». Questo pomeriggio ha appuntamento con la comunità di Redfern, a Sydney, sulla costa sud-orientale dell’Australia. Ci sarà un «afternoon tea», danze di bambini e canti tradizionali. Lui dirà come al solito ai giovani di stare lontano dalle droghe e dall’alcol, di continuare ad andare a scuola, anche se la scuola magari non è sempre così accogliente con loro. Poi Clinton affronterà la tappa finale del suo lungo viaggio, gli ultimi 300 chilometri fino a Canberra dove vuole arrivare il 3 settembre, un anno dopo la partenza. «Dirò al primo ministro di dare ai nostri anziani (i capi della Prima nazione) il pieno controllo delle nostre comunità, senza l’interferenza del governo — assicura Clinton — Voglio che il governo dia al mio popolo quello che vuole e cioè un trattato e che ci lasci vivere la nostra vita come abbiamo sempre fatto». La parola non detta è «sovranità». I popoli aborigeni quest’anno hanno concordato la «Dichiarazione dal Cuore» di Uluru, con cui rivendicano un’Assemblea rappresentativa riconosciuta a livello costituzionale. Finora Turnbull ha fatto muro: «Un approccio o tutto o niente spesso porta come risultato a niente», ha avvertito il premier. Ma nel frattempo la storia di Clinton ha conquistato l’attenzione dei grandi quotidiani internazionali, dal Guardian al New York Times. E anche i politici australiani, ora, non possono più far finta di nulla. Clinton non molla. «Credo sia una mia responsabilità tenere vivo il sogno, la nostra spiritualità — dichiara il maratoneta — Cammino perché voglio dare speranza alla mia gente. Dimostrare che non bisogna arrendersi, che si deve continuare a lottare, non importa cosa succede intorno». Corri, Clinton, corri. (Corriere della Sera)

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