SORRENTO. I.CULTURA TASSO OSPITA NELLO RONGA

Nell’ambito del poderoso ciclo di conferenze organizzato dall’Istituto di Cultura Tasso , presieduto da Luciano Russo, sabato 29 maggio 2021, alle ore 16.00, presso la sede , nel Museo civico Francescano, Chiostro di San Francesco, lo storico Nello Ronga, terrà conferenza sul 1799 in terra di Lavoro. La conferenza segue il protocollo antipandemia e non si svolge con presenza di pubblico, viene trasmessa in diretta da Positanonews sui canali social e registrata sul canale youtube.

Nello Ronga fa parte della nutrita schiera di studiosi, non storici di professione, che hanno rivolto e rivolgono il loro interesse agli eventi della Repubblica napoletana del 1799. Di formazione sociologica e autore di numerose ricerche sul territorio campano, Ronga era partito da un obiettivo che appariva lontano dai suoi interessi consueti, e in parte ancorato alla tradizione retorica del martirologio locale: ritrovare i patrioti dell’area aversana, anche i meno noti, per comprendere se i personaggi più celebri come Bagno, Cirillo, Fiore – costituissero soltanto una luminosa eccezione all’interno di un paesaggio generalmente ostile, o non fossero invece solo la punta avanzata di un movimento repubblicano più ampio.

Generico maggio 2021

Il libro è disponibile anche in edizione digitale al sito  http://www.nuovomonitorenapoletano.it/pdf/terradilavoro     da cui riportiamo l’introduzione .

Nello Ronga
GIACOBINI E REALISTI NEL 1799 IN TERRA DI LAVORO
LA REPUBBLICA NAPOLETANA IN PROVINCIA
NUOVO MONITORE NAPOLETANO – EDIZIONE DIGITALE
2020
INTRODUZIONE1
Il processo storico del Risorgimento italiano affonda le sue radici nel sacrificio degli
eroi della Repubblica Napoletana del 1799 e delle Repubbliche sorelle del Triennio
rivoluzionario e repubblicano, ma le sue radici più profonde traggono humus
dall’illuminismo meridionale e italiano e nel dispotismo illuminato dei vari governi dei
regni e ducati che, negli ultimi decenni del XVIII secolo, avevano battuto la strada del
riformismo.
Il Regno più antico d’Italia, com’è noto, era quello di Napoli: sorto grazie ai Normanni,
che, partendo da Aversa, riuscirono a unificare tutto il Meridione e la Sicilia nel 1130;
era passato, poi, attraverso le dominazioni degli Svevi, degli Angioini e degli
Aragonesi, per essere per due secoli, dal 1503, dominio spagnolo.2
Dopo una breve dominazione austriaca aveva finalmente, con Carlo di Borbone, una
indipendenza dinastica e un re proprio. Dopo l’arrivo del giovane re, il Regno era nato
a nuova vita. Nel periodo del suo governo fu fatto il censimento dei beni fondiari e
immobiliari di tutta la popolazione laica ed ecclesiastica, il catasto onciario e la
tassazione dei beni ecclesiastici, il Concordato con la Santa Sede, che ridusse
sensibilmente il diritto di asilo e il privilegio di foro.
Fu realizzata una politica delle opere pubbliche con la costruzione, tra l’altro, dei
palazzi reali di Capodimonte e di Caserta, a sostegno del prestigio della nuova
monarchia; fu migliorata la rete viaria, sia pure per rendere più facile l’accesso ai siti
reali destinati alla caccia; si procedette all’ammodernamento del porto di Napoli e
furono varati incentivi ai traffici attraverso l’istituzione della Giunta e del Supremo
Magistrato del Commercio.
Vi furono resistenze nell’attuazione di queste riforme, iniziando dal catasto onciario:
gran parte della nobiltà e della borghesia ne osteggiò l’attuazione nei vari comuni per
evitare la modifica della tassazione, anche attraverso la scomparsa o la falsificazione
dei documenti. In sostanza il Concordato e il Catasto, che erano stati concepiti per
limitare la strapotenza economica del clero e dei nobili e sollevare il popolo della
campagna dall’oppressione degli esattori e dei gabellieri, non raggiunse l’effetto
desiderato perché “mancarono la forza e la scienza per riuscire nell’uno e nell’altro; gli
eccellenti propositi si ruppero contro ceti quasi invincibili”.3
Nello spirito della politica regalista e anticurialista, inaugurata dal Tanucci, già nel
1738 erano state emanate norme abroganti i cosiddetti Testamenti dell’anima raccolti
al capezzale dei moribondi dagli ecclesiastici, i quali avevano la facoltà di certificare
che il defunto, durante la confessione, aveva espresso la volontà di lasciare i propri
beni, in tutto o in parte, a qualche istituzione religiosa. Tale dichiarazione, in assenza
di testamento olografo, era sufficiente a determinare il trasferimento dei beni all’ente
ecclesiastico prescelto; questa procedura aveva contribuito in maniera efficace,
insieme all’esenzione dalle tasse dei beni ecclesiastici, alla costituzione di ingenti
patrimoni nelle mani della chiesa, dei luoghi pii e dei monti.4
La speranza di conquistare il paradiso per la propria anima, attraverso le opere di pietà
e di beneficenza, spingeva molti, anche opportunamente sollecitati, specialmente in
punto di morte, a disporre dei propri beni non tenendo conto solo dell’amore per i propri
congiunti.
Alla partenza di Carlo per la Spagna, essendo ancora in minore età l’erede al trono
Ferdinando, fu istituito un Consiglio di Reggenza sotto la direzione di Bernardo
Tanucci, che governò il Regno fino alla sua maggiore età, cioè fino al 1767; l’anno
successivo gli fu data in moglie Maria Carolina d’Austria, figlia dell’imperatrice Maria
Teresa. Fino al 1776 Tanucci restò alla guida del governo, sostituito poi dall’irlandese
John Acton, già al servizio di Pietro Leopoldo di Toscana, fratello di Maria Carolina.
Un’immagine eloquente di Ferdinando, dopo il matrimonio contratto a diciotto anni
d’età, ci viene offerta da Giuseppe d’Asburgo, il fratello della regina Maria Carolina,
futuro imperatore d’Austria, il quale fu inviato a Napoli dalla madre per avere una
descrizione di Ferdinando più precisa di quella trasmessa dagli ambasciatori. Così
scriveva, tra l’altro, il futuro imperatore, parlando di Ferdinando:
… durante il viaggio di ritorno in carrozza (da Pompei), vedendolo ben disposto, gli feci dei discorsi
molto insoliti, gli parlai dei doveri di stato, di gloria, di reputazione, infine di libertà, sondai il suo
senso degli affari politici e cercai di capire se vi era motivo di sperare, e se infine c’era qualche
probabilità che un giorno si riscattasse dall’avvilimento, dalla vergogna e dalla schiavitù nella quale
lo tiene la Spagna.
Indubbiamente trovai in lui qualche germe di tutti questi sentimenti, ma anche un’avversione decisa
per ogni forma d’innovazione, una tale ripugnanza a tutte le riflessioni, che oso dire quasi con certezza
che quest’uomo in vita sua non ha mai riflettuto né su sé stesso, sulla sua esistenza fisica e morale, né
sulla sua situazione, i suoi interessi, il suo paese; è completamente ignorante sul passato, non conosce
il presente e non ha mai pensato che esista un futuro, insomma vegeta di giorno in giorno, occupato
soltanto ad ammazzare il tempo e a passare in questo modo i suoi giorni e anni.5
Nonostante la personalità di Ferdinando, il governo proseguiva nella sua opera di
ammodernamento del Regno, grazie al Tanucci. Negli ultimi decenni del Settecento,
fra intellettuali, professionisti, ecclesiastici, amministratori c’era uno spirito nuovo, che
cozzava anche contro gli equilibri esistenti nella gestione economica e sociale dei
comuni, dominata sempre dalle stesse famiglie, la cui azione non andava oltre la difesa
degli interessi familiari, tesi all’accaparramento dei beni comunali e di quelli dei luoghi
pii laicali. Uno spirito nuovo circolava in alcuni seminari, spesso unici centri di
formazione culturale per ecclesiastici e laici, dove vescovi illuminati avevano
provveduto a rinnovare gli studi, introducendo nuove discipline e libri di testo a
stampa, al posto di vecchi manoscritti mutili e censurati utilizzati da secoli. Una
rivoluzione lenta e dagli obiettivi limitati si era avviata nelle provincie coinvolgendo
ecclesiastici, avvocati, medici, notai, commercianti, artigiani.
Tra gli anni 80 e 90 del Settecento furono chiamati a incarichi di governo molti
riformatori che nello spirito filangieriano di una “filosofia in soccorso de’ governi”
diedero il loro contributo all’ammodernamento dello Stato: filosofi, economisti, giuristi
come Gaetano Filangieri, Giuseppe Maria Galanti, Francescantonio Grimaldi ebbero
incarichi amministrativi e di governo. Alcune riforme importanti furono realizzate,
quali l’abolizione dei diritti feudali di passo, la divisione dei demani comunali, la
soppressione della giurisdizione feudale nei feudi ecclesiastici e in quelli che
ritornavano alla corona per l’estinzione della linea di successione feudale.6
La Rivoluzione francese, scoppiata nel 1789, era vista dai riformatori come “la giusta
reazione popolare contro i privilegi nobiliari e il dispotismo regio – la lezione da trarne,
ai loro occhi, era un più deciso impegno della monarchia sulla strada dell’assolutismo
illuminato e riformatore”.7
Le speranze invece andarono deluse, dopo la decapitazione di Luigi XVI i reali di
Napoli videro nella Francia una mostruosa minaccia ed entrarono immediatamente
nella prima coalizione anti-francese, vanificando “gli sforzi compiuti per assicurare al
Regno una politica estera autonoma e lo riconsegnava alla tutela di potenze più forti e
assestate. Spinta dalle sue paure, la monarchia, con un paese impoverito da nuove
carestie e dal terribile terremoto calabro-messinese del 1783, con finanze precarie e
dissestate, con un esercito che incominciava appena a dotarsi di ufficiali adeguatamente
formati nelle nuove accademie, per il resto reclutato in maniera raccogliticcia fra
poveri, vagabondi e criminali comuni, volle entrare in guerra contro la Francia
rivoluzionaria al fianco dell’Austria e dell’Inghilterra”.8
Con la crisi delle riforme una parte dei riformatori, particolarmente i giovani, si
convinse che solo la cospirazione contro la monarchia poteva cambiare la politica nel
Regno, “le notizie di Francia che inorridiscono alcuni, accendono speranze e presagi
nel cuore di molti”.9

Contatti avuti da esponenti del giacobinismo napoletano con la flotta francese ancorata
nel porto di Napoli, e la costituzione di una Società patriottica, diedero luogo ad una
congiura che non ebbe alcuna conseguenza politica, ma fu sufficiente per dar corso a
dei processi che si conclusero nel 1794 con numerose condanne al carcere o alla
deportazione e con l’impiccagione di tre giovani: lo studente Emanuele De Deo,
l’ebanista Vincenzo Vitaliani e l’avvocato Vincenzo Galiani.
Anche Terra di Lavoro in questo periodo ebbe i suoi fermenti rivoluzionari: Pasquale
Zambarella di Traetto (ora Minturno), i fratelli Michele e Filippo Capocci di Picinisco,
il medico Vincenzo Vittiglio di San Germano (ora Cassino), Lorenzo Rosselli di
Roccaguglielma (ora Esperia), fratello di Clino, il parroco di Minturno, originario di
Gallinaro don Pasquale Frisoni, Giustino e Pietro Battiloro di Arpino, (allievi i due
Battiloro di Lauberg alla sua Accademia di Chimica), furono inquisiti per i fatti del
1794.10
Fedele Mazzola di Durazzano fu condannato a cinque anni di relegazione nell’isola di
Ischia.11
I patrioti del Regno di Napoli furono i precursori ed i primi portabandiera dell’Unità
d’Italia;
Gregorio Mattei12 sul giornale il Veditore repubblicano del 19 aprile 1799, ricordando
i primi condannati a morte dal Borbone scrisse:
Per questa congiura molti individui han sofferto, alcuni han perduto la vita; ma bisogna però
convenire che la Patria, e l’Italia debbe a lei il vedersi ora sgombera dalle tiare, e dagli scettri. I
Giacobini di Napoli furono i primi che diedero il grido all’Italia sonnacchiosa: quando altri appena
ardiva pensare, quando pareva ancor dubbia la sorte della Francia medesima, essi, giovani, inesperti,
privi di mezzi, ma pieni di entusiasmo per la libertà, d’odio per la tirannia, tentarono un’impresa, che,
non fosse andata a vuoto, gli avrebbe resi immortali, e felice l’Italia. Gl’italiani si svegliarono dal
letargo, riconobbero ch’essi erano uomini, e desiderarono riacquistarne i diritti smarriti da tanti
secoli.13
IL TRIENNIO GIACOBINO
Gli anni 1796-1798 furono particolarmente importanti per tutto il territorio italiano. Il
Direttorio, organo di governo francese che resse le sorti della nazione dall’ottobre 1795
al novembre del 1799, affidò a Napoleone Bonaparte, nel marzo del 1796, il comando
dell’armata d’Italia, il cui ruolo fino a quel momento era stato quello di impegnare una
parte dell’esercito austriaco, alleggerendo la pressione sul fronte del Reno, allo scopo
di consentire alle due armate principali di portare l’attacco direttamente contro Vienna.
All’assunzione del comando da parte di Napoleone l’armata contava 36.000 uomini ed
era in condizioni disastrose di equipaggiamento. In pochi mesi il fronte italiano assunse
un’importanza fondamentale, nel contempo il giovane generale trasformò le sue truppe
in quelle meglio equipaggiate e rifornite di viveri.
Il mese successivo all’assunzione del comando dell’armata, Napoleone sconfisse il re
di Sardegna Vittorio Amedeo III costringendolo a firmare l’armistizio di Cherasco e
successivamente la pace di Parigi, che prevedeva il libero passaggio delle truppe
francesi attraverso il suo regno con l’approvvigionamento dei relativi rifornimenti e
l’annessione alla Francia di Savoia e Nizza.
Il mese successivo sconfiggeva gli austriaci ed entrava da trionfatore a Milano. Altri
stati italiani si precipitarono a firmare armistizi a condizioni gravose mentre i giacobini
italiani speravano che le vittorie napoleoniche avrebbero consentito la creazione di
repubbliche indipendenti, rendendo possibile una nuova politica nella Penisola. Ma la
pace di Campoformio fece intendere che la Francia aveva nei confronti dell’Italia
atteggiamenti contrastanti: la volontà di dominio politico e militare insieme al desiderio
di estendere leggi ed ordinamenti scaturiti dalla rivoluzione. Inoltre il suo sostegno ai
patrioti italiani era condizionato all’accettazione da parte loro delle linee tracciate dai
comandanti militari e dal governo francese.14

Le tendenze all’unificazione della penisola, che cominciarono a manifestarsi
concretamente per la prima volta, erano scoraggiate e le imposizioni di contributi
finanziari erano un ostacolo per i patrioti italiani a diffondere le loro idee e a realizzare
i programmi di rinnovamento. Fu comunque consentita la creazione di governi
repubblicani escludendo però da essi gli anarchistes, cioè gli elementi più
rivoluzionari, i democratici radicali, i quali ritenevano che la rivoluzione non avesse
ancora raggiunto i suoi obiettivi di libertà e uguaglianza.
I patrioti italiani non ignoravano che la politica estera della Francia repubblicana
poteva diventare una mera politica espansionistica, contro le sue stesse forze
democratiche interne, ma sapevano anche che senza le armi francesi nulla potevano
contro i governi locali e i loro alleati. Per Napoli è stato osservato che si trattava di
scegliere tra «francesi come sostegno a un programma di democratizzazione e di
modernizzazione del paese e una monarchia retriva in balìa di forze inglesi, austriache
e ora anche russe».15
L’atteggiamento dei patrioti italiani non fu di accettazione passiva delle direttive del
governo francese, spesso la loro resistenza fu vivace ed a volte efficace perché poté
anche approfittare dei contrasti presenti tra le stesse forze governative francesi.
Nel 1796 fu costituita la Repubblica Transpadana in Lombardia e la Repubblica
Cispadana comprendente i territori di Modena, Reggio, Bologna e Ferrara. L’anno
successivo esse si fusero nella Repubblica Cisalpina. Nel giugno del ’97 fu costituita la
Repubblica Ligure.
L’anno dopo, il 15 febbraio 1798, fu proclamata la Repubblica Romana. Subito dopo
si diffusero le insorgenze e le ribellioni in tutto il dipartimento del Circeo, abilmente
fomentate anche dagli agenti napoletani. Lungo la linea di confine di Terra di Lavoro
con lo Stato Pontificio si avvertì la presenza francese tra Sora, Ceprano e Terracina.
L’esercito napoletano si era dislocato già in precedenza tra Sora, Gaeta e Sessa, con
reparti tra Atina e Val Comino. La corte aveva fissata la sua dimora a Montecassino.16
La costituzione ai confini del Regno di una nuova repubblica, l’occupazione da parte
di Napoleone dell’isola di Malta, sulla quale i Borbone vantavano dei diritti come
sovrani della Sicilia, rafforzarono in Ferdinando e Carolina la convinzione che la
guerra fosse inevitabile. Fu ordinata una leva forzosa con la quale l’esercito napoletano
sulla carta contava 74.000 uomini, il comando fu affidato al generale austriaco Mack
che, dopo aver veduto le truppe che gli erano state mostrate nel campo di S. Germano
(attuale Cassino), e dopo aver sentito dire che le altre erano anche migliori, giunse ad
affermare che l’esercito napoletano era la plus belle armée d’Europe.
17
Il 22 novembre Ferdinando ordinò alle sue truppe di entrare nello Stato romano e
dispose lo sbarco a Livorno di seimila soldati che avrebbero dovuto favorire
l’insurrezione della Toscana contro i francesi.
Dopo pochi e insignificanti successi, alcuni tronconi dell’esercito napoletano furono
pesantemente sconfitti. La fuga di Ferdinando prima a Napoli e poi a Palermo,
contribuì a gettare nella confusione l’esercito che si sbandò.
Secondo Ugo Foscolo il generale Championnet, dopo le prime vittorie contro l’esercito
napoletano, avendo un “piccolo esercito” era incerto tra il dovere di ricongiungersi con
le forze francesi in Lombardia e l’ambizione di conquistare un Regno, e che alla
conquista era stato «sospinto (…) da tre quattrocento napoletani che s’erano raccolti
intorno a lui da ogni parte d’Italia, erano in massima parte giovani che, instaurata
l’inquisizione politica, erano emigrati da Napoli; le loro idee vaghe s’erano convertite,
nella persecuzione, nell’esilio e nella povertà, in passione e sistema».18
La resa delle fortezze, l’occupazione da parte francese di tutta Terra di Lavoro e la fuga
anche di Mack consentì al generale francese Championnet, dopo una strenua lotta
contro gli eroici lazzaroni, di giungere a Napoli, dove già i patrioti napoletani,
impadronitisi di castel S. Elmo, il 21 gennaio avevano dichiarato decaduto il re dal
trono e avevano proclamata la Repubblica Napoletana Una e Indivisibile, innalzando
la bandiera tricolore.19
TERRA DI LAVORO ALLA FINE DEL SETTEC

Mostra tutto il testo Nascondi
Translate »