Generico settembre 2020

Sorrento. Marcel Proust all’Istituto Tasso

09/09/20

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Attenzione l'evento è già trascorso

Nell’ambito del ciclo di conferenze organizzate dall’Istituto di Cultura Tasso , presieduto da Luciano Russo, il prossimo incontro sarà mercoledi 9 settembre 2020 alle ore 18.00 presso la sala Dikens dell’Hotel Continental, con la prof  Valeria Sperti , che parlerà di Marcel Proust e amore e gelosia.  A moderare l’incontro Eleonora Di Maio.

Generico settembre 2020

Riportiamo una delle dispense della professoressa Valeria Sperti che mette a disposizione degli studenti e appassionati per il corso di  Letteratura Francese presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Passi da Marcel Proust, La Ricerca del tempo perduto,
1) I Guermantes
“Ero desolato di non aver salutato Saint-Loup, ma partii ugualmente, poiché il mio unico pensiero
era ritornare dalla nonna: fino a quel giorno, in quella cittadina, quando pensavo a quel che faceva
da sola la nonna, me la figuravo tale e quale era con me, ma sopprimendomi, senza tener conto
degli effetti che quella soppressione aveva su di lei; ora, dovevo liberarmi al più presto, tra le sue
braccia, del fantasma, insospettato finora ed evocato improvvisamente dalla sua voce, di una
nonna realmente separata da me, rassegnata e, cosa che non le avevo ancora conosciuto, anziana,
e che aveva appena ricevuto una mia lettera nell’appartamento vuoto dove avevo già immaginato
la mamma quando ero partito per Balbec.
Ahimè, proprio quel fantasma vidi quando, entrato in salotto senza che la nonna fosse stata
avvertita del mio ritorno, la trovai che leggeva. Ero là, o piuttosto non ero ancora là visto che lei
non lo sapeva e, come una donna sorpresa mentre è intenta a un qualche lavoro che nasconderà
se qualcuno entra, si era abbandonata a pensieri di cui non aveva mai fatto mostra in mia
presenza. Di me — per quel privilegio effimero in virtù del quale abbiamo, nel breve istante del
ritorno, la facoltà di assistere bruscamente alla nostra assenza — non c’era là che il testimone,
l’osservatore, in cappello e cappotto da viaggio, l’estraneo che non è di casa, il fotografo che viene
a prendere un’istantanea di luoghi che non si rivedranno più. Quel che, meccanicamente, si creò in
quell’attimo ai miei occhi quando intravidi la nonna, fu per l’appunto una fotografia. Non vediamo
mai le persone care se non nel sistema animato, il movimento perpetuo della nostra incessante
tenerezza, la quale, prima di lasciare che le immagini che il loro viso ci presenta ci raggiungano, le
prende nel suo turbine, le proietta sull’idea che di esse ci facciamo da sempre, le fa aderire ad
essa, coincidere con essa. Come avrei potuto, dal momento che la fronte, le guance della nonna
significavano per me quanto c’era di più delicato e permanente nel suo spirito, come avrei potuto,
dato che ogni sguardo abituale è una negromanzia, e ogni viso amato lo specchio del passato,
omettere ciò che in lei si era appesantito, era cambiato, allorché, perfino negli spettacoli più
indifferenti della vita, il nostro occhio, incaricato del pensiero, trascura, come in una tragedia
classica, tutte quelle immagini che non concorrono all’azione e trattiene solo quelle che possono
renderne intelligibile lo scopo? Ma se al posto del nostro occhio ci fosse un obiettivo puramente
materiale, una lastra fotografica a guardare, allora quel che vedremo, per esempio nel cortile
dell’Institut, invece dell’uscita di un accademico che vuol chiamare una carrozza, sarà la sua
titubanza, le sue precauzioni per non cadere all’indietro, la parabola della sua caduta, come se
fosse ubriaco o se il suolo fosse coperto da uno strato di ghiaccio. Questo accade quando qualche
crudele astuzia del caso impedisce alla nostra intelligente e pietosa tenerezza di accorrere in
tempo per nascondere ai nostri occhi ciò che non devono mai contemplare, allorché essi la
anticipano e, giunti per primi sul posto e lasciati a se stessi, funzionano meccanicamente a guisa di
pellicole, e ci mostrano, invece dell’essere amato che non esiste più da tempo ma la cui morte
quella tenerezza non aveva mai voluto ci fosse rivelata, l’essere nuovo che cento volte al giorno
essa rivestiva di una cara e bugiarda sembianza. E, come un malato che, non essendosi guardato
da molto tempo e figurandosi in ogni momento il viso che non vede secondo l’immagine ideale che
egli ha di sé nel proprio pensiero, indietreggia scorgendo in uno specchio, in mezzo a un volto
arido e deserto, la sporgenza obliqua e rosea di un naso gigantesco come una piramide d’Egitto, io,
per cui la nonna era ancora un me stesso, io che non l’avevo mai vista se non nella mia anima,
sempre allo stesso posto occupato in passato, attraverso la trasparenza dei ricordi contigui e
sovrapposti, tutt’a un tratto, nel nostro salotto che faceva parte del mondo nuovo, quello del
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Tempo, quello in cui vivono gli estranei di cui si dice che «invecchiano bene», per la prima volta e
solo per un istante giacché l’immagine si dissolse subito, scorsi sul canapè, sotto la lampada, rossa,
pesante e volgare, malata, distratta, mentre faceva vagare su un libro degli occhi un po’ folli, una
vecchia prostrata che non conoscevo.”
2) Un amore di Swann, Dalla parte di Swann
“Comunque sia, e forse perché la pienezza d’impressioni che provava da qualche tempo, benché
gli fosse venuta piuttosto con l’amore della musica, gli aveva arricchito anche il gusto per la
pittura, quella volta fu più profondo (e doveva esercitare su Swann un influsso durevole) il piacere
che provò in quel momento nel constatare la rassomiglianza di Odette con la Sefora di quel Sandro
di Mariano al quale non si dà più volentieri il soprannome di Botticelli da quando, invece della vera
opera del pittore, evoca l’idea scipita e falsa che se ne è divulgata. Non stimò più il volto di Odette
in base alla migliore o peggiore qualità delle guance e alla dolcezza meramente carnale che
supponeva di dover trovare toccandole con le labbra se mai avesse osato baciarla, ma come una
matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi dipanarono seguendo la curva del loro
avvolgimento, congiungendo la cadenza della nuca all’effusione dei capelli e alla flessione delle
palpebre, come in un ritratto di lei nel quale il suo tipo diventava intelligibile e chiaro.
La guardava; un frammento dell’affresco le appariva nella faccia e nel corpo, e sempre, da allora,
cercò di ritrovarlo, sia che stesse accanto a Odette, sia che soltanto la pensasse; e benché senza
dubbio al capolavoro fiorentino ci tenesse solo perché lo ritrovava in lei, tuttavia questa
rassomiglianza conferiva bellezza anche a lei, la rendeva più preziosa. Swann si rimproverò di
avere misconosciuto il pregio di un essere che al grande Sandro sarebbe parso adorabile, e si
compiacque che il piacere che provava a vedere Odette trovasse giustificazione nella propria
cultura estetica. Si disse che associando il pensiero di Odette ai propri sogni di felicità non si era
rassegnato a un ripiego imperfetto come aveva creduto fin qui, poiché ella accontentava in lui, i
gusti d’arte più raffinati. Dimenticava che non per questo Odette si conformava di più alla donna
secondo il suo desiderio, poiché il desiderio gli si era sempre orientato precisamente in direzione
contraria ai gusti estetici. La parola, «opera fiorentina» rese un gran servigio a Swann. Come un
titolo abilitante, gli permise di far penetrare l’immagine di Odette in un mondo di sogni dove finora
non aveva avuto accesso e dove s’imbevve di nobiltà. E mentre la visione meramente corporea che
aveva avuto di quella donna indeboliva il suo amore, rinnovandogli continuamente i dubbi sulla
qualità del suo viso, del corpo, di tutta la sua bellezza, i dubbi furono distrutti, l’amore reso sicuro
quando invece ebbe per base i dati di un’estetica certa; senza contare che il bacio e il possesso,
che sembravano naturali e mediocri se gli erano accordati da una carne sciupata, venendo a
coronare l’adorazione per un oggetto da museo gli parvero essere soprannaturali e deliziosi.
E quando era tentato di rimpiangere di non far altro da mesi che vedere Odette, si diceva che era
giusto dedicare gran parte del tempo a un capolavoro inestimabile, colato una volta tanto in una
materia diversa e particolarmente gustosa, in un esemplare rarissimo che egli contemplava talora
con l’umiltà, la spiritualità e il disinteresse di un artista, talora con l’orgoglio e la sensualità di un
collezionista.
Sul suo tavolo di lavoro, come una fotografia di Odette, mise una riproduzione della figlia di Jetro.
Ammirava i grandi occhi, il viso delicato che lasciava indovinare la pelle imperfetta, i boccoli
meravigliosi dei capelli lungo le guance estenuate; e adattando all’idea di una donna viva ciò che
finora aveva trovato bello in sede estetica, lo trasformava in meriti fisici che si compiaceva di
trovare riuniti in un essere da poter possedere. Quella vaga simpatia che ci spinge verso un
capolavoro mentre lo stiamo osservando, adesso che conosceva l’originale in carne ed ossa della
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figlia di Jetro diventava un desiderio che da allora in poi supplì a quello che il corpo di Odette da
principio non gli aveva ispirato. Quando aveva osservato a lungo quel Botticelli, pensava al suo
personale Botticelli che trovava ancora più bello, e avvicinando a sé la fotografia di Sefora gli
pareva di stringere Odette contro il cuore”.
3) La fuggitiva ossia Albertine scomparsa
“Parlava solo alla moglie, il resto dell’albergo sembrava non esistere per lui, ma nel momento in
cui un cameriere prendeva un ordine, e gli stava vicinissimo, alzava rapidamente gli occhi chiari e
lanciava su di lui un’occhiata che non durava più di due secondi, ma che nella sua limpida
trasparenza sembrava testimoniare di un genere di curiosità e di ricerche completamente diverso
da quella che avrebbe potuto animare qualunque altro cliente che avesse guardato, anche a lungo,
un fattorino o un commesso per fare su di lui delle osservazioni umoristiche o di altro genere da
comunicare poi ai suoi amici. Quell’occhiatina breve, disinteressata, mostrando che il cameriere lo
interessava di per se stesso, rivelava, a chi lo avesse osservato, che quell’eccellente marito,
quell’amante un tempo appassionato di Rachel aveva nella sua vita un altro piano, che gli
sembrava infinitamente più interessante di quello su cui si muoveva per dovere. Ma lo si vedeva
muoversi solo su quello. Già i suoi occhi erano ritornati su Gilberte, che non aveva visto nulla, le
presentava frettolosamente un amico e usciva “con lei a passeggio. Ma Aimé mi parlò allora di un
tempo molto più remoto, quello in cui avevo fatto la conoscenza di Saint-Loup, tramite la signora
di Villeparisis, in quella stessa Balbec.
«Ma sì, signore, mi disse, è arcinoto, è tanto tempo che lo so. Il primo anno che il signore è venuto
a Balbec, il signor marchese si rinchiuse in camera col lift, col pretesto di sviluppare delle fotografie
della signora, la nonna del signore. Il ragazzo voleva fare rimostranze, ci è costata una gran fatica
soffocare la cosa. E, ecco, signore, il signore si ricorda certo il giorno in cui è venuto a pranzare al
ristorante con il marchese di Saint-Loup e la sua amante, che al signor marchese serviva da
paravento. Il signore certo si ricorda che il signor marchese se ne andò col pretesto di essere in
preda a un accesso di collera. Certo non voglio dire che la signora avesse ragione. Gliene faceva
vedere di tutti i colori. Ma, quel giorno, non mi leveranno dalla testa la convinzione che la collera
del signor marchese fosse finta e che egli avesse bisogno di allontanare il signore e la signora.»
4) All’ombra delle giovani fanciulle in fiore
“Nel momento in cui Elstir mi chiamò per presentarmi ad Albertine, seduta un po’ più in là, finii
prima di mangiare una pasta al caffè, e chiesi con interesse a un vecchio signore che avevo appena
conosciuto, e a cui credetti di poter offrire la rosa che ammirava al mio occhiello, di darmi
particolari su certe fiere normanne. Non che la presentazione che seguì non mi abbia procurato
nessun piacere e non abbia rivestito ai miei occhi una certa gravità. In quanto al piacere,
naturalmente lo conobbi solo un po’ più tardi, quando, rientrato all’albergo, rimasto solo, fui
ritornato me stesso. Coi piaceri è come con le fotografie. Quel che si ottiene vicino all’essere
amato non è che un cliché negativo, lo si sviluppa dopo, ritornati a casa, quando si è ritrovata a
propria disposizione quella camera oscura interiore il cui ingresso è «vietato» finché si vede gente.
Se la conoscenza del piacere fu così ritardata per me di qualche ora, in compenso la gravità di
quella presentazione la sentii subito. Nel momento della presentazione, per quanto ci sentiamo
tutt’a un “tratto gratificati e in possesso di un «buono» valevole per piaceri futuri, che
rincorrevamo da settimane, comprendiamo bene che l’averlo ottenuto mette fine per noi non solo
a penose ricerche, il che non potrebbe che colmarci di gioia, ma anche all’esistenza di una certa
persona, quella che la nostra immaginazione aveva snaturata, che il nostro timore ansioso di non
poter mai essere conosciuti da lei aveva ingigantita. Nel momento in cui il nostro nome risuona
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sulla bocca di chi ci presenta, soprattutto se questi lo accompagna, come fece Elstir, con commenti
lusinghieri — quel momento sacramentale, analogo a quello in cui in una fiaba il genio ordina a
qualcuno di essere improvvisamente un altro — colei che abbiamo desiderato avvicinare svanisce:
e come potrebbe restare simile a se stessa, visto che — per l’attenzione che la sconosciuta è
costretta a prestare al nostro nome e a manifestare alla nostra persona — negli occhi ieri situati
all’infinito (e che credevamo che i nostri, erranti, mal regolati, disperati, divergenti, non sarebbero
mai giunti a incontrare) lo sguardo cosciente, il pen “siero inconoscibile che cercavamo, vengono
miracolosamente, e molto semplicemente, sostituiti dalla nostra immagine dipinta come in fondo
a uno specchio sorridente? Se l’incarnazione di noi stessi in quel che ci sembrava più diverso è ciò
che modifica di più la persona a cui ci hanno presentato, la forma di quella persona resta ancora
piuttosto vaga; e possiamo chiederci se essa sarà dio, tavolo o catinella. ”
5) Un amore di Swann, Dalla parte di Swann
“ E difatti l’amore di Swann era arrivato allo stadio in cui il medico, e in certi casi il chirurgo più
audace, si chiedono se privare un malato del suo vizio o estirpargli il male sia ancora ragionevole o
addirittura possibile.
Certo, Swann non aveva piena coscienza dell’estensione del suo amore. Quando cercava di
misurarlo, gli accadeva talvolta di trovarlo diminuito, quasi ridotto a niente; per esempio, in certi
giorni “li ritornava alla mente il poco gusto, quasi il disgusto, che, prima di amare Odette, gli
avevano ispirato i suoi lineamenti espressivi, il suo colorito senza freschezza. «È un progresso
notevole davvero, si diceva il giorno dopo. Obiettivamente, ieri non provavo quasi nessun piacere
a stare a letto con lei; è curioso, la trovavo persino brutta.» E certamente era sincero, ma il suo
amore si estendeva molto di là delle regioni del desiderio fisico. Perfino la persona di Odette non vi
occupava più molto spazio. Quando il suo sguardo incontrava sul tavolo la fotografia di Odette, o
quando lei veniva a trovarlo, faceva fatica a identificare il volto di carne o di cartoncino col
turbamento doloroso e costante che abitava in lui. Si diceva quasi con stupore: «È lei», come se ci
mostrassero, all’improvviso, esteriorizzata davanti a noi, una delle nostre malattie, e non la
trovassimo per niente somigliante alla nostra sofferenza. «Lei», Swann tentava di chiedersi che
cosa fosse; giacché una somiglianza fra l’amore e la morte, più di quelle troppo vaghe che si
ripetono sempre, è di farci indagare più a fondo il mistero della “personalità per paura che la sua
realtà si dissolva. E quella malattia che era l’amore di Swann si era talmente moltiplicata, si era così
strettamente mescolata a tutte le abitudini e a tutti i gesti di lui, al suo pensiero, alla sua salute, al
suo sonno, alla sua vita, perfino a ciò che desiderava per dopo la morte, faceva ormai talmente un
tutt’uno con Swann, che non si sarebbe potuto strappargliela senza distruggere anche lui quasi per
intero: come si dice in chirurgia, il suo amore non era più operabile.”
6. Sodoma e Gomorra
“Risalivo direttamente nella mia camera. I miei pensieri erano abitualmente legati agli ultimi giorni
della malattia della nonna, alle sofferenze che rivivevo, accrescendole di quell’elemento, ancora
più difficile da sopportare della sofferenza stessa degli altri e alle quali viene aggiunto dalla nostra
crudele pietà; quando crediamo soltanto ricreare i dolori di un essere caro, la nostra pietà li
esagera; ma forse è lei nel vero, più che della coscienza che di quei dolori hanno coloro che li
soffrono, ed ai quali viene nascosta quella tristezza della loro vita, che la pietà vede, e di cui si
dispera. Tuttavia la mia pietà avrebbe, in un nuovo slancio, superato le sofferenze della nonna se
avessi saputo allora quello che ignorai a lungo, ossia che, alla vigilia della sua morte, in un
momento di coscienza e assicurandosi che non fossi presente, aveva preso la mano di mamma, e,
dopo avervi poggiato le labbra febbricitanti, le aveva detto: «Addio, figlia mia, addio per sempre».
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E forse è anche per quel ricordo che mia madre non ha mai cessato di guardare così fissamente.
Poi mi ritornavano i dolci ricordi. Lei era mia nonna ed io suo nipote. Le espressioni del suo volto
sembravano scritte in una lingua che era fatta soltanto per me; era tutto nella mia vita, gli altri
esistevano solo relativamente a lei, al giudizio che mi avrebbe dato su di essi; ma no, i nostri
rapporti sono stati troppo fuggevoli per non essere stati accidentali. Lei non mi conosce più, non la
rivedrò mai. Non eravamo stati creati unicamente l’uno per l’altro, era una estranea. Di questa
straniera, stavo guardando la fotografia fatta da Saint-Loup. La mamma che aveva incontrato
Albertine, aveva insistito affinché la vedessi a causa delle cose gentili che le aveva detto sulla
nonna e su di me. Le avevo dunque dato appuntamento. Avvertii il direttore di farla aspet “tare nel
salone. Mi disse che la conosceva da molto tempo, lei e le sue amiche, molto prima che avessero
raggiunto l’«età della purezza», ma che rimproverava loro le cose che avevano detto sull’albergo.
«Si vede che non sono bene “illustrate” per parlare a quel modo. A meno che non siano state
calunniate.» Compresi facilmente che «purezza» stava per «pubertà». Aspettando l’ora di
incontrare Albertine, tenevo gli occhi fissi, come su di un disegno che si finisce per non vedere più
a forza di guardarlo, sulla fotografia che Saint-Loup aveva fatto, quando improvvisamente pensai
di nuovo: «È la nonna, io sono il nipote», come un ammalato di amnesia ritrova il proprio nome,
come un ammalato cambia di personalità. Françoise entrò per dirmi che Albertine era giunta e
vedendo la fotografia: «Povera signora, è proprio lei, ha perfino il suo neo sulla guancia; il giorno
in cui il marchese l’ha fotografata era stata molto ammalata, si era sentita male due volte.
“Soprattutto Françoise, mi aveva detto, non bisogna che mio nipote lo sappia.” E lo nascondeva
perfettamente, in società era sempre gaia. Quan “d’era sola, per esempio, trovavo che in certi
momenti sembrava avere lo spirito alquanto monotono. Ma questo passava presto. E poi mi disse
così: “Se mi capitasse mai qualche cosa, bisogna che abbia una mia fotografia. Non me ne sono
fatta mai una”. Allora mi mandò a dire al signor marchese, raccomandandogli di non raccontare al
signore che era stata lei a chiederlo, se poteva scattarle la fotografia. Ma quando sono ritornata
con la risposta affermativa, non ne voleva più sapere perché trovava di avere una faccia troppo
brutta. “È ancora peggio, mi disse, che nessuna fotografia.” Ma siccome non era stupida, finì per
acconciarsi così bene, mettendosi un grande cappello abbassato sugli occhi che non lasciava
scorgere nulla quando era in piena luce. Era molto soddisfatta della sua fotografia, perché in quel
momento non credeva che sarebbe ritornata a Balbec. ”
7) Dalla parte di Swann
“Quell’anno, quando, un po’ prima del solito, i miei genitori ebbero fissato la data del ritorno a
Parigi, la mattina della partenza, poiché per fotografarmi mi avevano fatto arricciare i capelli,
sistemato con cautela un cappello che non avevo ancora mai portato e fatto indossare un
cappottino di velluto, mia madre, dopo avermi cercato da per tutto, mi trovò in lacrime sul breve,
ripido sentiero, vicino a Tansonville, nell’atto di dire addio ai biancospini, mentre abbracciavo i
rami pungenti, e, come una principessa da tragedia a cui pesassero quei vani ornamenti, ingrato
verso la mano importuna che intrecciando tutti quei nodi aveva avuto cura di raccogliermi i capelli
sulla fronte125, calpestavo i miei bigodini strappati e il mio cappello nuovo. La mamma non si
commòsse alle mie lacrime, ma non potè trattenere un grido alla vista del cappello sfondato e del
cappotto da buttar via. Non l’udii: «Miei poveri, piccoli biancospini, dicevo piangendo, non voi,
certo, vorreste farmi del male, costringermi a partire. Voi, voi non m’avete mai fatto soffrire!
Perciò vi amerò sempre». E, asciugandomi le lacrime, promettevo loro che, quando fossi stato
grande, non avrei imitato la vita insensata degli altri uomini e, anche a Parigi, nei “voi, certo,
vorreste farmi del male, costringermi a partire. Voi, voi non m’avete mai fatto soffrire! Perciò vi
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amerò sempre». E, asciugandomi le lacrime, promettevo loro che, quando fossi stato grande, non
avrei imitato la vita insensata degli altri uomini e, anche a Parigi, nei giorni di primavera, invece di
recarmi a far visite e ad ascoltare sciocchezze, sarei corso in campagna a vedere i primi
biancospini.”
8) Il tempo ritrovato
“A poco a poco, conservata dalla memoria, è la catena di tutte le espressioni imprecise, in cui nulla
resta di ciò che abbiamo realmente provato, a costituire per noi il nostro pensiero, la nostra vita, la
realtà, e non farebbe che riprodurre una simile menzogna un’arte cosiddetta «vissuta», semplice
come la vita, senza bellezza, doppione talmente noioso e inutile di ciò che i nostri occhi vedono e
la nostra intelligenza constata, da chiedersi dove, chi vi si dedica, trovi la scintilla gioiosa e motrice,
capace di spronarlo e di farlo progredire nella sua impresa. Al contrario, la grandezza dell’arte
autentica, quella che il signor di Norpois avrebbe chiamato un gioco da dilettante, stava tutta nel
ritrovare, nel cogliere nuovamente, nel farci conoscere questa realtà da cui viviamo lontani, da cui
sempre più ci discostiamo via via che acquista spessore e impermeabilità la conoscenza
convenzionale che le sostituiamo, questa realtà che rischieremmo di morire senza aver
conosciuto, e che è semplicemente la nostra vita.
La vera vita, la vita finalmente messa a nudo e chiarita, di conseguenza la sola vita pienamente
vissuta, è la letteratura. Vita che, in un certo senso, dimora in ogni istante in tutti gli uomini non
meno che nell’artista. Ma non la vedono, perché non cercano di far luce su di essa. E così il loro
passato è saturo d’innumerevoli negative che restano inutilizzate perché l’intelletto non le ha
«sviluppate». La nostra vita; e così la vita degli altri; giacché lo stile per lo scrittore, come il colore
per il pittore, è una questione non di tecnica ma di visione. È la rivelazione, che sarebbe
impossibile con mezzi diretti e coscienti, della differenza qualitativa con cui il mondo ci appare,
differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno segreto di ciascuno di noi. Soltanto grazie
all’arte possiamo uscire da noi stessi, sapere ciò che un altro vede di questo universo, che non
coincide con il nostro, e i cui paesaggi sarebbero rimasti per noi sconosciuti quanto quelli che
potrebbero esserci sulla luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo
moltiplicarsi, e quanti più sono gli artisti originali, tanti più mondi abbiamo a disposizione, diversi
gli uni dagli altri più di quelli che girano nell’infinito, e che, molti secoli dopo che si è estinto il
focolare da cui emanavano, si chiamassero Rembrandt o Vermeer, ci inviano ancora il loro
caratteristico raggio di luce.
Questo lavoro dell’artista, dedito a scorgere sotto la materia, sotto l’esperienza, sotto le parole
qualcosa di diverso, è precisamente il lavoro opposto a quello che, istante dopo istante, quando
viviamo sviati da noi stessi, l’orgoglio, la passione, l’intelligenza, e anche l’abitudine compiono in
noi, allorché accumulano sopra le nostre vere impressioni, per nascondercele interamente, le
nomenclature, gli scopi pratici che chiamiamo falsamente vita. Insomma, quest’arte così
complicata è davvero la sola arte viva. Essa sola esprime per gli altri e indica a noi stessi la nostra
vita, quella vita che non può essere «osservata», e di cui le parvenze che osserviamo hanno
bisogno di essere tradotte e spesso lette a rovescio, e faticosamente decifrate. Il lavoro compiuto
in noi dall’amor proprio, dalla passione, dallo spirito d’imitazione, dall’intelligenza astratta, dalle
abitudini, questo lavoro l’arte lo dissiperà, e ci farà intraprendere un cammino a ritroso, ci farà
tornare alle profondità, ove ciò che è realmente esistito giace a noi ignoto.”
Passi di: Marcel Proust. “Alla ricerca del tempo perduto”. iBooks. […]”

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