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Giovedì 28 ottobre – ore 16,30 Auditorium Scavi di Pompei.
Il Direttore Generale dei Musei del MiC, Massimo Osanna, presenterà insieme ad Annalisa Capurso e Sara Matilde Masseroli il volume “I calchi di Pompei. Da Giuseppe Fiorelli ad oggi”. L’opera curata dall’ex direttore del Parco Archeologico di Pompei, insieme alle due studiose, rappresenta la prima vera analisi scientifica di una vera e propria collezione – quella dei calchi pompeiani – da sempre oggetto della più attenta curiosità di ogni visitatore. Il volume – diviso in tre sezioni (Archeologia e vulcanologia; Indagini diagnostiche e restauro; L’esposizione) con un esauriente Catalogo di tutti i calchi realizzati visibili ancora oggi o dispersi – raccoglie numerosi contributi di vulcanologi, archeologi, antropologi in una visione multidisciplinare che appare come ineludibile per chi oggi vuole percorrere le strade della conoscenza del nostro passato.
Nell’ambito del Grande Progetto Pompei, oltre alle improcrastinabili attività di documentazione e messa in sicurezza delle strutture della città antica nonché al restauro di numerosi edifici, è stato intrapreso anche un sistematico lavoro di ricognizione, catalogazione e studio dei manufatti conservati nei vari depositi distribuiti all’interno del Parco Archeologico e in numerose domus
, utilizzate come provvisori magazzini. L’attenzione agli oggetti, alla loro materialità, alla loro biografa, non poteva non includere i famosi calchi delle vittime, una “collezione” unica che, strano a dirsi, nonostante celeberrima, non era mai stata oggetto di uno studio sistematico.Il progetto intrapreso nel 2014 è stato preliminarmente indirizzato ad un intervento di restauro. I calchi infatti, a parte sin-goli interventi di restauro avvenuti in occasioni (non documentate) in cui erano stati oggetto di traumi, non erano mai stati interessati da un progetto sistematico che partisse dalla loro materialità. Non era noto neppure il numero esatto dei calchi realizzati e preservatisi sino ai nostri giorni. La maggior parte degli studi si era limitata ad un approccio meramente bibliografico che non teneva conto di tutto il potenziale informativo insito in que-sta straordinaria “collezione”. Ovviamente per procedere al restauro si è innanzitutto portato avanti un complessivo censimento di tutti i calchi e frammenti di calchi distribuiti in maniera poco coerente all’interno degli spazi fruibili del parco o in depositi piùo meno organizzati. Parallelamente è stata effettuata una sistematica ricerca di archivio in modo da reperire quanto disponibile di una documentazione mai raccolta in maniera sistemica.Una volta terminata la complessa ricognizione e raccolto tutto il materiale documentario disponibile si è proceduto a elaborare il progetto di restauro che ha interessato tutti i calchi re-periti, considerandone stato di conservazione, dinamiche di degrado, analisi osteologica e della composizione del materiale usato per realizzare la forma. Come era prevedibile, le scoperte e le nuove acquisizioni sono state numerose . I dati riguardano tanto la biografia delle vittime (grazie alle radiografie effettuate e alle analisi del DNA), il loro aspetto,
status , salute, ecc. fino alle dinamiche della morte; quanto la tecnica di realizzazione dei calchi, le variazioni nella composizione del gesso utilizzato,il trattamento riservato alle ossa al momento della creazione della forma.Dati interessantissimi vengono ad esempio dall’analisi del materiale impiegato nella realizzazione, soprattutto se considerato nella diacronia, nella lunga durata della pratica, tra 1863 e oggi. Non siamo di fronte ad una evoluzione e un progressivo perfezionamento della tecnica, quanto piuttosto al contrario: i calchi del XIX secolo sono generalmente migliori di quelli del XX secolo, e in particolare di quelli realizzati nel dopoguerra. I materiali utilizzati erano migliori: si passa da un alabastro di notevole qualità e particolarmente puro dei primi calchi ad una composizione che conosce l’impiego della scagliola prodotta industrialmente, a partire dallo scorcio dell’800. Materiale assaipiù economico e scadente verrà progressivamente utilizzato e in particolare nel dopoguerra, dando vita a realizzazioni decisa-mente meno plastiche e rispondenti all’originaria impronta la-sciata nella cenere indurita: il gesso edilizio di bassa qualità fa perdere infatti fedeltà all’impronta, che in più casi risulta rimodellata. Negli anni ’80 del XX secolo si utilizzerà inne anche il cemento, facendo seguito ad un impiego pervasivo della materia nelle pratiche di cantiere: si realizzano così manufatti assai pesanti e allo stesso tempo più fragili.Il presente volume rappresenta dunque la prima disamina complessiva e sistematica dei calchi pompeiani, di cui è ora pos-sibile seguirne le vicende a partire dalla prima scoperta avventurosa e singolare, e per tutta la loro storia scandita da peregrinazioni da un luogo all’altro, tra disastri bellici, scomparse e riapparizioni, che si svolge nel corso della “seconda vita”di Pompei, tra l’inverno 1863 ed oggi.Come ormai consuetudine consolidata a Pompei, si è deciso di intraprendere un progetto di edizione che rispondesse all’approccio utilizzato nel corso della ricerca e del restauro, ossia una raccolta di saggi multidisciplinare, coinvolgendo nel lavoro ar-cheologi, antropologi fisici, vulcanologi, archeobotanici, archeozoologi, restauratori, architetti, informatici, radiologi, medici,nella consapevolezza che una materia così complessa non po-tesse che essere approcciata con un team di specialisti di diversi settori disciplinari invitati a dialogare costantemente sui vari aspetti che le rinnovate analisi e gli interventi di restauro porta-vano alla ribalta.Il Grande Progetto Pompei ha rappresentato l’avvio di un generale ripensamento dei modelli di gestione e fruizione del sito archeologico. È stata tracciata una strada finalizzata ad individuare le metodologie e le attività necessarie per procedere al passaggio dalla straordinarietà a un’attività conservativa costante e programmata. Il monitoraggio del sito e la sua manutenzione rappresentano condizioni imprescindibili per la sua tutela, e questa andrà perseguita sistematicamente nei prossimi anni, ma al contempo bisogna continuare con la ricerca sistematica. Riteniamo che questo rappresenti una condizione imprescindibile per la trasmissione di un inestimabile patrimonio alle future generazioni. Per fare questo non è possibile tra lasciare aspetti fondamentali come la ricerca, l’approfondimento della conoscenza, la sperimentazione delle tecnologie di intervento,e last but not least la comunicazione e la divulgazione dei saperi e delle conoscenze. Con questo lavoro sui calchi si assolve ad un debito scientifico fondamentale. Quello che resta da fare è definirne luogo di deposito e esposizione permanente, che ri-sponda alle esigenze di conservazione di un patrimonio tanto importante quanto fragile.
Il Vesuvio è divenuto il vulcano più noto al mondo (fig. 1), lo stereotipo del vulcano, proprio a seguito della scoperta dellecittà romane di Pompei, Ercolano e Stabia, sepolte dalla cenere e dai lapilli prodotti dall’eruzione del 79 d.C.Per la scarsissima documentazione storica disponibile su questa eruzione, descritta esclusivamente nelle due lettere di Plinio il Giovane a Tacito, l’evento aveva destato solo un mo-desto interesse da parte dei contemporanei e nei secoli successivi,no ai primi ritrovamenti archeologici del XVIII secolo. Da allora, e con il progredire dei rinvenimenti, le ricerche archeologiche e naturalistiche sull’eruzione vanno di pari passo con il miglioramento delle tecniche di scavo e di indagine scientica;in un periodo storico nel quale sia l’archeologia, sia la geologia iniziano a delinearsi come specifici ambiti di ricerca, e la diffusione delle conoscenze diventa sempre più tempestiva su scala mondiale.Nella comprensione della catastrofe è possibile individuare alcuni momenti distinti.Per i contemporanei, e nel corso dei secoli successivi al-l’evento e no alla riscoperta delle città sepolte, la percezione della reale natura della fenomenologia vulcanica e della suaentità era certamente molto vaga. Ciò a causa della quasi assoluta assenza di conoscenze scientiche, e di esperienze dirette di eventi simili. Al più, per immaginare i fenomeni responsabili della totale devastazione del territorio vesuviano si poteva fare riferimento ad atre eruzioni, molto più modeste, di vulcani in aree popolate, quali l’Etna, le isole Eolie, o lo stesso Vesuvio,per altro poco attivo almeno dall’età tardo-antica al 1631,quando si verificherà una eruzione sub-pliniana che inaugureràun periodo di frequente attività eruttiva che continuerà fino al-l’ultima eruzione del marzo 1944. Pertanto, la percezione dellacatastrofe narrata da Plinio il Giovane doveva risultare perlo-meno confusa.Successivamente, con la riscoperta delle città sepolte daspessori di ceneri, lapilli e tu, di metri o decine di metri, sipercepiva, per la prima volta nella storia, quale potesse essere lareale entità di una catastrofe vulcanica.Ma, in realtà, eruzioni esplosive analoghe, o anche maggiori rispetto a quella del 79 d.C., sono comuni nella storia geologicadei vulcani esplosivi a livello planetario e sono documentate anche nella stratigrafia relativamente recente degli ultimi mil-lenni.Tali catastro, pur frequenti sulla scala dei tempi geologici,sono raramente avvenute in aree popolate o comunque in tempistorici.Ma proprio tra il XIX e l’inizio del XX secolo, eruzioni esplosive catastrofiche, quale quella del Tambora nel 1815, delKraKatoa nel 1883, in Indonesia, della montagna Pelee nella Martinica nel 1902, rivelano drammaticamente, e con ampia diffusione mediatica, le fenomenologie siche, la portata e le conseguenze sugli insediamenti umani e sull’ambiente, di violente eruzioni esplosive.Solo dall’esperienza di tali eventi osservati e documentati direttamente, si cominciava a comprendere in modo più chiarola catastrofe del 79 d.C., per semplice analogia con disastri più recenti.Ma, ancora fino agli inizi degli anni settanta del secoloscorso, a fronte dei notevoli progressi nelle scienze geologiche,non sono ancora chiari i reali meccanismi eruttivi e deposizionalidelle eruzioni pliniane pertanto l’interpretazione della stratigrafia vulcanica dell’eruzione del 79 d.C. resta ancora vaga e contro-versa.Solo con i nuovi modelli vulcanologici sviluppati nel corso degli anni ’80 e ’90, sulla base di studi di eruzioni, quali adesempio quella del Mount St. Helens nello Stato di Washingtonnel 1980, o quella del Pinatubo nelle Filippine nel 1991, non-ché, di simulazioni siche e numeriche, si poteva pervenire finalmente a una definizione più rigorosa e quantitativa dei mec-