Piano di Sorrento, il racconto del lunedì del Prof. Ciro Ferrigno: «’A mellunessa»

Piano di Sorrento. Riportiamo il consueto racconto del lunedì del Prof. Ciro Ferrigno che, con la sua arte e bravura narrativa, ci guida anche questa volta alla scoperta di antiche tradizioni legate al nostro territorio: «Tanti anni fa, quando le stagioni erano stagioni, belle e puntuali, il gran caldo arrivava a fine luglio e continuava per buona parte di agosto, nel periodo chiamato del Solleone, proprio per l’entrata del sole in quel segno zodiacale ed abbracciava l’intero periodo di ferragosto. Era un caldo torrido, atteso, considerato normale e si escogitavano per tempo, tutte le difese possibili. Una era il mangiare l’anguria, dalla polpa acquosa e zuccherina, rossa come il fuoco, come recita l’adagio: “Mange e vive” o, meglio, “Mange e vive e te sciacque ‘a faccia”.
Nel periodo del Solleone in paese i venditori di cocomeri creavano ‘mpuosti di rivendita in alcuni spazi particolarmente trafficati, accatastandoli a piramide, l’uno sull’altro; ne ricordo uno in Piazza della Repubblica, ma altri ce n’erano in Piazza Cota e a Madonna di Rosella. Cocomeri erano in vendita presso i normali negozi di frutta e verdura e poi passavano alcuni verdurai con la carretta e l’asinello, come Cumpà Jennare, o Giosì con la sua ape, che davano la voce per richiamare la clientela. Un’anguria pesa, pesa molto, per cui poterla comperare sotto casa era una comodità da non lasciarsi sfuggire. Il gran consumo di questo frutto, dava vita ad un commercio non da poco conto: c’erano sensali che si recavano nei luoghi di produzione, in particolare nel salernitano, ed acquistavano il prodotto di interi territori, per poi rivenderlo. I cocomeri arrivavano in penisola su carri, ma molto spesso dalla Puglia via mare, con lunghe e faticose operazioni di carico e scarico.
La regina delle angurie era ‘a mellunessa, di forma allungata, grande, rossa, profumata e, garanzia della buona qualità, era proprio la presenza delle vespe, che ronzavano intorno a quelle tagliate e rendevano necessaria una copertura con veli e reti protettivi. Allora, in quegli anni lontani, non esisteva l’uso dell’odiosa plastica, oggi onnipresente.
Quando non c’erano ancora i frigoriferi, bisognava comunque mettere al fresco le angurie ed ognuno si industriava come poteva. C’erano famiglie che utilizzavano grotte e cantine, ma chi teneva il pozzo era più fortunato. Si poneva l’anguria in un panno ben legato e, utilizzando una corda, la si calava nell’acqua della cisterna, dove rimaneva il tempo utile per diventare gelida. Altri invece, acquistavano pezzi di ghiaccio, proveniente dalle neviere del Faito e ponevano in una bacinella o in un grande pentolone il cocomero col ghiaccio.
Il momento di maggior consumo era la vigilia dell’Assunta, quando i nostri mangiavano, per penitenza, solo pane ed anguria e se ne faceva largo uso tra i partecipanti intorno ai grandi falò che illuminavano rioni e spiagge, piazze e colline, tra canti e giochi, balli ed ingenui corteggiamenti. Fette di anguria rinfrescavano la gola di quante si riunivano le sere della Novena per il Rosario cantato, negli androni pieni di fiori delle case. Il rituale era simile anche in tutte le ville, dove passavano l’estate le famiglie nobili, che trascorrevano l’altra parte dell’anno nei loro palazzi napoletani; ma tutto era più fine e le fette venivano servite in preziosi vassoi d’argento. La vigilia dell’Assunta si giocava a mosca cieca proprio col melone. Una persona bendata doveva colpire con una pertica l’anguria sospesa ad una corda, su in alto e chi ci riusciva, riceveva un premio. Talvolta, il giovane vincitore, poteva addirittura aspirare al bacio di una ragazza presente, a sua scelta, ed allora il gioco, e l’inusitata trasgressione, diventavano la premessa ad una storia d’amore.
Tante volte anche un semplice frutto è capace di narrarci la storia minuta di una comunità, di quando ci si accontentava di poco, lo stare assieme era la cosa più gradita e la terra non dava segnali di disfacimento. La divisione dell’anguria in tante fette era una ritualità addirittura sacrale, segno di appartenenza, comunione e di forte condivisione. Ciò era ed è alla radice dell’essere parte di una famiglia allargata, quella che noi chiamiamo popolo».

Piano di Sorrento, il racconto del lunedì del Prof. Ciro Ferrigno: «’A mellunessa»

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