A Meta, Francesco Forni ha presentato il suo nuovo concept album: Una Sceneggiata.






Meta (NA) Il Primo luglio l’accogliente giardino di Emilia Vittoria Russo, la vera anima dell’organizzazione no profit e progetto culturale “Metaverso²²” ha fatto da cornice al concerto di Francesco Forni, cantautore napoletano, ma romano d’adozione con una lunga carriera alle spalle fatta anche di prestigiose collaborazioni: Giovanni Truppi, James Senese, Marina Rei, Maurizio Capone, gli storici interpreti del Collettivo Angelo Mai e tanti altri. Il cantante, che da alcuni anni forma un duo di successo molto apprezzato in Italia e all’estero con la talentuosa cantante e violinista, Ilaria Graziano, ha presentato il suo ultimo progetto discografico “Una Sceneggiata” (SoundFly) il primo interamente in lingua napoletana. Un concept album di 13 brani, che ruotano intorno alla storia di “Spacciatore”, che è anche il protagonista dell’omonimo spettacolo teatrale con soggetto di Pierpaolo Sepe e drammaturgia a firma di Andrej Longo. “Una Sceneggiata” che descrive una storia d’amore nata tra i vicoli del centro storico di Napoli, che nelle tredici tracce declina passioni e sentimenti descritti dall’autore in modo originale e autentico senza nascondere le umane fragilità e contraddizioni caratteristiche di ogni rapporto. La vicenda cantata da Forni è una sorta di West side Story ambientata a Napoli, come ha sottolineato più di un critico musicale. Un giovane spacciatore che grazie al guadagno facile si sente ormai ricco e potente, il padrone della piazza di spaccio, s’innamora di una ragazza di buona famiglia che di lui odia e disprezza proprio quell’attività che lo ha reso “importante” agli occhi di tanti nel quartiere. Le conseguenze delle sue scelte saranno drammatiche, il crimine alla fine presenta sempre il suo conto amaro, come fa La Sposa, uno dei personaggi più faustiano della eterogenea galleria creata da Forni, donna che è sopravvissuta essa stessa a delusioni e dolori, e che da vittima si è trasformata in carnefice. Ma quando tutti sembreranno girargli le spalle compreso l’amico di sempre Mercuzio, toccherà a Dragonbol, tossico/supereroe, provare a salvare lo Spacciatore, sacrificando se stesso, quasi una citazione allo splendido film di Gabriele Mainetti “Lo chiamavano Jeeg Robot. Ma Dragonbol è anche il Deus ex machina del teatro greco classico, che offre soluzioni inattese al dramma che si celebra in scena, ma soprattutto lascia in eredità a noi spettatori: domande sulle quali riflettere; un leitmotiv dell’opera di Forni che la rende colta, elegante, ricercata e molto interessante. Questa che segue è l’intervista che Francesco Forni mi ha gentilmente rilasciato prima del concerto, un professionista e un musicista che è stato un vero piacere conoscere.
Quando scopri la passione per la musica?
Sicuramente l’ambiente familiare sempre ricco di stimoli mi ha aiutato. Sia mio padre che mia madre erano appassionati di musica, ho uno zio che insegna al conservatorio, io stesso ho frequentato il conservatorio contemporaneamente alla frequenza dei corsi della Facoltà di Architettura. Ho potuto così coltivare da subito l’amore per la musica, che si è indirizzato come strumento sulla chitarra, soprattutto quella elettrica, ma amo anche basso elettrico, tammorra, tamburello, percussioni, archetto, glockenspiel, programming.
Come ti definiresti come musicista?
Sono un chitarrista, un compositore e un arrangiatore che ha una predilezione per le produzioni musicali teatrali e le colonne sonore.
Qual è il genere musicale che senti più vicino alle tue corde?
Amo il blues, da lì comincia l’amore per la musica, ma sono le musiche di Ennio Morricone che mi hanno sedotto, fin da bambino le ascoltavo incantato e completamente preso da quelle armonie.
Quali sono i tuoi miti tra i chitarristi?
Certamente i nomi che potrei farti sono quelli legati agli anni ’60 e ’70. Penso a Jimi Hendrix, Jimmy Page e David Gilmour. Imparavo a suonare la chitarra ascoltando e ripetendo all’infinito i loro pezzi, mentre il canto è venuto dopo, fondamentalmente quando ho scoperto Jeff Buckley, il suo sound e il suo modo di cantare mi piace molto. Ma a tutti questi musicisti vanno aggiunti Pino Daniele e Roberto De Simone, perché il teatro e la musica d’autore Made in Naples sono parte di me. Io vivo a Roma da quasi vent’anni, dal 2004 per la precisione, ma la mia napoletanità è rimasta quella di sempre. Qualche tempo fa ho lavorato ad un’opera teatrale “Spacciatore”, con soggetto di Pierpaolo Sepe, in quell’occasione per esigenze di copione ho rispolverato la mia conoscenza della lingua napoletana scrivendo una serie di brani in vernacolo. Da quest’esperienza è nato poi il progetto musicale “Una sceneggiata”, tredici tracce tutte in lingua napoletana con la supervisione di Dario Sansone.
A teatro hai espresso il tuo talento solo cantando o anche recitando?
Ho anche recitato e a questo proposito devo ringraziare la regista Annalisa D’Amato, che mi ha coinvolto nello spettacolo “IO NON SONO”, chiedendomi in quell’occasione di suonare e cantare. Un progetto molto bello ispirato ad alcuni testi dei pensatori orientali Rumi e Shankara, con tantissime citazioni musicali: echi di Tom Waits e richiami barocchi, suggestioni rock e polifonie senza tempo, atmosfere brechtiane e retrogusti latino-americani, e ancora pop, sonorità da B-movie e il jazz.
Preferisci il teatro classico di De Simone o quello contemporaneo di Moscato?
Sono entrambi rappresentanti di ottime drammaturgie, sia quella proposta da Roberto De Simone che quella interpretata da Enzo Moscato, del resto siamo al cospetto di due mostri sacri del teatro italiano. Non saprei scegliere.
Il tuo rapporto con il cinema e quello d’animazione in particolare?
Ho conosciuto Alessandro Rak in occasione della realizzazione dell’Arte della Felicità, si era entusiasmato per il mio pezzo “On y va”, poi a questo è seguito il brano “Lastrada” che Ilaria Graziano firma con me. Da allora c’è stato grande feeling con Rak e il cinema d’animazione.
Come nasce il duo con Ilaria Graziano?
Tanti anni fa già collaboravamo insieme ma si trattava di cose non programmate, estemporanee, vivevamo entrambi a Napoli e capitava suonassimo insieme, anche con altri musicisti. Quando anni dopo Ilaria è tornata da Londra abbiamo ripreso a suonare insieme. Poi un giorno è capitato, mi sembra di ricordare fosse a Berlino, che le persone a fine concerto ci chiedessero il disco di noi due, che noi non avevamo perché prima di allora non l’avevamo neanche concepito. Così, quasi per caso e su richiesta pressante dei fan, è nato uno dei nostri album più belli “From Bedlam to Lenane*”. *(“From Bedlam to Lenane” (Goodfellas 2012) acclamato dalla stampa come uno dei migliori del 2012; è stato anche apprezzato dalle radio; il circuito RAI ha voluto il duo Graziano – Forni in diverse trasmissioni come “Caterpillar” sui Radio 2 Rai (intervista + minilive); “Fahrenheit”, in onda su Radio 3 Rai in diretta dalla fiera della piccola e media editoria “PIU’ LIBRI PIU’ LIBERI “; “Twilight” Radio 2 Rai (intervista + minilive); ““Casello Casello” Isoradio Rai (intervista). “From Bedlam to Lenane” ha portato il duo in giro per l’Italia con oltre 80 concerti, alcuni dei quali di grande risonanza, come le aperture ai concerti di Max Gazzè di Milano e Roma nello scorso tour del musicista romano. N.d.A.)
Che cosa, musicalmente parlando, Ilaria ha dato a te e viceversa?
Quando ci siamo conosciuti sicuramente Ilaria era più cantante di me e io più musicista. Lavorare insieme ha aiutato me nel canto e forse io le ho dato più sicurezza nell’approccio agli strumenti musicali. Ricordo di averle regalato un ukulele e di come lei con caparbietà e costanza l’abbia imparato a suonare e poi da lì migliorarsi con la chitarra. Insomma suonando insieme ci siamo completati.
Raccontami di “Una sceneggiata”?
Come ti dicevo stavo lavorando a testi in vernacolo creati per l’opera di Pierpaolo Sepe, ad un certo punto mi sono fatto prendere la mano, sentivo che la mia lingua madre mi dava la possibilità di esprimere al meglio emozioni e sentimenti che avevo dentro di me e avevo la necessità di tradurre in parole e musica. In queste tredici tracce c’è sempre qualcosa di autobiografico. Nel senso che la storia di questo Spacciatore, di Dragonbol etc. è certamente invenzione letteraria, ma i personaggi rappresentano per me degli archetipi che mi hanno permesso di riflette su concetti che appartengono a tutti noi. Per esempio il mio “Mercuzio”, che non a caso rimanda a quello shakespeariano, mi ha permesso di riflettere sulla complessità dell’amicizia. Mercuzio è molto amico di “Spacciatore” ma nello stesso tempo è innamorato della ragazza dell’amico e quando il loro rapporto entra in crisi è combattutissimo. Mercuzio dovrà scegliere se essere fedele all’amico o corteggiare la donna di cui è innamorato, che potrebbe renderlo veramente felice. Mi piaceva scandagliare queste dinamiche sentimentali molto forti. Così come con “Spacciatore” ho avuto la possibilità di confrontarmi con l’archetipo dell’uomo di successo, che ha tutto: amore, soldi e potere, ma che fonda tutto questo su di un’attività criminale che prima o poi gli presenterà il conto, che potrebbe essere anche molto salato. A me interessava anche analizzare la condizione di questi ventenni che grazie ai proventi della droga credono di avere il mondo ai loro piedi e, senza esprimere giudizi, mettere in risalto che tutto ciò che ci succede nella vita è sempre una conseguenza di scelte operate in precedenza. Spacciatore è colui che si crede invincibile ma è destinato a scoprire che è solo un gigante dai piedi d’argilla.
In “Serenata” invece è all’amore che ti ispiri?
Si, è un brano che più di altri mi ha permesso di raccontare convinzioni e pensieri che ho marurato negli anni sull’amore e che senza la poesia e la musica non sarei mai riuscito a esprimere. Ma devo aggiungere che altre canzoni dell’album parlano d’amore come “Pure si fosse” e “Addore ‘e primmavera”. Questi ultimi mi hanno dato la possibilità di approfondire le sfumature di certi sentimenti che ci tengono legati ad un altro, così come le tante contraddizioni che caratterizzano le relazioni tra un uomo e una donna. A me piace porre l’accento sulle nostre fragilità di esseri umani, non amo le immagini edulcorate, basate sui soliti cliché, descrivo sentimenti che ho imparato a conoscere nella realtà che riflettono spesso le nostre fragilità.
Ascoltandoti ho come l’impressione che l’idea era quella di un album “carnale”, se mi passi l’espressione, dove l’ispirazione è alimentata dai tuoi sentimenti più profondi. Questa carnalità è ribadita dalla scelta di scrivere in ligua napoletana e nella scelta di ricorrere al genere teatrale più napoletano: la sceneggiata.
Sì, in parte sono d’accordo con te, ma devo aggiungere che mi sento molto ispirato anche dal teatro greco classico. Come scrive Aristotele: in esso viene rappresentato l’inconscio ed ha funzione catartica. Non a caso il mio album si chiude con “Prenditi cura di me” che è anche una preghiera ed è un momento catartico.
Infine, a che genere musicale ritieni appartenga questo tuo progetto?
Credo che si inserisca bene nella World Music, ma con un’anima decisamente napoletana che non è solo rappresentata dal linguaggio, ma anche dagli strumenti che suono nei vari brani, tammorre e tamburelli, il mandoloncello in questo caso di un Maestro come Michele Signore, e i mandolini affidati a Luigi Scialdone.
Grazie a Francesco Forni
di Luigi De Rosa
