Water Fools Impressions: “Plenitudo temporis est, ubi nullum tempus est”

L’evento di grande richiamo, nella sua unicità, è stato firmato dal Campania Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi. Grande pubblico sull’intero lungomare e sul waterfront est di Piazza della Libertà

Di OLGA CHIEFFI

“e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l’acqua nulla ne ‘nghiottiva”.
Il secondo canto del Purgatorio della commedia dantesca ci è balenato alla mente nel vedere il principio delle fantasmagorie di Water Fools, l’evento tanto invocato dal nostro governatore, una gentile invasione del nostro waterfront, da Piazza della Libertà all’intero Lungomare. Macchine, giochi di luce, giochi pirotecnici, per noi uomini della fine. Ancora una volta a donarlo è Ruggero Cappuccio, col suo Campania Teatro Festival, che con la sua introduzione allo spettacolo ci invita ad osservare due linee di giudizio, quella di ratio e quella iniziatica, di cogliere le provocazioni suggestive, della mescolanza, del finito e infinito, di umano e divino, del vero e falso, dell’unità, l’Uno della Musica, da cui nascono, quasi per emanazione, tempi e misure. L’umano come insieme di homo faber e di spirito entrambi costruttivi sta abbandonando l’umano stesso: è il tempo della fine. Incanta lo spettacolo della compagnia Ilotopie, per la regia di Dominique Noel e la creazione musicale di Phil Sprectrum, i quali hanno diretto una quindicina d’attori e i fuochisti Julien Lemonnier e Robin Noel. Uno spettacolo che ci invita a tornare indietro, ai primordi, poiché il tempo è ormai saturo, e quando il tempo è pieno non è più, dice Eckart. E’ proprio vero che quando il tempo è alla fine riluce la sua pienezza e quando l’uomo è alla fine, esplode la sua umanità.
Ecco l’urgenza di abbandonare ogni intento di controllo del suono, dei movimenti, del razionale e tentare di scoprire i mezzi che consentano all’artista di essere se stessi. E nel dire le cose, nel dire il silenzio presente nei suoni delle cose, la parola nel suo domandare deve riaccendere la meraviglia Meraviglia che non è solo incanto o superamento estatico della ragione, ma è e continua ad essere riflessione: la riflessione del cogito che prova insieme l’angoscia del silenzio – ossia della morte – e la gioia della parola nel suono delle cose. Nessuna parola in questo spettacolo, ma altri linguaggi, colori, una storia chiara, in cui si invita a pulire la nostra terra, il nostro mare, a leggere, a tornare a sognare, a far la guerra con gli scacchi, un gioco che vale la vita, non con i fucili, tra angeli e demoni che si scontrano in un inferno di fuoco, l’odissea dei migranti, su musiche che schizzano l’occhio all’elettronica, ai carillon fiabeschi, con citazioni da Nino Rota e Khachaturian, un linguaggio che si è fatto teatro d’acqua, che lascia un’ombra, che abbaglia, fluido e transeunte, terribilmente instabile e tuttavia voluminoso, marino. Applausi a scena aperta dalla enorme platea che ha letteralmente abbracciato tutti gli artisti in scena.

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