Trentaquattro anni fa il crollo di un’ala del Palazzo d’Amato a Maiori: il racconto di Sigismondo Nastri

Trentaquattro anni fa il crollo di un’ala del Palazzo d’Amato a Maiori: il racconto di Sigismondo Nastri. Riportiamo di seguito le parole del giornalista di Amalfi, Sigismondo Nastri:

Era il 27 giugno 1988. Festa patronale ad Amalfi. A trentaquattro anni di distanza ricordo ancora, nitidamente, quella brutta storia che sconvolse la vita degli abitanti di Maiori: il crollo di un’ala del palazzo D’Amato, al corso Reginna, che provocò sei vittime innocenti tra gli abitanti dello storico edificio, uno dei più belli della cittadina. Vi rimasero uccisi anche i due malfattori che, per mettere in atto una truffa a una compagnia di assicurazione, avevano appicato il fuoco in un negozio di abbigliamento. Successe prima dell’alba. Abitavo al parco Cocomero, in viale Capone. Ne fui immediatamente informato. Arrivai di corsa sul luogo della tragedia. E senza pensarci su, sottraendomi a ogni controllo, riuscii ad arrampicarmi sulle macerie. Avevo una Polaroid, scattai delle foto. Due di esse particolarmente significative: il cadavere di uno degli attentatori, che emergeva dalla massa di pietre e calcinacci, e le taniche dalle quali era stata versata la benzina, causa dello scoppio. In costante contatto – non facile, perché all’epoca non c’erano i cellulari – con Umberto Belpedio, capo della redazione salernitana del Giornale di Napoli, che coordinava il mio lavoro.

Telefonai subito il servizio, mandai a mano le foto affidandole a un autista della Sita. Nella stessa mattinata – per decisione del direttore Antonio Sasso – il giornale uscì in edizione straordinaria e fu distribuito anche a Maiori.

Quando entrarono in azione i carabinieri il colonnello che dirigeva le operazioni, informato della mia intrusione, minacciò di denunciarmi se avessi pubblicato le foto, dato che riprendevano corpi di reato non ancora repertati e sottoposti ad esame. Io m’ero spostato intanto su un terrazzo che s’affacciava sulle rovine per seguire ‘attività della Scientifica. Riuscii a riprendere anche il momento in cui fu aperta la valigetta con gli strumenti di lavoro. Il colonnello mandò da me due carabinieri che volevano sequestrarmi le foto. Intanto le avevo già messe al sicuro (e c’è chi, essendosi prestato a farmi da… “complice”, può testimoniarlo).

Avvertii Umberto. Mi disse che le avrebbe comunque pubblicate. Noi stavamo compiendo nient’altro che il nostro dovere di giornalisti. L’indomani uscirono (tranne quella del cadavere, troppo cruenta: è conservata nel mio archivio). Continuai a seguire la vicenda nei giorni successivi in tandem con Eduardo Scotti, inviato speciale del quotidiano. Facemmo, insieme, giornalismo vero: di informazione – precisa, corretta, completa -, ma anche d’inchiesta.

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