Piano di Sorrento, lettera di Domenico Cinque al Vescovo sul Giuspatronato: “Le sue scelte ledono i diritti e la Storia della comunità”

Piano di Sorrento. Domenico Cinque da 16 anni ha fatto propria la “lotta” per difendere il diritto allo “jus patronatus”. Una voce nel deserto fino a quando il tema non è tornato alla ribalta con prepotenza a seguito dell’annunciato trasferimento di Don Pasquale Irolla che a settembre lascerà la Parrocchia di San Michele Arcangelo per raggiungere l’isola di Capri. Ed in campo è scesa anche l’Arciconfraternita “Morte e Orazione” di Piano di Sorrento che ora affianca Domenico nella sua battaglia per il ripristino di un diritto negato. Domenico Cinque ha scritto una lettera in cui si rivolge al Vescovo dell’Arcidiocesi Sorrento-Castellammare di Stabia e cita innanzitutto il paragrafo 74 della “Gaudium et spes”: “Sia però lecito difendere i diritti propri e dei concittadini contro gli abusi dell’autorità, nel rispetto dei limiti dettati dalla legge naturale e dal Vangelo” e poi il canone 212 §3 del Codice di Diritto Canonico: “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi (i fedeli) hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone”.
Ed ecco il testo della lettera: «Eccellenza, chi le scrive non rappresenta altro che se stesso e l’amore per la sua terra e le sue tradizioni, un fedele fra i tanti, ma è convinto di portare l’eco che giunge dai nostri avi vissuti secoli fa. Un popolo di gente umile ma leale, che aveva a cuore la comunità e con essa la parrocchia in cui viveva. Gente seria a cui non servivano contratti o scritture private e che i patti li siglava con una stretta di mano. Questa gente, che spesso faticava a mettere insieme il pranzo con la cena, ha eretto le nostre chiese e curato le esigenze del clero. Il giuspatronato, termine inviso al clero di oggi, non è un privilegio ma è un diritto che quella gente ha conquistato.
Eccellenza guardi le belle chiese della Penisola, su ogni pietra troverà le gocce di sudore del contadino che si spaccava la schiena per vivere eppure donava parte del suo già misero ricavo per abbellire la casa di Dio e, se non aveva abbastanza denaro, contribuiva con parte del raccolto. Guardi i bei dipinti e si renda conto che su ogni tela ci sono le lacrime delle mogli e delle madri che aspettavano il ritorno di chi si guadagnava la vita sul mare e nonostante i sacrifici destinava una quota della paga alla sua parrocchia. Guardi i bei marmi che ornano colonne ed altari e consideri che su ogni lastra di marmo ci sono le notti insonni dei nostri commercianti che dovevano far quadrare i conti della bottega e della famiglia. Ogni chiesa, ogni cappella della nostra bella penisola è intrisa di sudore e lacrime di chi nei secoli ha donato parte del suo lavoro, della sua vita, alla collettività.
La Chiesa di allora, che è anche quella di oggi, con quelle persone strinse un patto, gli garantì che in cambio di quei contributi avrebbero potuto eleggere chi poi quei beni avrebbe gestito e cioè il Parroco e l’amministrazione laica. Un patto codificato dalla Chiesa ed a cui oggi nei fatti la Diocesi viene meno unilateralmente. I fedeli invece quel patto lo continuano ad onorare, dopo il terremoto del 1980 l’allora amministrazione laica della Parrocchia di San Michele, con altri personaggi che godevano della stima della collettività, girò porta a porta per raccogliere o una somma una tantum o un impegno da parte della famiglia a versare periodicamente una cifra, il tutto per restaurare la Basilica rovinata dal sisma. Se poi Ella si troverà in visita a San Michele guardi le porte di bronzo e sappia che sono state finanziate dai fedeli che sono giunti a donare i propri gioielli d’oro per raccogliere la cifra necessaria.
Chi le scrive non è qui a chiedere il ripristino di un privilegio, ma è qui a pretendere un ritorno alla legalità che vuol dire un ritorno al rispetto delle norme e degli impegni. Sì la legalità, bella parola di cui spesso Lei ed altri Vescovi si sono riempiti la bocca ma poi, nei fatti, le norme vengono dalla Diocesi calpestate, ignorate, eluse. Qualche anno fa l’ultimo parroco della Parrocchia di San Michele disse in un’omelia che la Chiesa non è una democrazia ma una monarchia illuminata, si sbagliava! Il monarca illuminato governa rispettando le regole e le norme, il monarca che invece governa eludendo le regole che egli stesso si è dato, che non rispetta gli impegni assunti è semplicemente un despota. In questo momento la nostra diocesi, spiace dirlo, ma si comporta da despota eludendo, non violando (almeno al momento), le regole e considerando i fedeli sudditi e non fratelli.
Eccellenza le chiedo solamente un ripensamento, un atto di amore verso il suo popolo di cui è pastore ma che conosce così poco, un atto che ripristini la legalità da troppo tempo violata nei fatti. Le chiedo di riconoscere un diritto sacrosanto perché conquistato con i sacrifici di generazioni di carottesi, metesi, santanellesi e sorrentini. Le chiedo di indire al più presto libere elezioni in tutte le parrocchie che godono del diritto di “jus patronatus”, tutte da troppo tempo senza parroco. Scelga Lei liberamente le terne da sottoporre al voto, è una Sua prerogativa indiscussa. Scelga, ma poi ci lasci votare, lasci che un popolo eserciti un suo diritto, si comporti da sovrano serio ed illuminato e non da despota rinchiuso nella sua torre d’avorio e nel suo silenzio.
Oggi altre voci ben più autorevoli si stanno unendo alla mia che da 16 anni cerca di diffondere la conoscenza dello “jus patronatus” nella speranza che la conoscenza porti poi a pretendere l’esercizio di quel diritto. Ciò non può che rallegrarmi, discutere della nostra Storia, difendere un diritto che gli avi ci hanno tramandato, non solo è cosa buona e giusta ma è esercizio doveroso come sarebbe doveroso da parte Sua adempiere ad un obbligo specifico da troppo tempo eluso nella convinzione errata che poi il popolo avrebbe dimenticato, avrebbe rimosso e si sarebbe adeguato allo “status quo”. Ultimo gesto sinceramente fuori luogo Lei lo ha fatto in occasione della celebrazione delle Cresime il 17 giugno quando tra tanti sacerdoti con cui concelebrare ha scelto don Marino, scientemente ha voluto sottolineare, affiancandolo a don Pasquale, che il destino di quest’ultimo sarà lo stesso piaccia o no alla comunità dei fedeli. L’esibizione dei due sacerdoti sull’altare di San Michele come una sorta di trofeo in ostentazione del suo potere basato sull’elusione delle regole credo abbia superato il limite del buon gusto e solo l’educazione dei miei concittadini hanno evitato spiacevoli contestazioni. Chi ha capito subito il segnale che Lei ha voluto dare ha preferito lasciare la Basilica per rispetto verso il Padrone di Casa ma a molti è sembrato veramente un guanto di sfida lanciato alla nostra comunità che forse sta alzando la testa per rivendicare un suo sacrosanto diritto.
Eccellenza da fedele non posso che obbedire alle sue indicazioni in tema di dottrina della Fede, da uomo mi permetto di non condividere le sue scelte in tema di giuspatronato ritenendole lesive dei diritti e della Storia di un’intera comunità.
Auspicando un suo ripensamento la saluto distintamente».

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