La Cambiale dei giovani

Successo, al Teatro Verdi di Salerno, per la farsa di Gioachino Rossini, affidata ad un valente cast. Per i saluti finali tutti in scena anche gli attrezzisti

Di Olga Chieffi

(fotocourtesy Nicola Cerzosimo ph.)

Ci piace iniziare dalla fine questa volta, dai saluti finali, dalle rose, che in questa, purtroppo, unica recita de’ “La cambiale di matrimonio”, farsa giovanile di Gioachino Rossini, che ha riaperto le porte del teatro Verdi alla lirica, dopo la spaziale performance di Giovanni Sollima, alla testa dell’ orchestra giovanile Luigi Cherubini. Un segno forte è stato offerto dalla direzione artistica del massimo cittadino, in questa riapertura, con un saluto finale in palcoscenico, a cui tutti hanno partecipato, ricevendo l’abbraccio del pubblico e ricambiandolo, anche gli attrezzisti e gli elettricisti, coloro che non vediamo ma che stanno dietro le quinte, “gli invisibili”, che con questa pandemia lo sono divenuti doppiamente. Partecipazione corale ed empatica di quanti hanno lavorato e ascoltato la musica di Rossini, per questa farsa in cui ci siamo ritrovati tutti a “giocare” tra le note del cigno di Pesaro. L’emozione palpabile, la disabitudine alla scena e alla buca, un po’ dell’intero cast, si è potuta toccare sin dall’inizio della pungente sinfonia (un sapiente riciclo di una pagina a più strumenti obbligati del 1809) che comincia con quello splendido Andante Maestoso che lascia emergere il primo corno, in un sensibile e non semplice solo che, purtroppo, è stato “sporcato” quasi per intero, per cedere ad uno di quei Vivaci dall’irresistibile ritmo, in cui il Maestro Tommaso Turchetta alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana, ha tenuto un po’ troppo. Sulla scena, schizzata da Sara Galdi, al servizio della regia di Raffaele Di Florio, che, per usare un termine caro a Daniel Oren, ci è sembrato un gran mish-mash, con una scrivania del ventennio che campeggiava sul palcoscenico, tra vasi di spezie di ceramica italiana non lontani dagli albarelli di foggia settecentesca, mentre l’opera si svolge ai principi dell’Ottocento, nella casa-ufficio del negoziante inglese Tobia Mill, son comparsi i personaggi, oltremodo caricati, specialmente i protagonisti, con il tenore amoroso Edoardo, Slook e il padrone di casa, vicini quasi al cartoon, unitamente ai pertichini, mentre il ruolo dei servitori ha seguito l’uso moderno, ovvero quello dell’’istrionismo senza eccessi. Sul podio, il maestro Turchetta, di cui abbiamo pur apprezzato un gesto elegante, garbato, non è riuscito in pieno ad ottenere quel fine perlage dall’orchestra, che ha tenuto un po’ sacrificata nell’espressione e nel ritmo, incamerando anche qualche scollamento tra buca e palcoscenico, in particolare nella prima parte, dissoltisi, però, nella seconda, che lo ha portato ad arrivare saldamente alla doppia stanghetta finale. Tra i cantanti, si sono imposte le voci maschili più gravi, in particolare Paolo Ingrasciotta che, nei panni dello scaltro Slook, ha esibito diversi numeri tecnici e vocali, a sostegno di un fraseggio indovinato e gusto interpretativo che hanno reso la sua interpretazione efficace e apprezzata dal pubblico per le simpatiche intuizione e quel “ma” che diverrà caratteristica dell’aria della Rosina del Barbiere di Siviglia. La stessa istintiva teatralità è stata riscontrata nel Tobia Mill di Alessandro Luongo. Il baritono è stato validissimo attore esprimendo la combinazione di ridicolaggine e dignità, comicità e patetismo. Superba la prova dei due servitori, duttile e dalla buona linea di canto, Maurizio Bove, un Norton ammiccante e spassoso e sopra le righe Francesca Manzo soprano, la cui voce sa adattarsi anche ai ruoli come la Clarina, che ha segnato il suo debutto assoluto in un titolo rossiniano, misurata, dal fraseggio vario e istrionico, dalle agilità disseminate risolte con piglio. La coppia di amorosi è risultato l’anello un po’ meno rilucente della produzione: qualche disomogeneità del tenore Filippo Adami, che ha dato voce ad Edoardo Milfort, nascoste dalla prudenza del cantante e qualche asprezza nel registro acuto e con un vibrato esagerato nell’aria di sortita, da parte della Fanny di Nina Solodovnikova, la quale, in seguito ha evidenziato fraseggio intelligente e cura della parola. Considerando la giovane età di tutto il cast, vi sono tutte le premesse per un ulteriore approfondimento e una coscienziosa maturazione dei mezzi, da assecondare con l’oculata scelta del repertorio. Applausi per tutti, come scrivevamo, non per ultimo, al maestro al cembalo Maurizio Iaccarino, che ha realizzato i recitativi secchi, dalla platea del teatro.

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