I riti della Settimana Santa nelle parole dell’antropologo Giovanni Gugg, originario di Massa Lubrense

Riportiamo l’interessante articolo dell’antropologo Giovanni Gugg, originario di Massa Lubrense, sui riti della Settimana Santa.
Oltre le ovvie connotazioni sacre, la Pasqua è la festa dedicata al “passaggio” stagionale, quella che – scrive Claudio Corvino – divide l’anno nelle due uniche stagioni che contano nel ciclo agrario: «viern’» e «’a staggione», due momenti separati da un evento religioso che tutta la cristianità vive come ciclico e cosmico: la morte e la resurrezione di Cristo (che fa della Pasqua, più del Natale, la festa fondante la cristianità, appunto). In questa ricorrenza, secondo l’interpretazione di Luigi Maria Lombardi Satriani, il sangue è l’elemento simbolico dominante del dramma pasquale, nel quale il primo atto è rappresentato dalla passione e dalla morte, mentre il secondo atto viene espresso dal trionfo della resurrezione, ossia la vera vita nella quale simbolicamente viene coinvolta l’umanità.
Nel napoletano, il passaggio dei due momenti stagionali sembra sottolineato con particolare efficacia dai riti del Venerdì Santo che si tengono in Penisola Sorrentina da un lato e sull’isola di Procida dall’altro.
Nel primo caso il riferimento è alle processioni funebri che si tengono di sera, al buio: cortei lugubri di svariate Arciconfranternite dei comuni peninsulari, i cui membri, indossando eleganti abiti neri (o di altri colori del lutto o del sangue), espongono oggetti simbolici e statue sacre, come quella della Madonna Addolorata, la cui disperazione è discretamente espressa da un fazzoletto bianco tra le dita della mano. Pur nelle loro singole e specifiche caratteristiche, le processioni peninsulari hanno forti toni penitenziali e si snodano nei rispettivi centri abitati delineando una geografia sacra che sembra voler riaffermare i confini, la cultura e la protezione di ciascun paese.
Nel secondo caso, invece, la processione procidana è tutta primaverile, diurna e festiva: i confratelli – i “Paputi” – sono vestiti di bianco e azzurro e trasportano la statua del Cristo Morto, mentre la madre – rivestita di nero da cinque donne a ciò delegate – è la Madonna Immacolata. La notte è scandita dai suoni cupi di una tromba e di un tamburo che annunciano la morte di Dio, ma il corteo avviene all’alba, col sole che sorge sul mare e la luce che invade le stradine isolane.
Nel suo libro “La Pasqua. Riti e miti della Settimana Santa a Piano di Sorrento” (Nicola Longobardi editore, 2009), Ciro Ferrigno scrive: «Io sono quello che la notte del Venerdì santo deve scendere in strada per vedere la Processione Nera… non scendere sarebbe come non ascoltare più la voce di mia madre che mi dice di svegliarmi ed andare, non sarei più parte della mia gente, non saprei più chi sono, da dove vengo e dove vado». È in questo forte sentimento identitario, il primo valore dei riti della Settimana Santa: l’atmosfera creata da quelle imponenti sfilate è un insieme di ricordi e sensazioni, di suoni e sapori, di profumi e senso di appartenenza. Come ogni tradizione, quei rituali danno l’illusione della permanenza, eppure riescono costantemente ad adattarsi ai tempi e alle esigenze, perché la celebrazione popolare, quando è viva, è un forte collettore sociale che permette alla comunità nel suo insieme – e a ciascuno nella sua individualità – di riconoscersi intorno ad una specifica pratica.
In quanto riti religiosi, le processioni del Venerdì Santo sono innanzitutto espressioni di fede che veicolano i caratteri specifici delle rispettive comunità: dagli assetti sociali alla cultura musicale a quella figurativa o gastronomica. Se osservate come manifestazioni sociali e culturali, però, esse si caratterizzano sempre per una scena e per un fluire. Nel primo caso mi riferisco alle migliaia di figuranti che sfilano silenziosamente e in maniera solenne per le strade dei centri storici e delle frazioni, agli oggetti della Passione mostrati alla folla di visitatori, alle decine di fiaccole, croci, stendardi e canti polifonici in latino su salmi biblici. Rinnovandosi anno dopo anno, tutte queste pratiche concorrono ad articolare un’unica celebrazione liturgica e folklorica lunga un’intera settimana, che dimostra notevoli capacità organizzative e un rilevante impegno di famiglie, confraternite, gruppi culturali. In altre parole, ciascun rituale di questo periodo – minuto o spettacolare che sia – partecipa alla scansione di un momento altamente emozionale che stringe a sé l’intero corpo sociale, fungendo così da collettore e da specchio. Queste liturgie, cioè, assurgono ad una funzione specifica, quella di narrare e drammatizzare dei sentimenti immensi ed esemplari: un dolore e poi una gioia, un lutto e poi una rinascita, ossia la sofferenza della Madre che ha perso il Figlio, ma che alla fine trionfa sulla morte.
Il secondo elemento, il fluire, sta nella modalità stessa del rito: attraverso la pratica del passo le persone si riconoscono perché insieme camminano, ma al tempo stesso vivono un’esperienza individuale in cui si interrogano sui rapporti tra Terra e Cielo, per comprendere la fragile condizione umana e la sua costante spinta verso l’alto. La processione è un viaggio che, come il pellegrinaggio, è sia reale che interiore, sia individuale che collettivo: un movimento di ascensione al sacro che permette un rinnovamento non solo di se stessi, ma anche del vincolo devozionale.
Attraverso il movimento dell’andata e del ritorno, di un ritorno alla quotidianità arricchiti da questo intenso esercizio spirituale di rigenerazione, le processioni della Settimana Santa descrivono il momento forte in cui i significati simbolici conferiscono alle azioni un valore di salvezza e di rifondazione. Sono una pratica di rinnovamento che affonda le radici in un passato arcaico. Inglobando perfettamente l’eterno dualismo di morte e rinascita, la drammatica popolare di questi giorni ripropone il racconto biblico della creazione e, con questa, l’inizio mitico dell’umanità. In altri termini, la natura, il raccolto, la vita stessa rinascono ciclicamente e, pertanto, quell’istante va celebrato in maniera adeguata.
Per fare qualche esempio, torniamo alla fine dell’Ottocento, quando nel giorno di Pasqua, nel bergamasco, i contadini e i proprietari dei fondi agricoli avevano l’abitudine di abbracciare gli alberi da frutta e, similmente, nel siracusano si era soliti rivestire dei rami d’arancio con frutti e piantarli nei campi. Lo stesso, su un piano simbolico, accade ancora oggi in Penisola Sorrentina con la colorata rifioritura metaforica delle palme di confetti o dei caciocavallini sui rami d’olivo. In realtà lo stesso vale anche a dimensioni più ampie, quelle della società consumistica, sebbene il senso profondo si sia progressivamente dileguato in forme di ostentazione e di accaparramento: cos’altro è, in origine, l’uovo di cioccolata se non uno scrigno di sorprese e di sorrisi per grandi e piccini, ossia una promessa di vita nuova?
Nel 1882, nel primo volume dell’“Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, descrivendo un libro inglese dedicato alla Pasqua, Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino osservano: «la Pasqua [è] la storia dell’umanità. [Sebbene] questa festa a poco per volta [sia] andata perdendo di usi e pratiche, [è ancora] un segno della multiforme eredità che noi abbiamo ricevuta dai nostri antichi. Essa è un anello che ci lega a’ padri che sono iti ed ai figli che saran per venire».
Tenacemente fedeli a se stessi, eppure costantemente rinnovati, i riti che vanno dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua sono un racconto tradizionalmente codificato del dolore e della speranza, una rappresentazione socialmente stabilita della comunità e della sua struttura, una strategia culturalmente elaborata del processo di identità e di appartenenza. Narrando una vicenda esemplare, il gruppo narra se stesso: le sue fatiche e speranze, i suoi fallimenti e successi. Questi rituali, sottolinea Vito Teti, «costituiscono un grande ordito letterario, mitico, religioso, […] antico ed attuale (come lo sono la morte e la vita)», e ai quali nessuno di noi può sottrarsi.

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