L’antropologo Giovanni Gugg: “Il patrono di Sorrento Sant’Antonino e la simbologia del miracolo della balena”

Riportiamo un bellissimo articolo dell’antropologo Giovanni Gugg, originario di Massa Lubrense: «Il rapporto tra sant’Antonino abate e il mare è molto stretto, come sanno i suoi devoti e tutti coloro che hanno visitato con curiosità la sua basilica a Sorrento. Le decine di ex-voto pittorici esposti nella cripta testimoniano un nesso speciale che, nei secoli, soprattutto i marinai e i pescatori hanno instaurato con il patrono cittadino: sono quadri di miracoli a vascelli, piroscafi e pescherecci che, un po’ ovunque nel mondo, mostrano come lo spazio dei sorrentini sia anche il mare che circonda la penisola su cui vivono, anzi anche il mare più lontano, quello che diventa oceano. A conferma della peculiare relazione tra il santo e il mare, va aggiunta la toponomastica, come nel caso di punta Campanella, il luogo in cui la superficie della penisola si trasforma in orizzonte, il fondale in cui dal 1558, secondo una leggenda, ogni 14 febbraio risuona la campana della chiesa dell’antico abate, saccheggiata dai nemici, ma miracolosamente trattenuta in questa contrada grazie al suo prodigioso intervento.
C’è, tuttavia, un ulteriore elemento del legame che sant’Antonino ha col mare, forse il più ricorrente e rappresentato, il cosiddetto “miracolo della balena”. L’episodio, inevitabilmente circondato da un alone leggendario, risalirebbe a 1400 anni fa, quando l’allora vescovo sorrentino avrebbe salvato un bambino inghiottito da un grande pesce o, appunto, una balena: un ovale affrescato nella navata centrale della basilica (foto 1), un grande osso conservato all’esterno della chiesa (foto 2) e le due statue principali in città (in piazza Sant’Antonino, foto 3, e in piazza Tasso, foto 4) narrano una storia carica di simbolismo, una delle più antiche del bacino mediterraneo, riconoscibile in innumerevoli varianti nel corso del tempo.
Il primo pensiero va certamente al profeta Giona, vissuto tra il IX e l’VIII secolo a.C. che, nel secondo capitolo del suo libro biblico, racconta di essere stato inghiottito da un «grande pesce» e di essere restato al suo interno per tre giorni e tre notti, prima che Dio stesso esaudisse la sua preghiera e lo liberasse su una spiaggia. Quella vicenda, poi, è stata citata nel vangelo di Matteo per predire la resurrezione di Cristo: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Matteo: 12,40). I tre giorni, nel linguaggio biblico, sono il tempo che rendono definitiva la morte e, dopo i quali, il ritorno alla vita è considerato straordinario. La balena – o qualche mostro mitologico – è un’allegoria del caos primordiale dal quale gli esseri umani devono affrancarsi per vivere realmente. Quella della balena, però, è una pancia singolare, perché il profeta non vi viene digerito, ovvero distrutto dagli acidi, bensì accolto come se fosse una caverna in cui vivere un periodo di sospensione, una fase liminale che porta al rinnovamento. La rigenerazione all’interno della balena – per mezzo di preghiere, meditazioni o esami di coscienza – torna, nei secoli successivi, in molti racconti: ne “La storia vera” di Luciano di Samosata (vissuto nel II secolo), l’autore immagina che, di ritorno dal viaggio sulla luna, la sua nave venga ingerita da una balena enorme, al cui interno vi è addirittura un’isola abitata da alcune tribù; nei “Cinque Canti” di Ludovico Ariosto (pubblicati postumi nel 1545), prima aggiunti e poi tolti da “L’Orlando furioso” (1516), si narra di Astolfo ingurgitato da un cetaceo a causa della maga Alcina; ne “Lo Cunto de li cunti” di Giambattista Basile (1634), la protagonista di una favola, Nennella, finisce in un «grande pesce fatato» dove trova splendidi giardini, una casa signorile e, soprattutto, dove diviene bella come una ninfa; ne “Le avventure del barone di Münchhausen” di Rudolf Erich Raspe (pubblicate nel 1781) il protagonista riesce a uscire dalla pancia di un pesce grazie alla sua astuzia; nella fiaba “Il soldatino di stagno” di Hans Christian Andersen (1838), il soldatino innamorato della ballerina resta sempre sull’attenti all’interno del pesce da cui è stato fagocitato; nel “Pinocchio” di Carlo Collodi (1881), la metamorfosi definitiva del burattino in bambino matura proprio dentro il pescecane in cui ha ritrovato Geppetto, suo padre.
Il bambino sorrentino liberato dal vescovo Antonino, avvertito dalla mamma angosciata e da una popolazione sconvolta, è la metafora di un’umanità rigenerata dopo aver sperimentato il limite oltre il quale vi è solo disperazione: lo stomaco della balena è, in realtà, un utero che dà la possibilità di ritornare alla vita, è cioè il tempo di gestazione del mutamento, nonché il luogo di realizzazione del desiderio. La presenza numinosa di sant’Antonino permette di annullare il disordine, di gestire l’incertezza, di controllare la paura; il suo intervento salvifico consente la risoluzione positiva di un processo senza fine, quello di dare un argine alla precarietà del vivere che, oggi come millenni fa, è il mistero più insormontabile degli esseri umani».

L’antropologo Giovanni Gugg: “Il patrono di Sorrento Sant’Antonino e la simbologia del miracolo della balena”

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