Massa Lubrense, il ricordo del terremoto del 23 novembre 1980 nelle parole di Lello Acone

Massa Lubrense. In occasione del 41esimo anniversario del terremoto del 23 novembre 1980 riportiamo uno scritto molto intenso di Lello Acone: «Era una domenica, e chi se la scorda più, una domenica uguale a tutte le altre che trascorrevo da studente universitario mantenuto dai miei: la mattina si era andati con l’autobus di Lucio ad assistere alla partita dell’allora Juve Massa in trasferta dalle parti di Torre del Greco, ricordo che si passava vicino a quel convento che si vede in alto su quella collina dalla fermata di via Monaci della Circumvesuviana, il risultato non lo ricordo, mi ricordo solo che faceva un gran caldo per quel periodo. La sera, invece, stavamo in piazza, io, Gianni, Maria Grazia e Caterina, parte del nostro gruppo di amici del periodo, ad attendere alla solita ora, il solito “passaggio” per Sorrento, meta delle nostre quotidiane passeggiate, per un gelato o una pizzetta. All’improvviso, erano le 19 e 34, mi sentii percorrere da una stana sensazione come un malessere, sembrava che il mondo mi girasse intorno ed il campanile della Chiesa oscillasse paurosamente: “ragazzi” – esclamai – “non mi sento bene, mi gira la testa!”. “Anche a noi”, fu la risposta unanime dei miei amici. Fu un attimo, non so se di sorpresa o di paura e realizzammo (mi vengono ancora i brividi a pensare a quei momenti) quello che era accaduto. L’orologio del campanile si fermò a quell’ora, l’energia elettrica venne meno, tanti ma tanti abbaiare di cani e tanta tanta gente che arrivava in piazza da tutte le parti!
I collegamenti telefonici saltarono, ricordo che quando dopo qualche ora, papà riuscì a tornare a casa (lavorava al cinema di Vico) ci disse che aveva vissuto uno dei momenti più brutti della sua vita dopo aver sentito del terremoto, delle prime notizie di vittime anche in penisola sorrentina e di non riuscire a sapere nulla della moglie e dei figli e solo adesso che ci vedeva sani e salvi, anche se impauriti, poteva sentirsi tranquillo: stava con la sua famiglia, con la ragione della sua vita, insieme alle sue persone più care! Di quei primi momenti ricordo anche quando, uscendo dal municipio, il medico di guardia (la guardia medica era lì situata), il simpatico dr. Iannone, gli mando un saluto dovunque egli sia, disse che il comandante dei vigili di allora, il compianto Fois, quando sentì il boato successivo al terremoto esclamò: “ ‘E cche’ è già v’nut Natal’ chist’ann’!” ed invece mai potevamo immaginare noi, solo sfiorati, che immane tragedia stava avvenendo ad un paio di centinaia di chilometri di distanza!
La cosa che più ricordo di quei primi momenti e dei giorni successivi fu la grande solidarietà che si stabilì tra i miei concittadini in quelle prime notti passate all’addiaccio nelle automobili. Non esisteva più il ricco o il povero, chi non aveva un’auto era ospitato da chi magari ne aveva due (che belle le auto dell’epoca, le 132, le 500, le alfa romeo come quella dei vigili o di Don Peppino,  le 1100 come quella di Don Saverio, le ford fiesta primo modello, le lancia, ecc.) e persone di tutte le età si davano da fare a girovagare per tutta la notte con termos sempre pieni di the, caffè e addirittura latte al cioccolato per i bambini, o a portare legna da ardere nei vari falò sparsi per le piazze. Ci volevamo tutti bene e pur nella consapevolezza del disagio e dell’esperienza dura che ci trovavamo a vivere eravamo in un certo qual senso felici di vivere quelle giornate. Ricordo, con un sorriso, la sera del 24 quando all’approssimarsi della stessa ora, tanta gente credeva, non so in base a che cosa, che l’evento si sarebbe ripetuto e forse in maniera peggiore e i loro sguardi sollevati, quando alle 19 e 35 nulla era accaduto.
Prima di concludere voglio rendervi nota un’esperienza personale vissuta in quei giorni. Essendo stato “assunto” come vigile provvisorio per il sisma, insieme ai tanti che poi son rimasti a farlo, fui incaricato di accompagnare il personale della soprintendenza che stava redigendo un rapporto sui danni subiti dalle nostre Chiese a fare il giro delle chiese. Durante questo giro venni a sapere che a Pastena, ospitati dalla congiunta Carmela, moglie di un poliziotto in servizio a Sorrento, il simpatico Pasquale, erano venuti “sfollati” da Lioni, uno dei paesi più tremendamente colpiti dal terremoto nell’alta Irpinia, la mamma, uno zio e le sorelle. Stringemmo una vera amicizia con quelle persone, sentivamo i loro discorsi su quanto avevano vissuto, vedevamo i loro occhi riempirsi di lacrime nel raccontarlo e partì una vera gara di solidarietà nei loro confronti. Un giorno che dovevano ritornare al loro paese per svolgere alcuni adempimenti, mi chiesero se volessi accompagnarli a vedere il loro paese distrutto: di slancio accettai e al mattino presto partimmo. Un paio d’ore di viaggio, la Napoli Bari, uscita Grottaminarda e poi la statale verso Sant’Angelo dei Lombardi – Lioni. Erano posti bellissimi in mezzo al verde, ma c’era un qualcosa sempre più di drammatico, intere code di camion militari, ambulanze, elicotteri e tante macchine con i bagagliai stracolmi e piene di persone, soprattutto di bambini impauriti (scusate un attimo, mi fermo perché mi sta venendo da piangere) con il naso incollato al finestrino. Ma il peggio doveva ancora venire, quando arrivammo a Lioni, vidi uno spettacolo che non dimenticherò più e che avevo visto solo nei film, praticamente il paese non c’era più, centinaia di case distrutte e quelle che non erano cadute, si erano accartocciate paurosamente su se stesse…
Nel campo sportivo un enorme accampamento, con grosse tende destinate ad ospitare i sopravvissuti, alcune più grandi che facevano da Chiesa, Scuola e da Sala Pranzo. Alcuni piangevano, dicendo che non c’erano più bare per seppellire i tanti morti e che comunque si doveva fare in fretta per evitare epidemie anche se il freddo di quelle montagne dava comunque un aiuto. Di quella gente di montagna ricordo comunque la fierezza, il saper accettare quello che stava capitando loro e la voglia di rimboccarsi le maniche e di agire soprattutto per aiutare quelli che erano rimasti ed erano più bisognosi di aiuto. Era un popolo di emigranti ed in occasione di quella tragedia erano tornati per aiutare i loro congiunti o per seppellire i loro morti, gente dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia ma soprattutto dall’Argentina e dal Venezuela, gente che tornava dopo decenni con i loro figli che non avevano mai visto la terra natia dei propri genitori e adesso la vedevano ridotta ad un cumulo di macerie. In quel giorno mi resi conto, forse per la prima volta, che la vita è costretta un giorno, quando Dio vuole, a finire: fino ad allora non avevo avuto esperienza dirette di questa Sorella, per dirla alla San Francesco, – i miei nonni, erano morti quando ero piccolo, poi ho conosciuto il dolore struggente per la perdita del mio angioletto Alexanda, di papà, di mio suocero e di tanti zii, e realizzai, promettendo a me stesso, che fino quando ne avessi avuto il tempo, avrei sempre dovuto cercare di fare qualcosa di buono per gli altri: da allora spero sempre di rispettare quella promessa fatta al cospetto di quel triste scenario. Insieme a quegli amici ed ai loro familiari pranzammo nell’accampamento e, ricordo, che mi fecero mangiare salumi e formaggi buonissimi, andati a recuperare in quel che restava delle loro case, e me ne diedero anche da portare a casa! Non avevano niente ma quel che poco che avevano, era di tutti!
La sera quando ci preparammo a partire, salutarono parenti e amici e piangendo, si scambiarono la reciproca promessa che sarebbero tornati (come infatti fu dopo qualche anno) perché quella era la loro terra e là sarebbero tornati a qualunque costo! Fin quando rimase a Pastena la signora Carmela, rimanemmo in contatto con quella famiglia e l’amicizia continuò anche dopo: ricordo che ci invitarono anche al matrimonio della sorella Antonietta a cui, felice di andare, mi recai con mamma, alla guida della nuova 126 verde di papà, che un po’ riluttante e con tante raccomandazioni, mi aveva concesso di prendere. Erano passati solo un paio di anni, ma quella gente laboriosa d’Irpinia, aveva ricostruito il loro Paese: quando arrivammo, in una splendida giornata di sole, sembrava non avere nulla in comune con il paese visto distrutto solo qualche anno prima: solo i contorni delle colline e la strada erano rimaste gli stessi, per il resto tutto cambiato, nel campo sportivo si disputava la partita, la Chiesa con le campane era stata ricostruita al suo posto e così la scuola, il palazzo del comune. Solo al posto delle case c’era un’enorme distesa di fabbricati che a vederli sembravano anche belli come villette ma non appena entrati si capiva quanta sofferenza doveva ancora essere vissuta da quelle fiere genti: “Lello”, mi diceva Carmela, “speriamo di avere al più presto una vera casa, perché in questi prefabbricati fa caldo d’estate e freddo d’inverno e i bambini si ammalano e gli anziani soffrono”. Allora capii quanto può essere importante vivere tra quattro mura che son mura! Le chiesi di voler andare al Cimitero per rendere omaggio e recitare una preghiera per le tante vittime, e rimasi colpito da quelle centinaia di tombe che recavano impressa la stessa data di morte, 23 novembre 1980 ma gli anni più disparati di nascita, ’54, ’61, ’29, ………ma quelle che mi riempirono il cuore di tristezza e di dolore, se ce n’era ancora spazio, furono quelle con impressi gli anni ’77, ’78, ’79, ’80, quelle di tanti bambini chiamati ad essere angioletti troppo presto……………………. In Loro ricordo questo mio scritto………».

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