Piano di Sorrento, il giornalista e confratello Fabrizio d’Esposito ricorda Giosuè Perrella

Piano di Sorrento. Fabrizio d’Esposito ricorda Giosuè Perrella nel giorno il cui la comunità gli ha dato l’estremo saluto. Fabrizio d’Esposito è originario di Piano di Sorrento ed è un giornalista de “Il Fatto Quotidiano”, ma soprattutto è confratello dell’Arciconfraternita Morte e Orazione di cui Giosuè è stato Priore per tantissimi anni. Ecco le sue bellissime parole pubblicate sulla pagina Facebook “La Processione Nera”: «L’eredità di Giosuè. Giosuè Perrella camminava sempre, senza fermarsi mai.  E’ stato questo il primo pensiero quando Michele Gargiulo mi ha annunciato la morte del nostro ex priore “nero” nonché ultimo “mast ’e festa”, maestro di festa, di questa terra. Ossia, il bilancio di una vita dinamica contrapposto al buio statico della malattia e della finitezza umana. Giosuè camminava dodici mesi all’anno per preparare San Michele, la Settimana Santa e anche altre feste o iniziative pianesi. Quando la processione si ritirava, il suo commento a caldo si tramutava sovente in un rimprovero severo: “Ci siamo fermati troppe volte”. Era difficile tenerlo “imprigionato” nella fratellanza, con il bastone del priore, durante il lungo periodo in cui è stato al vertice dell’Arciconfraternita. Ed è per questo che ricordo la sua gioia quando io e Michele gli proponemmo di tornare a fare il cerimoniere. Era la metà degli anni Novanta e per l’occasione fu riscoperta l’antica tradizione di passare, la sera del Venerdì Santo, sotto il “ponte di ferro” in Piazza Cota. Giosuè riprese la “bacchetta” e fu giovane come una volta, quando iniziò a organizzare la processione anche per vocazione familiare, seguendo le orme del padre.

L’amicizia con Giosuè ha attraversato quotidianamente la mia vita per quasi un decennio, dal 1988 fino ai miei primi anni romani e milanesi, alle soglie del nuovo millennio. Un rapporto che nacque per la mia inclinazione a ribellarmi al conformismo del potere. Nel 1988 esordii infatti nel governo della Morte e Orazione e le indicazioni della Curia di allora, diciamo così, erano quelle di non eleggere Giosuè priore. Io e Roberto Gargiulo, neofita come me, eravamo determinanti e scegliemmo invece lui. Per quanto mi riguarda, mi fidai del nostro comune amore sconfinato per la processione. Una sensazione a pelle, che non ha bisogno di essere esplicitata. Andò così e più di un lustro dopo il nostro sodalizio quotidiano – fatto di punti della situazione al Bar delle Rose all’ora di pranzo bevendo caffè lunghi – si allargò a Michele, che con il suo “Progetto Processione” gettò le basi di quella che oggi è la maestosa processione nera del Venerdì Santo.

In queste ore tristi mi piacerebbe indugiare nella galleria sterminata dei ricordi. Affiorano a decine. Ne faccio un breve riassunto: le trasferte in giro per il Sud a cercare bande musicale e a vedere fuochi d’artificio; i Cammini nazionali delle confraternite dalla Liguria alla Sicilia; i blitz a Napoli al mercato vecchio e a San Gregorio Armeno; i momenti conviviali, tra cui quello in onore del fratello Giacomino, emigrato negli Stati Uniti; le cene alla sua Trattoria Italia e poi a casa sua, preparate dalla moglie, la carissima signora Maria; i pranzi a Montepertuso dalla sorella Erminia, la mamma del vescovo Michele Fusco; le visite ai confratelli “primari” o cugini a Roma e Cerignola. Ovviamente ce ne sono altri, anche meno gioiosi, ma vorrei soffermarmi sulla sua eredità morale, su quello che mi e ci ha insegnato.

La prima lezione di Giosuè è quella dell’umiltà. La sua vocazione “nera” così come la sua devozione a San Michele erano per “servire”, non per essere protagonista. Faccio un esempio. Non mi sovviene l’anno preciso, ma un Venerdì Santo notte la banda musicale era in ritardo e Giosuè rinunciò a “vestirsi” per aspettarla. Lo ricordo ancora col giubbino blu e il cappello in testa avviarsi verso la palestra comunale. Noi cerimonieri eravamo già tutti col sacco nero e le bacchette e in quel momento sono sicuro che nessuno di noi avrebbe avuto il coraggio di fare come lui: rinunciare alla processione e andare ad aspettare la banda. E questo metteva in evidenza anche un altro suo amore: quello per il coro del Calvario. La sua umiltà era abbinata a uno straordinario senso dell’ironia. Giosuè era un battutista eccezionale, alcuni suoi duelli verbali (Michele ne ha molti più di me) andrebbero scritti in una raccolta.

La seconda lezione è quella del metodo. Giosuè aveva l’ansia di pianificare e realizzare sempre tutto per tempo, a fronte della teoria dell’ultimo momento con cui io e Michele lo tormentavamo. E al metodo univa la sua propensione a camminare, senza fermarsi mai, come dicevo all’inizio. Era essenziale nel riposo, un vero stakanovista che non si risparmiava mai tra il lavoro, la congrega e San Michele. L’ho visto coi piedi doloranti, ingurgitare bustine di Aulin per acciacchi vari, persino tirarsi i denti da solo, ma era sempre in piedi, con la pioggia e col sole. Giosuè era un monumento all’operosità. Senza dimenticare la generosità: aiutava i bisognosi e non ha mai spezzato il filo che lo legava al Pellicano di Peppino Staiano.

La terza lezione è quella della laicità. Sì, proprio così. Pur essendo a capo di un’associazione cattolica di fedeli, Giosuè era geloso della propria autonomia di laico, talvolta scontrandosi con le gerarchie ecclesiastiche. Anche per questo, da priore, era ossessionato dal formalismo democratico delle nostre riunioni: tutto doveva essere approvato e ratificato secondo le regole per non concedere nulla alle incursioni o alle critiche clericali. Una laicità non solo processionale. Ricordo che una volta lo intervistai per “Metropolis”, allora settimanale, e raccontò i suoi scontri negli anni Sessanta con il parroco Sessa per portare a Piano la scandalosa Minnie Minoprio. Se la memoria non mi tradisce, pur di non cedere organizzò una festa laica di San Michele a maggio. Non era affatto un conservatore, Giosuè. Certo preferiva la mediazione (quante volte ho sentito Roberto dargli ragione ripetendo nelle riunioni di governo che la vite si deve avvitare e non inchiodare altrimenti il legno si spezza), ma a modo suo sapeva aprirsi al nuovo. Dapprima l’ho sperimentato da solo poi insieme con Michele.

La quarta e ultima lezione riassume alcune cose scritte sinora: l’amore per i “neri”. Una lezione sull’unicità, sull’esclusività dell’amore in generale. Da appassionato di processioni e aspirante antropologo della devozione popolare ho studiato cortei e manifestazioni di ogni parte d’Italia e non solo. Al contrario Giosuè non ha mai visto una processione. Le faceva e basta. Il suo atteggiamento non era superbia o disprezzo. No. Per lui esisteva solo la “nera, in valore assoluto.

Ecco, Giosuè ci lascia tutto questo.

Il mio abbraccio fraterno ai figli Michele e Giuseppina e a tutti i familiari».

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