Dudù La Capria ama “la bella giornata” della Costiera Amalfitana

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Dudù La Capria ama “la bella giornata” della Costiera Amalfitana. A scriverlo è Domenico Della Monica in un articolo a sua firma dell’edizione odierna del quotidiano La Città di Salerno.

Ho avuto modo di conoscere La Capria molti anni fa, alla fine degli anni Ottanta, grazie all’amico Giovannino Russo, capo della redazione romana del Corriere della Sera. Eravamo andati a trovarlo nella casa all’ultimo piano di palazzo Doria Pamphili, con una vista mozzafiato sui tetti e le cupole di Roma, con un terrazzo fiorito di glicine e due gatti, dove si respirava una sublime mollezza napoletana. Ciò che più mi colpì in lui, oltre all’eloquio vibrante di sfumature e finezze ironiche e autoironiche, fu l’assenza di ogni atteggiamento sacerdotale, supponente o sussiegoso verso la sua opera. Quasi si stupiva di trovarsi di fronte a un interlocutore che la conoscesse e la amasse. «Guagliò, statt’ accort, hai letto troppi libri», così rimproverava il piccolo Raffaele il dolce e affettuoso padre che di prima mattina sulla terrazza di Palazzo Donn’Anna affacciato sul golfo di Posillipo, faceva uno spuntino con ostriche, cannolicchi e altri frutti di mare. Dudù, come lo chiamavano i genitori, si sentiva libero di non seguire quei consigli. Fortunatamente. Se avesse dato retta, molti anni dopo Anna Maria Ortese non lo avrebbe definito “Giovane Swann”, alludendo al suo piglio colto ed elegante. Né si sarebbe conquistato un Meridiano mondadoriano dedicato alla sua opera omnia a “soli” 80 anni.

Il cimitero dei libri. «Vedi quella libreria là di fronte?»: lo scrittore mi indicò una parete del suo studio interamente ricoperta di dorsi scuri con i nomi degli scrittori in oro. «Ma dove sono finito? In un cimitero! Mi sono detto, quando mi sono reso conto che anch’io ero diventato un autore incluso nei prestigiosi volumi, che ospitavano tutti autori morti salvo il sottoscritto. Così ho deciso di tornare nel mondo dei vivi pubblicando nuove opere». A partire da quel compleanno, ai libri già pubblicati, l’ottantenne scrittore, marito dell’attrice Ilaria Occhini, ne ha sommato altri: da “L’estro quotidiano” a “A cuore aperto”.

Gli anni della gioventù. Ha sempre scritto molto il romanziere di cui Pietro Citati ha detto che gli appartiene il segreto della «vera arte di vivere… non diventare mai maturi». E che si è mantenuto giovane andando spesso controcorrente, non accettando facili stereotipi: da quelli sulla sua amata Napoli a quelli letterari. La sua avidità-attività di lettore ha avuto inizio a Palazzo Donn’Anna, dove La Capria ambienterà “Ferito a morte”, premio Strega 1961. Tra tende e divani damascati vi aveva risieduto il soprano Gemma Bellincioni che aveva avuto una relazione con D’Annunzio. Nell’ala incompiuta del Palazzo si diceva che passeggiassero gli spettri. Il piccolo Raffaele era terrorizzato dal rumore delle onde che si percepiva ovunque. Però credeva di essere il capitano Nemo in “Ventimila leghe sotto i mari”, un libro che liberava la sua fantasia. Al liceo ebbe come compagni, oltre a Giorgio Napolitano, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Massimo Caprara, Luigi Compagnone, Francesco Rosi. Molti di loro saranno poi iscritti, come La Capria, al Gruppo Universitario Fascista, dove facevano un po’ di fronda, parlavano sottovoce in termini negativi del regime, discutevano molto di cinema, teatro e letteratura. Grande tuffatore, il giovane La Capria nelle acque di Posillipo bombardata cercava di dimenticare la catastrofe incombente: trovava rifugio nelle pagine di “Guerra e pace”, “Il rosso e il nero”, nei romanzi di Dostojevsky, nei racconti di Cechov e tanti altri. Alla fine della guerra, siglata la pace, iniziava una nuova vita. Mi raccontò che in quell’estate del ’45 si trovava ad Amalfi con alcuni amici, e si stupì piacevolmente osservando le ragazze di ogni ceto sociale letteralmente scatenate. Fino a quel momento avevano canticchiato melodie napoletane, ora ballavano il boogie- woogie sulle terrazze del S. Caterina.

I dolci amici. La memoria, mi disse in quell’occasione, cominciava a sfilacciarsi perché gli anni lo stavano distanziando dalla vita normale. In seguito ho scoperto che invece rammentava benissimo i compagni di vita che ha ricordato in un libro di memorie, appunto: “Ai dolci amici addio”, dodici ritratti di personaggi con i quali ha condiviso tratti più o meno lunghi di cammino. I dolci amici sono inevitabilmente morti: gli addii più recenti devono aver risvegliato la nostalgia per chi se ne era andato già da un po’. Quando gli amici, un amico ci lascia è sempre una perdita; qualcuno che non c’è più e prima c’era e ti aiutava: Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e poi Valentino Bompiani, Goffredo Parise, Anna Maria Ortese, Elsa Morante, Alberto Moravia. Di quest’ultimo ammirava molto l’assiduità che metteva nel proprio lavoro. Nell’estate del 1966 presero insieme in affitto una casa ad Amalfi. La mattina verso le 8, mentre era ancora immerso nel dormiveglia, La Capria sentiva nell’aria un crepitio continuo, ininterrotto. Come mai le cicale così presto? Pensava. Ma non erano le cicale, erano Moravia e Dacia Maraini nelle camere di sotto che battevano alacremente i tasti delle rispettive macchine da scrivere. «Li senti? Li senti quei due come si danno da fare?», diceva alla moglie Ilaria. Quel ticchettio faceva perdere il senso della vacanza e gli metteva addosso complessi di colpa. E la moglie Ilaria: «Scrivi pure tu, così ti passa». E già, pensava La Capria, uno si siede davanti alla macchina da scrivere e scrive. È una parola. A lui bastava il solo proposito a bloccarlo. Ma dopo, quando andavano in barca a fare il bagno, Moravia e la Maraini se la godevano soddisfatti del lavoro mattutino, e lui era lì un po’ intristito perché gli pareva di continuare a perdere tempo. E a tavola il sapore del pesce lo metteva di malumore.

I luoghi del cuore. La Capria non ha mai avuto un luogo privilegiato per scrivere. Scriveva dovunque, senza orario, dove capitava, anche su pezzettini di carta, poi li riportava sulla macchina da scrivere, perché non ha mai avuto un computer. Ha sempre ricordato, tra gli amici, con particolare affetto Goffredo Parise (“I Sillabari”- mi disse – secondo me è la migliore opera del Novecento) e ancor più Francesco Rosi. Negli ultimi tempi, prima della morte del regista, si sentivano tutti i giorni, un vero compagno di vita. Hanno fatto tante cose insieme, tante sceneggiature, hanno vinto il Leone d’oro a Venezia per il film “Le mani sulla città”. Quando si uniscono amicizia e lavoro creativo si raggiunge il massimo. Gli piaceva moltissimo andare in giro col grande regista per documentarsi, fare sopralluoghi. Ha sempre amato “la bella giornata”, la conversazione, stare con gli amici. La bella giornata fa parte della sua poetica, è la cosa fondamentale, è l’aspirazione in fondo alla sua mente e ai suoi libri. Quando, a Capri, Positano, Amalfi si svegliava al mattino e vedeva un raggio di sole filtrare dalle imposte e disegnare sul muro un geroglifico luminoso e tremolante, capiva che era una bella giornata e il cuore gli si riempiva di gioia. I soli luoghi importanti per uno scrittore sono probabilmente i luoghi in cui è nato e in cui ha sviluppato la sua memoria immaginativa. Memoria fatta di immagini sensoriali e mentali. La Capria non riuscirà mai a tenere a bada i ricordi, gli odori, i sapori avvertiti in gioventù: l’odore dello scoglio impregnato con quello dell’alga, un odore particolare, acuto, lievemente marcio, che evoca la profondità delle grotte marine, gli antri delle Sibille; il sapore della patella e del riccio, il rumore del mare che scivola e scorre tra gli scogli, la possibilità di seguire con l’occhio il tragitto di un pesce, vedere una conchiglia luccicare sulla sabbia ondulata, il profumo del pesce alla brace, e le lunghe serate trascorse a Positano con gli amici e i “giovani leoni” del luogo. Erano i favolosi anni ’60.

Le belle giornate. Ci sono ancora, per La Capria, le “belle giornate”, forse un po’ infastidite dal pensiero della fine. Si sente in sala d’attesa. O in trincea. La mitragliatrice crepita e prima o poi lo colpirà. Non pensa alla morte, la porta come un orologio al polso. Dice di essere entrato in una piacevole, quasi saggia fase contemplativa. Però il mare gli manca, e poi i bagliori, le immersioni, la mitica spigola di “Ferito a morte”. Questo sì, gli manca moltissimo.

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