Addio a Gianni Nazzaro, quel “Perdere l’amore” e Massimo Ranieri

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Addio a Gianni Nazzaro, quel “Perdere l’amore” e Massimo Ranieri ne parla Federico Vacalebre su Il Mattino di Napoli
Il suo rimpianto era tutto in una canzone: «Perdere l’amore». Nel 1987 Gianni Nazzaro aveva presentato a Sanremo il brano di Marcello Marrocchi e Giampiero Artegiani, ma fu scartato. L’anno dopo lo iscrisse alla gara Massimo Ranieri e andò come tutti sappiamo. Un tumore ai polmoni ha portato via ieri, all’ospedale Gemelli di Roma, Nazzaro: aveva 72 anni, a dare la notizia la moglie Nada Ovcina, lasciata negli anni Settanta, nonostante i due figli (Gianni junior e Giorgia), ma da cui era tornato, dopo la relazione con l’ex indossatrice Catherine Frank da cui erano nati Davide e Mattia. La sua vita amorosa, le separazioni, le cause per gli alimenti non pagati hanno tenuto banco a lungo su quelli che un tempi si chiamavano rotocalchi.
Bello, sexy, intonato, la faccia pulita dello scugnizzo elegante in smoking, proprio come l’eterno rivale Ranieri, lanciato come lui dal maestro Aterrano, Gianni era un napoletano del quartiere San Ferdinando, nato in vico Storto Concordia il 27 ottobre 1948. Era diventato cantante per dna, diceva lui: «Papà Erminio faceva questo mestiere, mia madre lo accompagnava con la chitarra, mio fratello scriveva canzoni, mia sorella Annamaria ha fatto un disco con la Rca, e l’altra, Esmeralda, scriveva poesie», ricordava: «Da una famiglia del genere, che altra strada potevo prendere?».
Iniziò nel 1965, con lo pseudonimo di Buddy: incideva per la KappaO imitando «le canzoni degli altri con le voci degli altri: il Bobby Solo di Una lacrima sul viso, Adriano Celentano, il Gianni Morandi di C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones». Così sentiva come il suo «secondo debutto il Disco per l’estate del 68 dove portai Solo noi e ritrovai il mio nome e la mia voce». Un anno prima, ancora sotto mentite spoglie, aveva tentato la strada del Festival di Napoli, con «Sulo ppe mme e ppe te», senza arrivare in finale. Ma se Sanremo non gli ha mai dato soddisfazioni, la kermesse di casa ha saputo premiarlo, in extremis: vinse l’ultimo Festival di Napoli, che si tenne in piazzetta a Capri, in coppia con Peppino Di Capri, grazie a «Me chiamme ammore», versi e musica di Mimmo Di Francia.
Da lì cominciò la sua stagione di successo: nel 1971 portò due brani a «Canzonissima», «Far l’amor con te» e «Miracolo d’amore», l’anno dopo vinse «Un disco per l’estate» con il suo hit principale, «Quanto è bella lei» di Pace, Panzeri e Pilato, la trimurti della canzonetta del periodo. Con Ranieri impegnato con il servizio militare ebbe finalmente campo libero, battendo la Berti e i Vianella e scalzando dalla hit parade addirittura il Lucio Battisti di «I giardini di marzo». La mamma, sempre cara agli italiani, la melodia e la sua ugola chiara avevano vinto.
Difficile, però, ripetere quell’exploit. Giancarlo Bigazzi e Totò Savio scrissero per lui (e Marisa Sannia) «L’amore è una colomba», Don Backy divise con lui «Bianchi cristalli sereni», Claudio Baglioni e Antonio Coggio gli regalarono «A modo mio», Michele Russo e Daniele Pace gli confezionarono «Mi sono innamorato di mia moglie»: lui le presentò a Sanremo, senza particolari esiti. Meglio gli andò in tv, con l’operetta «Al cavallino bianco», che la Rai trasmise nel 1974.
Poi l’episodio di «Perdere l’amore», la riaccesa rivalità con Ranieri, le inevitabili recriminazioni e polemiche. Tentò ancora una volta la strada dell’Ariston nel 1994: ormai superato dai tempi, e nel repertorio, aveva accettato di far parte della Squadra Italia al fianco di Giuseppe Cionfoli, Lando Fiorini, Jimmy Fontana, Rosanna Fratello, Wilma Goich, Mario Merola, Nilla Pizzi, Toni Santagata, Manuela Villa, Wess.
Con lo spettro di una carriera declinante e della nostalgia canaglia si diede al teatro, soprattutto ai musical come «La bella e la bestia» con Antonella Elia e Andrè De La Roche, «ma l’emozione più grande», confessava, «fu quando recitai in una commedia di Raffaele Viviani diretta dal figlio Vittorio, che mi disse che ero uguale al padre, che glielo ricordavo nel fisico e per come recitavo. Quello sì che era un complimento».
Un po’ di cinema minore, un po’ di televisione (era il padre di Sara De Vito – Serena Autieri – in «Un posto al sole» annata 1998, ed era tornato nel cast nel 2009, poi ancora una soap opera, «Incantesimo», del 2007). L’ugola era ancora salda, la bellezza reggeva l’urto del tempo, nonostante la vita spericolata, ma sbarcare il lunario era diventato difficile, così dal 2010 al 2016 accettò il ruolo di presentatore di «Millevoci», in onda su un circuito di emittenti locali. Nel 2014 l’estrema beffa: vinse una puntata del «Tale e quale show» di Carlo Conti su Raiuno intonando, naturalmente, «Perdere l’amore», ed imitando… Massimo Ranieri.
Un incidente automobilistico nel 2016, appena riallacciati i rapporti con la Ovcina, eletta anche a proprio manager e ufficio stampa, gli era costato un rene e il rischio di rimanere paralizzato. Ma non si era arreso, aveva registrato un album di classici napoletani rimasto praticamente inedito, sognava una rentrée alla grande, «o almeno non troppo piccola», confessava con l’amara ironia di chi aveva perso più volte l’amore ma, soprattutto, la canzone che valeva una carriera intera.
Ciao, Gianni, ciao.

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