Capri. Dal 1° al 7 luglio la Settimana dell’Arte

Protagonisti della Settimana dell’Arte che si svolgerà, dal 2 al 7 luglio, dalle 17 alle 20, sulla meravigliosa terrazza sul mare del Ristorante Da Gemma, a Marina Grande, a picco sul mare di Capri e  di fronte al Vesuvio, saranno Federica Pelliccia, Mario Coppola, Costanzo Vuotto, Lorenzo Pietrogrande, Niluka Laura Telli, Nicole Scarpelli. Vernissage su invito con aperitivo il 1° luglio all’ora del tramonto.

Partner e sponsor della quinta edizione sono il Ristorante Da Gemma, Gatto Bianco Hotel & Spa, Pasticceria Gelateria Buonocore Capri, Tenute Giampetruzzi, Officine Grafiche Web Sorrento.

Quale omaggio alla curatrice Diletta Maria Cecilia Loragno della mostra offriamo un interessante saggio di recente pubblicazione.

Il paesaggio di Capri: immaginari e tutela tra Ottocento e Novecento  Fabio Mangone

Nell’ambito dei luoghi della provincia di Napoli e della Baia di Napoli, Capri in età contemporanea occupa una posizione singo-larmente rilevante nel dibattito europeo e italiano sull’architettura e sul paesaggio, in relazione ai plurimi modelli e alle differenti idealità che si succedono. Tra Ottocento e Novecento, l’isola rappresenta un osservatorio privilegiato per guardare alla circolarità tra le trasformazioni fisiche e gli immaginari, le intuizioni e le azioni, le teorizzazioni e le sperimentazioni, nell’ambito di un paesaggio non solo narrato e ritratto, ma anche trasformato e in certa misura sperimentalmente tutelato. La prima importante ‘scoperta’ di Capri matura nell’ambito della più generale cogente riflessione sulle origini dell’architettura come ricerca del significato ultimo e dei valori permanenti di essa. La questione delle origini, che a metà Settecento Laugier aveva posto su di un piano squisitamente teorico nella ricerca dell’archetipo, agiva da stimolo tutt’altro che secondario nell’ambito della sempre più diffusa pratica del tour  di formazione nel mediterraneo, e anche in Campania grazie al sito ‘riscoperto’ di Paestum. Proprio in questo contesto matura una prima importante ‘scoperta’ di Capri, per solito esclusa dalle tappe del rituale tour Campano, attraverso l’esperienza compiuta nel 1794 dal tedesco Friedrich Weinbrenner, il primo architetto ad appassionarsi a un’isola «tenuta come un giardino» e a lasciarne un’ammirata descrizione. Influenzato con ogni probabilità da Weinbrenner, all’incirca dopo un decennio, sarà ancora un tedesco, il prussiano Karl Friedrich Schinkel (1781-1841)a segnare un importante passo avanti nelle riflessioni. La sensibilità di pittore, oltre che di architetto, gli consente di cogliere gli elementi costituivi di quello che gli appare un habitat  originario. Gli sembra che da un contesto paesistico eccezionale, da una civiltà antica e incontaminata, da una società «senza cavalieri né soldati», scaturiscano quelle «case contadine lindissime e graziose», le «casette di bella forma e purezza, le più deliziose che io abbia mai visto in un contesto rurale». Non per caso, gli appunti relativi al progetto editoriale di un resoconto a stampa di quanto ha ‘scoperto’ in Italia, rivelano la volontà di dedicare uno specifico capitolo alla «casa rurale a Capri».

Questa esperienza rappresenta un episodio singolare, ma anticipa un interesse diffuso. L’attenzione posta su Capri nel decennio 1806-1816, mentre l’isola è teatro delle contese tra Francesi e Inglesi, la rinascita del tourisme dopo la caduta del regno napoleonico, la cosiddetta ‘scoperta’ della Grotta Azzurra nel 1826 e la vasta eco all’estero, sono  tutti fattori che propiziano un nuovo interesse europeo per quello che finora era stato un luogo piuttosto appartato e marginale. La nuova centralità risveglia anche l’attenzione di artisti, architetti e intellettuali europei che non di rado si appassionano ai temi dell’architettura e del paesaggio, facendo assurgere Capri a sito di interesse internazionale. Si rilevano due fenomeni entrambi in crescita di decennio in decennio e tra loro collegati: per un verso il turismo, grazie al quale l’isola, con l’immaginario che rappresenta, diventa idealmente patrimonio esperienziale delle élites europee e americane, per le quali diventa tappa imprescindibile del tour  italiano e non dirado addirittura residenza stagionale; per altro l’elezione a soggetto prediletto dalla pittura di paese, grazie anche all’ineffabile connubio di elementi naturali e segni antropici connotanti. Il riconoscimento di un carattere paesistico d’eccezione e la celebrazione dei relativi valori, paradossalmente comportano una cospicua accelerazione dei fenomeni di trasformazione, in senso tanto materiale quanto immateriale. C’è innanzitutto, banalmente, che il nuovo destino di stazione climatica e di meta turistica richiede nuovi spazi e nuove attrezzature, e in parallelo comporta l’affermarsi di nuovi soggetti che interpretano questa domanda. La richiesta di trasformazione non agisce soltanto in senso quantitativo,  modificando lentamente, ma inesorabilmente il rapporto tra spazi scoperti e costruzioni, ma anche in senso qualitativo, introducendo nuovi modelli tipologici e formali e nuove tecniche. Ma succede anche che la ‘scoperta’ dell’isola genera a sua volta interpretazioni, descrizioni, ‘ritratti’ in grado di delineare immaginari mobili, ma cogenti, i quali a loro volta condizionano le stesse trasformazioni del territorio e, quindi, del paesaggio. Attorno alla metà del secolo, le pionieristiche strutture alberghiere, le primissime residenze di villeggiature  vengono costruite con una certa ‘naturalezza’ assecondando i modi tradizionali e senza specifiche pretese. Tuttavia, negli ultimi decenni del XIX secolo, questa ingenuità andrà a mano a mano a perdersi, in coerenza con la più generale temperie dell’eclettismo europeo, anche sulla spinta dei cospicui immaginari che soprattutto la pittura paesistica ha elaborato, definendo la convincente immagine di Capri come un ‘altrove’, come un ineffabile lembo d’Oriente: in questa direzione convergono tanto la corrente interpretazione in termini di architettura «saracena» dell’architettura vernacolare voltata della costa napoletana, quanto anche la constatazione di un paesaggio brullo e assolato, oggi documentato soltanto dai dipinti e dalle fo-tografie ottocenteschi. Accade cosi che equivocando nei modi l’in-tento di rafforzare i caratteri precipui del paesaggio reale, i nuovi interventi – costruzioni e sistemazioni di giardini – gli affiancano elementi tratti dagli immaginari. Alla fascinazione di una pittura orientalista che in qualche misura ha condizionato anche i ritratti di Capri, corrisponde negli ultimi due decenni dell’Ottocento per un verso la cospicua stagione delle ville moresche, non per caso esito costruito soprattutto delle fantasie di pittori italiani e stranieri ,e per l’altro la graduale introduzione di essenze esotiche, come ad esempio la bouganivillea. Il mito orientalista non oscura del tutto l’altro mito, parallelo, ma più duraturo, dell’Isola di Tiberio, del-l’incantato sito scelto come residenza dall’imperatore e segnato informa monumentale dalla sua presenza: un immaginario affermatosi non soltanto attraverso la concretezza delle acquisizioni storiche e archeologiche, quanto attraverso le visioni della fanta-archeologia, le ricostruzioni ideali degli architetti e la pittura di storia. Alla ripresa di questo mito corrisponde nei primi anni del Novecento la stagione delle ville neoclassiche o delle trasformazioni in senso neo-classico di dimore già esistenti, comprese le moresche. Per quanto certi tratti di questo fenomeno possano far sorridere, bisogna riconoscere che in qualche modo la riaffermazione dell’imprescindibilità del passato imperiale va in qualche misura a coincidere con la fine  dell’archeologia di rapina, iniziata nel secondo Settecento e proseguita a inizio del secolo successivo, allorché Capri era utilizzata come cava di antichità pregiate, tra cui raffinati pavimenti a mosaico e colonne pregiate per le regge borboniche. Si potrebbe facilmente rilevare un certo grado di artificiosità e di arbitrarietà in questi ingenui programmi architettonici eclettici. Ciononostante, dalla nostra prospettiva attuale, pure se ci appaiono lontani dall’avere raggiunto l’obiettivo prefissato di assecondare e rafforzare l’identità del paesaggio storico, non possiamo non ri-conoscere il merito di una costante preoccupazione di proteggere un luogo idilliaco da ogni trasformazione che potesse cancellare l’apprezzata condizione di alterità rispetto ai coevi paesaggi urbani e industriali. Gli architetti ottocenteschi riconoscono questa speciale condizione in una fase in cui la tutela del paesaggio è affidata quasi esclusivamente alla sensibilità di proprietari e tecnici, e vi si adeguano: basterebbe pensare al lavoro sui frammenti antichi e sulla piccola scala delle residenze a corte operato qui a Capri dall’architetto Stanford White , contitolare a New York di uno deipiù importanti studi per la progettazione di grattacieli: Mc Kim, Mead e White.La nuova e più pretenziosa architettura ‘in stile’,  neomoresca o neoclassica, non oscura la più autentica e più caratterizzante edilizia vernacolare, che continua a incantare gli architetti, come dimostrano nell’ultimo secolo dell’Ottocento le esperienze di due protagonisti del modernismo viennese, Joseph Olbrich e Josef Hoffmann, che ne fa pure oggetto di un articolo comparso nel 1897 sulla diffusa rivista «Der Architetkt» . A mettere insieme la ricerca di caratteri originari dell’habitat umano, il riconoscimento di caratteri ‘orientali’, nelle case, negli agglomerati urbani simili a suk, nel paesaggio aspro e desolato e al contempo la constatazione di elementi marcatamente classici, riuscirà una nuova importante e fascinosa categoria dell’immaginario che si afferma con forza nei primi decenni del Nove-cento, quella del ‘Mediterraneo’. All’insegna del mito della mediterraneità si apre nei primi decenni una nuova stagione, che comporta un’attenzione per l’architettura vernacolare non più già come mera e remota sopravvivenza di una fase remota e arcaica, quanto piuttosto come materia ancora viva e libera dalle sovrastrutture artificiose dello storicismo ottocentesco. Ma, a valle dell’esperienza della Grande Guerra, il mutato clima politico determina nuovi sguardi sul paesaggio, sempre più inteso come elemento identitario della nazione. Il dibattito riguarda so-prattutto i paesaggi alpini, ma l’isola non resta estranea a questa sensibilità, grazie a una speciale contingenza: il nuovo quadro economico per molti versi attrae nuovi speculatori pericolosi perché potenzialmente portatori di programmi di sviluppo turistico di grande scala e di scarsa sensibilità ambientale. Non è un caso, quindi, che, all’indomani della promulgazione della legge 778 dell’11 giugno 1922 sulle «bellezze naturali», Capri si ponga di nuovo al centro di un dibattito culturale più ampio, come sede del primo Convegno sul paesaggio voluto da Edwin Cerio. L’isola possiede con abbondanza gli elementi da tutelare su cui si impernia la nuova legge: i «monumenti naturali», generosamente distribuiti sul piccolo territorio, tra cui le grotte Azzurra, di Matermania e le altre, l’Arco Naturale, i Faraglioni e cosi via; i tanti scorci panoramici incantevoli, alcuni celebrati già dalle fonti antiche e altri diventati di dominio collettivo grazie alla lunga e nutrita serie di vedute pittoriche o fotografiche, nonché di descrizioni letterarie. Sono molti e significativi gli aspetti per cui il convegno risulta un momento fondamentale :ma val la pena qui di sottolinearne alcuni. La presenza dei futuristi, segnata non soltanto da accenti intenzionalmente provocatori, ma anche dalla ricerca di nuovi possibili equilibri , feconda questo momento di riflessione sul paesaggio, oltre la nostalgica rievocazione di tempi perduti. Non viene poi assolutamente trascurato l’apporto della botanica, nella direzione per un verso della tutela della so-pravvissute superfici di macchia mediterranea, che già nell’ante-guerra era oggetto di tutela da parte di una società di tutela, la ProCapri, sorta sui modelli delle associazioni europee, e per l’altro della celebrazione di essenze destinate a diventare simbolo di italianità, come il pino marittimo. Da questo momento in poi, Capri si impone come fondamentale‘ luogo’ del dibattito architettonico e paesistico ove si intrecciano plurimi temi. Nell’intensa riflessione sull’edilizia ‘spontanea’ e sull’architettura ‘mediterranea’, e sul correlato dibattito sul senso e sul valore da assegnare alla tradizione ‘minore’, le tradizionali case di Capri assumono il ruolo di paradigma assoluto, ascendendo alla dimensione del mito, spesso decontestualizzate dal sistema dell’architettura rurale campana a cui appartengono , e richiamate come preludio essenziale della ricerca attuale. A valle di un confronto con esempi recenti della più ‘moderna’ architettura mitte-leuropea, l’architetto Eugenio Faludi giunge a concludere: «Gli esempi di architettura moderna e le semplici case di Capri hanno un’affinità. Quest’arte pressoché rustica, che scaturisce dalla vita, non è prodotta da volontà d’innovazione, ed è suscettibile di un ampio sviluppo. La linea dell’architettura moderna esiste a Capri sotto una forma primitiva». Gli anni del fascismo coincidono per l’isola con una notevole crescita del turismo e sono densi di contenuti culturali e di trasformazioni fisiche. Mentre per un verso una nuova sensibilità, nuovi strumenti (a partire dal puntiglioso e innovativo regolamento edilizio voluto da Cerio nel 1921) e nuove istituzioni (come la commissione edilizia operante dal 1926 in collegamento con la sovrintendenza napoletana) agiscono in direzione di una tutela consapevole, il ricercato sviluppo turistico per un verso necessita di trasformazioni sostanziali tanto nelle attrezzature (come accade con il nuovo porto), nel sistema viario e negli spazi pubblici, regolarmente attuate, e per l’altro richiede e richiama nuove costruzioni, alberghi e residenze di villeggiatura. Programmaticamente intesi come sottolineatura naturalistica dei pregi paesistici dell’isola, e al contempo come mitigazione con il verde delle intense opere di modernizzazione, i plurimi programmi pubblici di implementazione vegetale e di rimboschimento (iniziato nel 1926 per iniziativa dell’Alto commissariato), affiancati dagli altrettanto estensivi interventi di creazione di giardini privati a servizio della nuove case di villeggiatura, pure se generalmente orientati al-l’introduzione di specie botaniche compatibili e pure se attenti a diminuire l’impatto delle nuove edificazioni, comporteranno una sostanziale e profonda trasformazione del paesaggio isolano: un pericolo già avvertito nel 1926 da un osservatore sensibile come il pittore Carlo Siviero, componente della commissione edilizia . Dal punto di vista della cultura architettonica, si registrano analoghe contraddizioni nonostante un interesse nazionale concentrato sull’isola e sul suo paesaggio costruito. Per alcuni architetti – e basti citare tra gli altri Plinio Marconi, Roberto Pane, Giovan Battista Ceas – Capri con la sua edilizia e soprattutto con i suoi ineffabili agglomerati urbani rappresenta un unicum storico-ambientale di grande pregio da studiare con attenzione. Per molti altri architetti, operanti su scala regionale o nazionale, da Canino a Gio Ponti, da Virgilio Marchi a Raffale Fagnoni, da Adalberto Libera a Giuseppe Capponi, l’isola segnata dal mito dell’architettura mediterranea non rappresenta un paesaggio da tutelare nella sua integrità, quanto piuttosto un fondale pregiato da commentare liricamente con progetti contemporanei. Nei fatti, il mito dell’edilizia caprese e dei suoi elementi costitutivi già individuati da Schinkel, quali la pergola o la scala esterna o la volta estradossata, gli strumenti disponibili quali il già citato regola-mento edilizio che detta prescrizioni materiche e formali stringenti, gli stessi iter  amministrativi, dove oggetto di separato esame è una specifica costruzione valutata in ragione delle caratteristiche intrinseche e al più in considerazione del suo immediato contorno, sembrano spostare i problemi della tutela alla scala della singola casa, della conformazione formale o volumetrica della singola costruzione. Vero è che alcuni degli architetti più sensibili come Cerio, Ceas o Ponti, rispettivamente nel Rosaio, nella propria casa-villaggio, o nell’albergo ‘disperso’ avviano studi sull’agglomerazione di elementi architettonici in termini di villaggio, ma più in generale si avverte l’assenza di una riflessione sul tema paesistico a scala più ampia. Dopo la metà degli anni trenta, il progressivo aumento delle richieste di licenza edilizia rende evidente al sovrintendente Armando Vené l’inefficacia di una tutela affidata all’esame della singola pratica edilizia. Di concerto con le autorità locali, pertanto, a inizio del 1937il funzionario sollecita il Ministero affinché si rediga un vero e proprio piano paesistico che, in anticipo sulla legge 1497/39, consenta di governare adeguatamente i processi in corso. Mentre, nelle more, viene avocato al Ministero l’esame della pratiche, facendo così assurgere Capri all’unico luogo in cui la tutela paesistica assume rilevanza nazionale e, pertanto, rientra nelle competenze centrali piuttosto che in quelle degli organismi periferici, nel giugno 1937 viene nominata un’apposita commissione per Capri il cui elemento di maggiore spicco è Gustavo Giovannoni. Questi già a inizio dello stesso anno aveva cominciato a individuare i criteri essenziali: «siffatte questioni dovrebbero sempre (ma in modo particolarissimo per l’isola di Capri in cui il loro interesse è tale da estendersi ad ogni minimo elemento) es-sere risolte organicamente, riportandosi ad un vero piano paesistico, che disciplini con criterio d’arte l’attività fabbricativa». Nella prospettiva dell’accademico romano nel caso di Capri la tutela del «carattere dei luoghi» non è ostacolo allo sviluppo economico, ma al contrario garanzia dello stesso, perché «non solo condizione astratta ma ragione stessa di vita turistica». Piuttosto che inibire in toto le nuove edificazioni, Giovannoni ritiene si debba intervenire distinguendo i valori e il potenziale paesaggistico, naturalistico, urbano delle singole aree, valutando poi la questione del panorama  nella sua duplicità, ovvero sia della visione ‘esterna’ dell’isola, sia delle vedute dall’interno, dalle strade e dai belvedere, proteggendo al massimo i percorsi pubblici. La tutela a suo parere non si può limitare alle pure essenziali limitazioni di altezza, di volumetria, alle indicazioni sui colori e sulle linee architettoniche, ma richiede l’individuazione di zone omogenee diversamente disciplinati. Al di là della specificità dei luoghi dove bisogna garantire la permanenza e la valorizzazione delle vedute, scrive Giovannoni, «riterrei che dovessero prevalere i seguenti concetti: escludere la fabbricazione nelle zone alte […] ed in quelle che possono dirsi le linee principali inquadranti il paesaggio; consentirla altrove ma in una delle due forme estreme, o degli aggruppamenti organici costituenti quasi piccole borgate, o della diffusione radissima nella campagna in modo che ogni casa sia distaccata dall’altra per notevoli distanze e gli elementi naturali prevalgano, pur punteggiati dalle piccole masse fabbricate. L’esperienza ha dimostrato come il peggior danno all’aspetto paesistico sia costituito non già dai villaggi compatti, che sembrano naturalmente sorti come una roccia o un bosco e che recano nel panorama un ridente elemento di vita, ma dal sistema artificioso, urbanisticamente e architettonicamente, dei villini distaccati tra di loro, ma non di molto circondati da minuscole aree scoperte, disposti non secondo la linea naturale, ma secondo le spicciole divisioni di una lottizzazione determinata dalle speculazione parassitaria delle aree fabbricative. Questa malattia edilizia non deve prendere piede sul suolo dell’isola di Capri» .Anche in questa fase, dunque, Capri si pone come avamposto per la tutela paesaggistica rappresentando in Italia il primo concreto ambito di riflessione ove sperimentare i possibili termini di quella più accorta tutela che, proprio per il tramite di questa esperienza, si concretizzerà nella legge 1497/39, ispirata proprio da Giovannoni. Non per caso lo stesso accademico romano riserverà per sé il territorio caprese redigendo nel 1939 un pionieristico piano paesistico attentamente ispirato ai principi da lui esposti nel 1937 e destinato ad assumere il valore di exemplum , perché distingue all’interno dell’isola anche zone ove intensificare i nuclei abitati, zone dove costruire con morigeratezza e zone dove salvaguardare integralmente lo status quo . Ancora da studiare approfonditamente, l’innovativo piano paesistico ci appare tra i pregiati esiti della migliore urbanistica di fine anni trenta applicati ad ambiti della Campania, con principi lungimiranti, ma destinati a essere traditi nel secondo dopoguerra.

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