Sorrento-Castellammare di Stabia, Mons. Francesco Alfano: “Non disperdete la ricchezza dei doni ricevuti”

Mons. Francesco Alfano, Vescovo dell’Arcidiocesi di Sorrento – Castellammare di Stabia, commenta il brano del Vangelo di oggi:

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Ecco le intense parole di Mons. Alfano: «Il tempo che stiamo vivendo nella liturgia della fede della chiesa è tempo di gioia intensa, tempo della Pasqua e sembra contrastare sempre più con il tempo che viviamo oramai da parecchio, che è un tempo di prova, di sofferenza, soprattutto di paura. Possiamo dire che più passano i giorni più si aprono anche prospettive nuove e che desideriamo e speriamo per uscire dalla crisi, più le paure che abbiamo sperimentato e avvertito dentro di noi si fanno paradossalmente più forti. La paura della sofferenza, la paura della morte, addirittura la paura soprattutto di rimanere soli, la paura dunque dell’altro come un possibile avversario, nemico, ostacolo o come qualcuno da tenere lontano per preservarsi, per superare la crisi, per stare bene, alla fine rimanendo soli. Insomma stiamo scoprendo, se mai l’avessimo dimenticato, che noi da soli non viviamo bene, non siamo felici. Noi siamo fatti per vivere insieme, per stabilire rapporti, relazioni, per incontrarci e guardarci negli occhi, anche per toccarci, abbracciarci e condividere le emozioni, le attese, i progetti che portiamo nel cuore. Da soli non realizziamo nulla della nostra umanità ma solo gli uni con gli altri e, per quanto sia difficile e anzi umanamente impossibile, senza questa tensione non riusciamo a fare nessun passo.

Il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua che ci invita a porci davanti al Cristo risorto per farne l’esperienza e per raccoglierne anche noi i frutti. E’ il Vangelo molto noto della vite ed i tralci. Le parole di Gesù sono incisive, scultoree: “Io sono la vite e voi i tralci”. E’ un’immagine biblica, Gesù non l’ha inventata, attinge ai Profeti, ma con la sua originalità e la sua unicità, perché quello che accade in lui non è solamente un ampliamento di quanto annunciato dai Profeti e nemmeno solo il compimento della promessa, ma è una novità assoluta.

“Io sono la vita vera”, dice Gesù. In questa allegoria il punto di partenza è la vite. E la vite con la quale Gesù si identifica non è una vite migliore delle altre, non rimanda ad un’esperienza di fede della comunità con una guida più autentica. E’ la vite vera. E’ la vite che permette dunque di raccogliere frutti abbondanti. Ma immediatamente Gesù in questa allegoria ben meditate e proposta dall’evangelista Giovanni ci parla del Padre: “il Padre mio è l’agricoltore”. C’è bisogno di qualcuno che curi la vita. Non potremmo mai fare esperienza del rapporto con Gesù senza il riferimento al Padre del quale si descrive l’azione di agricoltore. Nell’immagine usata ci sono i tralci che non portano frutto ed i tralci che portano frutto, i primi vengono tagliati ed eliminati, gli altri vengono potati perché la vite porti più frutto. Insomma c’è da parte dell’agricoltore, di Dio Padre, una cura speciale per questa vigna, c’è un rapporto diretto e profondo con il suo figlio Gesù e tramite lui con tutti i tralci, con tutti quanti noi.

Il Signore risorto ci lega da una parte al Padre perché siamo suoi figli e dall’altra tra di noi perché siamo tutti tralci uniti all’unica vite ed ognuno è chiamato a portare frutto. L’appello è forte perché un tralcio che non porta frutto deve essere tagliato e noi siamo in grado di portare frutto perché siamo stati potati. Voi siete già puri. Siamo stati purificati grazie alla Parola che ci ha annunciato. Il Risorto continua a liberarci dal male ed a donarci la sua Parola. Ed ecco l’appello fondamentale, l’invito o – se vogliamo – il comando. Potremmo addirittura considerarlo il comandamento essenziale che Gesù fa risuonare per i suoi discepoli: “rimanete in me”. I discepoli non devono solo seguire Gesù, ma sono quelli che stabiliscono una relazione con lui e la custodiscono, la conservano, rimangono fedeli: “rimanete in me”. Con la certezza che lui rimane in noi.

Il verbo “rimanere” esprime veramente il cuore della Comunione e qui è ripetuto più volte. Il tralcio non legato alla vite muore, così voi se non rimanete in me. E’ un invito a rimanere in lui, anche quando ci costa, anche quando è difficile, anche quando vediamo tutto buio e ci sembra di non venir fuori da una situazione insopportabile, anche allora non possiamo che conservare il rapporto con lui. E poi Gesù riprende questa esortazione che nasce dal comando e la descrive come qualche cosa di concreto nella nostra vita: “chi rimane in me ed io in lui porta molto frutto”. Perché senza di lui non si può far nulla. Il frutto è garantito non dalla nostra azione o dal nostro impegno, il frutto è garantito dalla sua presenza in noi. Si tratta di accoglierlo e di non sciupare la vita, perché “chi non rimane in me viene gettato via”. Non è una minaccia e nemmeno una condanna da parte del Padre, ma è la chiarificazione per la nostra scelta: senza di lui noi ci troviamo vuoti. Se noi scegliamo consapevolmente di staccarci come tralci della vite non potremmo portare mai più frutto. Il tralcio secco viene raccolto, gettato nel fuoco e bruciato. Insomma non sciupare la vita, non disperdere la ricchezza dei doni ricevuti, ecco come si vince la paura, come si esce dalla solitudine. Siamo tralci dell’unica vite e siamo membra dell’unico corpo. Siamo uniti a Cristo.

Restare in Cristo, coltivare la relazione con lui non è qualche cosa che appaga solamente un bisogno interiore. E’ un esercizio continuo di ascolto. Accogliamo la sua parola, la custodiamo in noi perché porti frutto al punto che potremmo chiedere al Padre qualunque cosa e saremo esauditi. Sì, saremo esauditi perché non chiederemo più quello che vogliamo noi ma quello che lui desidera per il nostro bene e per il bene di tutti. Ecco come si glorifica il Padre, come si testimonia il suo amore: diventando suoi discepoli che portano frutto in abbondanza.

Un invito allora in questa quinta domenica di Pasqua a gioire della sua presenza, ad accogliere il dono del suo amore, a condividerlo con tutti e a non disperare mai. Siamo usciti dalla nostra solitudine, possiamo vincere ogni paura e crescere nella vera comunione».

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