Don Vincenzo, il sacerdote colto della Chiesa del grembiule

Don Vincenzo, il sacerdote colto della Chiesa del grembiule*. Apprendo dalle gazzette locali della dipartita di Don Vincenzo Simeoli nella sua amata Isola Azzurra. Il presbitero ha incrociato anche la mia vita di credente laico: fu viceparroco di Santa Maria di Galatea nella frazione di Mortora e nel frattempo reggeva anche la Chiesa di Preazzano. Posso dire di avere incrociato pochi sacerdoti del valore umano e pastorale di Don Vincenzo. Persona colta – aveva avuto il tempo di fare studi storici universitari -, si dilettava anche nella scrittura di cronachette storiche curate e precise (ricordo su tutte quella su Preazzano e sulla seta, ora introvabile anche nei remainders). Ma è nella sua attività pastorale che ha dato il meglio di sé: riusciva ad essere vicino ai giovani – io allora lo ero – ed anche alle persone più in là con gli anni. Soprattutto – camminando a piedi e con qualsiasi tempo; Don Vincenzo non aveva la patente – svolgeva il suo apostolato nella visita ai malati ed a chi non era deambulante. Conservo ancora un quadro dorato con una Madonna molto semplice di cui mi fece dono: il Don ti regalava anche cose minime ma utili. Ecco il Nostro è stato forse l’esempio più lampante di come una buona cultura contadina impreziosita da studi classici possa rappresentare una risposta allo sradicamento che le nostre società attraversano in questo periodo di globalizzazione assoluta anche sanitaria. Ricordo che insisteva sempre sul tema delle radici e dell’identità – della vera identità – e questi suoi assunti avevano presa su di noi giovani-adulti perché venivano da una persona che definire aperta di mente era poco. Forse chissà proprio perché la sua vocazione era stata tardiva ed i frutti del pensiero laico si erano bene integrati con quelli del dono eucaristico. Noi giovani allora lo vedevamo come una persona con cui camminare assieme e con il quale confrontarci. Mancherà a chi ha potuto conoscere il suo cuore buono. Vincenzo Aiello

*«L’altra sera – raccontò ad Assisi nel 1989 – sono stato in San Giovanni in Laterano. C’era una grande veglia missionaria. […] mi è venuto in mente di dire alcune cose sul servizio. Ho sfilato l’amitto con le striscioline e ho detto: “Se lo rivoltiamo e ci stringiamo i fianchi, questo è un grembiule. Invece l’abbiamo messo attorno al collo. Non ce l’abbiamo più intorno ai fianchi. Il grembiule lo abbiamo perso”. Proprio così: “amitto” da “amittere”, che significa perdere. Lo abbiamo perso come grembiule e ce lo siamo messi al collo. Ma questo è uno dei parametri simbolo del nostro impegno» (Bello 2012, 112). E poi lamenta: «Le nostre Chiese, purtroppo, sono così. Riscoprono la Parola […]. Celebrano liturgie splendide […]. Quando però si tratta di rimboccarsi le maniche e di cingersi le vesti, c’è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota e un catino che non si trova» (SMAB 6, 552). Da questa intuizione ha preso corpo il volto evangelico della «Chiesa del grembiule», quel volto che è rimasto a lungo oscurato in conseguenza dell’Editto di Costantino, che il Concilio Vaticano II ha riportato alla luce e che papa Francesco oggi incarna. Don Tonino Bello, La Chiesa del grembiule.

Generico aprile 2021

 

 

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