Cava de’ Tirreni. Coscioni rinviato a giudizio per la morte di Lucia

Il primario di Cardiochirurgia dell’azienda ospedaliera San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, Enrico Coscioni, e il caridiochirurgo Antonio Longobardi finiscono a processo per omicidio colposo e lesioni colpose causate alla diciassettenne Lucia Ferrara di Cava de’ Tirreni.

La ragazzina morì il 3 settembre del 2019 per «insufficienza cardio-circolatoria secondaria a choc cardiogeno prodotto dagli effetti di una ischemia miocardica acuta e plurifocale quale conseguenza della procedura di plastica della valvola» scrive il pm Mafalda Daria Cioncarda nella sua richiesta di rinvio a giudizio. La ragazza era stata operata proprio dai due sanitari. Coscioni, ricordiamo, è anche consigliere del governatore Vincenzo De Luca oltre che presidente Agenas, l’agenzia nazionale dei servizi sanitari.
Il gup Alfonso Scermino ha accolto la richiesta della procura e rinviato a giudizio per il prossimo giugno Coscioni e Longobardi riconoscendo, quali parti civili, i genitori della ragazza: a presentare la denuncia fu proprio il papà della diciassettenne, Carmine Ferrar, attraverso il suo legale di fiducia, l’avvocato Mario Della Porta.

LE ACCUSE

La ragazza giunse nel reparto del primario Coscioni con la diagnosi di «scompenso cardiaco»: il 18 le era stata diagnostica all’ospedale Santa Maria incoronata dell’Olmo di Cava de’ Tirreni «una insufficienza mitratica severa con prolasso del lembo anteriore».

Appena entrata in reparto, i sanitari oggi a processo decisero di effettuare un intervento di riparazione, o meglio dire «plastica», della mitrale. Era il 20 agosto ma lei fu operata il 29 dai due chirurghi (difesi entrambi dall’avvocato Gaetano Pastore) i quali, secondo le accuse della procura (diretta dal procuratore capo Giuseppe Borrelli) «avrebbero omesso, nonostante i giorni di degenza e l’assenza di urgenza clinica dell’intervento, di effettuare opportuna indagine strumentale, ovvero una Cardiotac, per una valutazione anatomica delle arterie coronarie» accertamento, scrivono gli inquirenti, «fondamentale per pianificare un trattamento personalizzato in base alle caratteristiche cliniche, strumentali e alle tabelle di rischio individuale». Ma non solo. Durante l’intervento per «errata manualità chirurgica provocarono l’occlusione introgena dell’arteria circonflessa responsabile dell’infarto acuto del miocardio». Quindi «omettevano di gestire in maniera corretta l’evento avverso praticando il confezionamento di due by pass» il tutto «senza conoscere l’anatomia di base» in quanto l’esame coronografico successivo dimostrò che i by pass non furono eseguiti dove servivano ma su un altro ramo arterioso impedendo così al cuore di riprendere le sue funzioni. Di qui il decesso della 17enne il 3 settembre, quattro giorni dopo l’intervento.

Sono stati gli esami autoptici, poi, a convincere la procura della loro responsabilità. Inizialmente gli indagati erano quattro, c’erano anche un altro cardiochirurgo e un rianimatore, ma gli esami autoptici sul cuore della giovane cavese, eseguiti a Napoli, l’unità operativa di anatomia patologica dell’ospedale Villa Betania, scagionarono gli altri medici già in fase di indagini preliminari tant’è che i nomi due sanitari non erano neanche nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Secondo il racconto del padre, nell’immediatezza dei fatti, la ragazzina era sana tant’è che soltanto a ferragosto aveva fatto una salita ripida di corsa e non aveva avuto problemi. «Se fosse stata malata – aveva detto – non sarebbe riuscita a farlo». Per l’azienda ospedaliera San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, invece, le sue condizioni erano state sempre gravissime. Ora toccherà al giudice della prima sezione penale valutare le eventuali colpe.

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