Vico Equense, Antonino Cannavacciuolo e le capre di Ticciano: storia e sapori del ragù

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Vico Equense, Antonino Cannavacciuolo e le capre di Ticciano: storia e sapori del ragù. Capra, capra, capra, l’invettiva-tormentone lanciata da Vittorio Sgarbi per tacciare gli avversari o meglio tutti quelli che non sono d’accordo con lui, d’essere persone ignoranti ha mediaticamente riportato l’attenzione su di un animale ingiustamente bistrattato soprattutto dalla religione cattolica che, memore del passo dell’Antico Testamento, dove Gesù Cristo paragona i suoi veri seguaci alle pecore, ed i falsi alle capre e della descrizione dei diavoli come esseri mostruosi dal corpo umano e zampe e corna caprine – simbolo del male e della lussuria – ha fatto nascere l’opinione comune che fosse brutto, sporco e cattivo.
No, non è affatto vero come ci ricordano i ricercatori della Queen Mary University di Londra che hanno recentemente condotto una ricerca sul tema ed, anche, la mitologia greca che racconta di Zeus infante, salvato dalla fame perché allattato dalla capra Amaltea in una grotta sul Monte Ida nell’isola di Creta.
Narrazione che esalta un animale ritenuto dalla legge ebraica pulito e, quindi, può essere macellato per onorare un ospite importante, oltre che per celebrare particolari sacrifici. Da sempre espressione della civiltà agro-silvo-pastorale ha consentito la sussistenza di intere generazioni, tanto da essere definito la vacca dei poveri per l’utilizzo del latte, della pelle e della carne ricca di qualità nutrizionali, magra, molto tenera e dal delicato sapore selvatico. La capra è l’animale simbolo del Mediterraneo grazie al fatto che si tratta di un animale che sopravvive anche dove non c’è il pascolo, nelle aride zone predesertiche oppure tra colline e montagne irte e difficili da raggiungere.
Cibo presente sulla tavola di chi non poteva permettersi manco minimamente di scialare ed oggi riscoperto grazie alle trasmissioni televisive ed al lavoro di giovani, entusiasti cuochi che li fanno conoscere ad un pubblico sempre più vasto. Come la braciola di capra, cult dell’Agro Nocerino-Sarnese, in particolare di Siano, Torello di Castel San Giorgio, Bracigliano e Mercato San Severino, terre particolarmente adatte per le loro essenze arbustive alla specie caprina: la morte sua è con i cavatelli preparati soltanto con farina, acqua e sale ed abbondantemente bagnati dal ragù, ovviamente di capra e con la percoca giallona di Siano affogata nel vino a fare da degna conclusione di un pranzo per stomaci robusti. Braciola, che come tutti i cibi poveri non ama le sofisticherie e può variamente declinarsi per quanto riguarda la scelta del pezzo da utilizzare: ottima la spalla ma vanno bene anche la coscia e la pancia.
L’importante è che venga fatto pippiare a lungo sommerso nella rosseggiante salsa, farcito con prezzemolo finemente tritato, formaggio pecorino romano grattugiato, aglio, pepe nero e sale. Il risultato finale? Una carne morbida che non abbisogna del coltello ed aromatica. Si scioglie in bocca. Immancabile in questo caso l’abbinamento della braciola di capra con le candele spezzate.
Una cucina dai ritmi lentissimi, quasi un rito che rimanda al tempo in cui le famiglie si raccoglievano per ore ed ore in cucina a chiacchierare, riscaldandosi al fuoco delle fornacelle in attesa che il mangiare fosse pronto. Caratteristica anche di quella cilentana, ma potremmo tranquillamente usare l’aggettivo mediterranea vista la sua diffusione dai Balcani al Medio Oriente, equamente divisa tra la vocazione marinara e contadino-pastorale.
Il Cilento è comunque un contesto territoriale dove l’allevamento della capra ha occupato un ruolo di rilievo esemplificato da piatti come la crapa vudduta ovvero la capra bollita: uno stufato ottenuto dalla lunga cottura della carne nel suo brodo, dopo essere stata per circa un giorno in ammollo in acqua, aceto, sale e spicchi di limone, e servita accompagnata con le patate; il soffritto con il pomodoro; il brodo di capra e pane raffermo. Famosa a questo proposito la sagra della Frecagnola di Cannalonga, piccolo paese vicino Vallo della Lucania e un tempo rinomnata per la qualità dei suoi capretti.
Un piatto quest’ultimo – che si ritrova, a dimostrazione di come la cucina povera non faccia distinzioni tra Nord e Sud, anche in quel di Parma con la suppa cuata, una zuppa fatta di strati sovrapposti ed alternati di pane raffermo, formaggio fresco e sminuzzato, brodo di capra e leggero sugo di pomodoro. A Ticciano, frazione di Vico Equense, la carne di capra è protagonista di un ragù celebrato da Antonino Cannavacciuolo, ticcianese vip che l’ha rivelata nel suo libro In cucina comando io: dopo essere accuratamente pulita viene condita con cipolle, basilico, sale ed olio, aggiungendo quando la cottura è a metà la cosiddetta semmenta, un ramo di vite che conferisce al composto un particolare sapore. Dopo circa 8 ore di lento pippiamento il ragù è pronto per sposarsi con i saporosi paccheri di Gragnano.
L’Abruzzo, terra dei pastori migranti cantati da Gabriele D’Annunzio conserva diverse ricette di capra come quella alla neretese, così chiamata perché espressione di un gruppo di comuni in provincia di Teramo. Piatto tipico delle feste di Pasqua, è un secondo dalla carne di colore rosso ambrato presentato con sugo di pomodoro e peperoni rossi fritti.
Legato alla trasmumanza è lo spezzatino in umido detto alla molisana, un piatto che veniva preparato soltanto nei casi di forza maggiore, quando diventava necessario ammazzare la capra adulta, vittima di un incidente e sempre cucinata così per motivi di comodità dei pastori erranti ma, soprattutto, per eliminare il sapore forte e penetrante dell’animale adulto. A base di pomodori, cipolla, vino rosso, salvia, alloro, rosmarino, peperoncino ed olio faceva da primo e da secondo. Con il sugo si condiva la pasta, la carne si mangiava; ricorda per gli ingredienti utilizzati per il ragù, i maccaruni ca carni i crapa calabresi mentre per i maccheroni, fatti con farina di semola rimacinata ed acqua, i cavatelli dell’Agro Nocerino-Sarnese. Ulteriore bella, efficace dimostrazione della forza creativa della cucina povera.

Fonte Il Mattino, di Alfonso Sarno

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