Coronavirus, il Pascale lavora al vaccino italiano: parte il progetto

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Coronavirus, il Pascale lavora al vaccino italiano: parte il progetto. Tutti i dettagli in un articolo dell’edizione odierna del quotidiano Metropolis a fimra di Vincenzo Lamberti. Il vaccino italiano, ideato da Takis e sviluppato in collaborazione con Rottapharm Biotech, se la sperimentazione andrà a buon fine, potrebbe essere disponibile nei primi tre mesi del 2022. A confermarlo è il professor Lucio Rovati, presidente e direttore scientifico di Rottapharm Biotech, nel corso dell’avvio della sperimentazione all’Ospedale San Gerardo di Monza. Alla sperimentazione, oltre all’Istituto brianzolo, con diversi ruoli partecipano anche l’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e l’Università degli Studi di Milano- Bicocca.

Il numero uno di Rottapharm Biotech, ha inoltre fatto un appello affinché anche il pubblico, in qualche modo, sostenga la via italiana al vaccino. Al Pascale di Napoli, ospedale in prima linea contro il Covid, è tutto pronto per la sperimentazione che potrebbe partire ad aprile. A darne conferma è il dottor Luigi Buonaguro che fa parte dell’advisor board insieme al professor Botti. «Il Pascale coordinerà la sperimentazione clinica sotto la guida del professore Ascierto» spiega Buonaguro. «Anzitutto spieghiamo che si tratta di un vaccino a “dna” mentre gli altri che stiamo utilizzando sono sia “Rna” come Moderna o Pfizer, sia vaccini veicolati da un virus attenuato come Astrazeneca».

Il componente dell’ad- visor board del Pascale spiega anche come funzionerà la sperimentazione: «La fase 1 è molto semplice: sarà fatta sperimentazione in un numero limitato di volontari. Di solito questa fase viene effettuata sempre su numero di 10/20 pazienti a cui inoculeremo dosi di questo vaccino per capire quali sono effetti tossici. Nella fase uno la cosa importante è la tossicità, solo dopo si vedranno le risposte immunitarie. I tempi, in questo caso possono essere molto stretti: teoricamente se tu riesci ad arruolare i venti pazienti in un solo giorno, somministri la prima dose. Dopo due settimane la seconda dose. In due mesi hai finito la prima fase della sperimentazione. Dipende solo dalla velocità con cui arruoli i pazienti che ti sei prefisso di testare» spiega il medico. Così si arriva a quella che viene definita la fase 3.

«Si aumenta il numero di soggetti che arruoli per sperimentazione e quindi vai a valutare la tossicità ma anche ad accumulare più informazioni sulla risposta del sistema immunitario nei confronti del vaccino. A questo punto vedi se ha efficacia di protezione dalla malattia». Serve, in questo caso, un periodo più lungo. «I pazienti devono poter incontrare il virus, in questo modo si capisce se il vaccino li protegge» spiega Buonaguro che spiega: «Il vero esperimento di efficacia di un vaccino è nella fase 3. A quel punto devi arrolare migliaio di pazienti, dividendoli tra un gruppo di non vaccinati e un gruppo a cui vai a dare il vaccino. Servono migliaia di pazienti e un periodo di osservazione per vedere il percorso nel tempo». A questo punto, con i dati definitivi della sperimentazione, si può procedere all’attività di richiesta di autorizzazione.

«Con i dati vai all’Aifa, se si tratta dell’Italia oppure all’Ema, nel caso dell’Europa e chiedi autorizzazione alla produzione. Se i risultati sono degni di nota il vaccino viene approvato e può essere utilizzato nella popolazione generale» spiega il medico del Pascale. Che chiarisce anche i dettagli della polemica sulla liberazione dei brevetti: «È chiaro che le aziende farmaceutiche fanno questo per mestiere. Queste fasi necessitano di investimenti milionari. Se io azienda ho investito soldi miei per produrre il vaccino, devo rientrare in questo investimento. Dall’altra parte c’è un discorso socio sanitario perché ho milioni di persone infettate e che possono morire, dunque sarebbe più giusto se si liberassero i brevetti e qualunque azienda potesse produrlo come si fa con i farmaci generici. Va anche considerato che la copertura brevettuale dura dieci anni. Si tratta di contemperare dunque queste due esigenze» conclude il dottor Buonauguro.

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