Tino di Camaino tra Amalfi e Sorrento Pierluigi Leone de Castris fotogallery

Riprendiamo in toto il saggio del prof Pier Luigi Leone De Castris, pubblicato su NAPOLI NOBILISSIMA nel 2018, in quanto di estremo interesse per una storia medievale della scultura in Penisola Sorrentina Amalfitana, alla luce dei costituendi Musei Diocesani  e per la precisione dei raffronti e segnalazioni delle fonti di Massa Lubrense e dei suoi tesori.

Fino a qualche anno fa sembrava che l’attività meridionale del grande scultore senese Tino di Camaino – vero protagonista della svolta in chiave moderna e toscana della scultura in marmo nella Napoli angioina – si fosse in qualche modo ‘fermata’ a Cava de’ Tirreni, sede di importanti sue opere databili fra il 1329 e il 1331, e non fosse giunta a toccare i pur ricchi centri della penisola sorrentina e amalfitana1 . Un’attività, la sua al Sud, d’altronde prevalentemente napoletana; un’attività strettamente legata in massima parte alle commesse di sepolcri, Madonne e altari in marmo a lui rivolte in primis dalla famiglia reale angioina, da re Roberto, dalla moglie Sancha e dal figlio Carlo di Calabria – ch’erano stati d’altronde, e con ogni probabilità, i promotori del suo trasferimento da Firenze a Napoli come ‘scultore di corte’ nel 13242 – e in seconda battuta, a quanto sembra, dai principali esponenti della corte e della più stretta cerchia dei sovrani, come gli arcivescovi di Napoli Annibaldo Caetani e Giovanni Orsini, il protonotario e logoteta del regno Bartolomeo di Capua o l’arcivescovo di Salerno Orso Minutolo3 ; senza dire che anche la sua presenza e la sua cospicua attività nella citata abbazia di Cava de’ Tirreni, al servizio – diceva un’epigrafe oggi perduta e trascritta a fine Settecento dal de Blasi – dell’abate Filippo de Haya, in carica dal 1316 al 1331, non sembrano d’altronde essere cose estranee a questo suo ruolo di ‘scultore di corte’, con ogni probabilità spiegabili anzi, come ha giustamente rilevato Francesco Aceto, sulla base del peso a corte «dell’influente fratello di Filippo, Giovanni de Haya, reggente della curia della Vicaria, dal 1329 in rapporti stretti con lo scultore senese quale responsabile amministrativo della costruzione della Certosa di San Martino e del castello di Belforte»4 . Da qualche anno in qua, tuttavia, si è visto che questa immagine così tanto ‘napoletana’ e così esclusivamente legata al ruolo di Tino in città e a corte non è forse del tutto rispondente al vero, che qualche deroga dové forse esserci, e soprattutto – per quello che qui più ci interessa – che le vivaci cittadine della penisola sorrentina e amalfitana doverono ricevere qualche opera di mano dello scultore senese in persona, e non solo della sua bottega o dei tanti scultori locali del suo seguito. Nel 2004, ad esempio, Antonio Braca ha illustrato per la prima volta un bel frammento di fronte di sarcofago coi Santi Giovanni Battista e Matteo (fig. 2) – in realtà già segnalato come opera di Tino dal Toesca nel 19515 – conservato nella sacrestia della chiesa del convento francescano di Sant’Antonio ad Amalfi (oggi trasformato in Hotel Luna), ipotizzando, sulla base di un’iscrizione mutila che lo accompagna, che esso fosse stato commissionato allo scultore senese dal frate francescano del luogo Michele Cardine6 . Nel 2009 Aceto ha riferito a Tino in persona un rilievo con un San Pietro conservato nella chiesa di San Pietro a Monticchio (fig. 3c), un casale di Massa Lubrense, giustamente supponendolo parte di uno smembrato trittico in marmo con la Madonna e il Bambino, san Giovanni Battista e san Pietro del quale sino a quel momento si conoscevano i primi due pannelli, l’uno murato sulla facciata della chiesa di Santa Maria di Castello a Castrovillari, in Calabria (fig. 3b), e il secondo già in collezione Loeser a Firenze ed ‘emigrato’ negli anni Cinquanta prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, in collezione Alana a Newark (fig. 3a)7 . E nel 2011, infine, lo stesso Aceto ha pubblicato una piccola Madonna col Bambino in legno intagliato e dipinto conservata nella chiesa di Santa Maria del Principio a Ponteprimario, una frazione di Maiori (fig. 8), attribuendo anche quest’ultima scultura – raro esempio di un prodotto di natura cultuale, destinato alla devozione privata, e per di più appunto in legno – alla mano di Tino8 . Sebbene il San Pietro di Monticchio – indipendentemente dal quesito su quale fosse poi la sua collocazione originaria – sia a mio avviso il pannello del trittico oggi smembrato in cui più forte si sente la presenza d’un aiuto di bottega9 , e sebbene l’iscrizione col nome di fra’ Michele Cardine sul rilievo di Amalfi sia in realtà frutto di un riutilizzo d’epoca più tarda10, ci sono oggi dunque le tracce e le condizioni per ipotizzare che un’attività di Tino per e forse nei territori della penisola e della costiera vi sia stata, e per introdurre dunque con fiducia la discussione di un pezzo di notevole qualità proveniente per l’appunto da una chiesa dell’attuale diocesi di Sorrento e questa volta riferibile – io credo – senza dubbi o incertezze alla mano stessa del grande artista senese. Si tratta di una Madonna col Bambino in marmo alta 67 centimetri, appartenuta alla chiesa di Santa Maria della Misericordia, nel casale omonimo di Massa Lubrense non distante da Monticchio (fig. 4), ed oggi conservata in un deposito di sicurezza a cura della locale parrocchia; una scultura fin qui rimasta del tutto estranea alle ricerche e alla bibliografia su Tino di Camaino, ma non del tutto ignota agli studi, se nel 1917 Riccardo Filangieri ne pubblicava una piccola immagine nel suo Sorrento e la sua penisola, definendola – non senza una qualche ragione – come una «statuetta della scuola dei Pisani»11; e se un’altra immagine – questa volta un particolare del busto – è comparsa più di recente sulla copertina di una pubblicazione del locale Archeoclub, accompagnata da un più puntuale riferimento al nome di Tino di Camaino in persona12. Realmente questa squisita e falcata Madonnina ha qualcosa a che fare con i più celebri e antichi esemplari in marmo, o anche in avorio, prodotti a cavaliere fra Due e Trecento da Giovanni Pisano, da quelli ora nel Museo dell’Opera del Duomo e nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa a quello realizzato nel 1306 per l’altare della Cappella degli Scrovegni a Padova, in genere caratterizzati da una rispondenza altamente gotica di linee curve e insieme da un gioco di intensi e teneri sguardi fra la Madonna ed il Bambino13; e ancor di più essa ha a che fare, nella resa più lieve dei panni sovrapposti, nell’eleganza più languida e nella natura più larga e pingue del Bambino, con le altre Madonne isolate, stanti e a figura intera, in rilievo o a tutto tondo, prodotte da Tino a Napoli, come quelle dell’Ashmolean Museum di Oxford, della chiesa di San Pietro a Fondi, del Detroit Institute of Arts o della basilica di Santa Caterina a Galatina (fig. 9)14. Rispetto a queste ultime, tuttavia, la sin qui trascurata Madonnina di Massa Lubrense tiene in braccio il Bambino con ancor più meditata tenerezza, e gli porge con la destra una melagrana, mentre quest’ultimo tiene con la sinistra non un uccello – come negli altri casi – ma appunto la melagrana stessa, simbolo della Passione, laddove con la destra afferra arditamente un lembo del velo della madre.

Generico febbraio 2021

E quando poi si esce dalla dimensione dei meri confronti tipologici, si vede bene che la nostra nuova Madonna si rapporta assai bene, più ancora che alle primissime opere realizzate a Napoli dall’artista senese per la corte angioina, come le statue e i rilievi delle tombe di Caterina d’Austria in San Lorenzo Maggiore e specie di Maria d’Ungheria in Santa Maria Donnaregina – dove compare, per l’appunto, una notevole Madonna col Bambino, questa volta in trono –, alle sculture da lui prodotte nel corso dei primi anni trenta del Trecento, come la Giustizia un tempo parte delle tombe forse di Carlo Martello nel Duomo di Napoli (fig. 10) e le altre Madonne, alcune delle quali d’altronde or ora citate, degli Staatliche Museen di Berlino (fig. 6), della Badia di Cava (fig. 5) – parte dello smembrato monumento sepolcrale dell’abate Filippo de Haya –, dell’Institute of Arts di Detroit e del Victoria and Albert Museum di Londra, dell’Ermitage di San Pietroburgo, del Fogg Museum presso la Harvard University di Cambridge (Mass.) e della Hyde Collection a Glenn Falls (fig. 12), delle chiese di Santa Caterina a Galatina (fig. 9) e di Santa Maria del Castello a Castrovillari (fig. 3b), del sepolcro dell’arcivescovo di Salerno Orso Minutolo nel Duomo di Napoli, dell’anconetta in rilievo per Sancha di Maiorca oggi alla National Gallery di Washington (fig. 13) e del trittico delle collezioni del Monte dei Paschi a Siena (fig. 11), in genere caratterizzate da una maggiore elongazione della figura, da una proporzione più ridotta della testa rispetto al corpo e da un certo schiacciamento e riduzione della tridimensionalità della figura come dentro a un più ristretto palcoscenico15. Secondo la tradizione locale la chiesa di Santa Maria della Misericordia sarebbe per altro di fondazione solo quattrocentesca, secondo lo storico seicentesco Giovan Battista Persico in origine fondata dalla sua famiglia e poi dal 1523 passata agli agostiniani; e la sua facciata, inoltre – sulla quale la Madonna di Tino un tempo si trovava – è per di più frutto di rifazioni seicentesche e ottocentesche16. Non è facile perciò capire se la nostra scultura appartenesse in origine allo stesso edificio, un po’ più antico dunque di quanto le fonti non ricordino, ovvero (e meglio) se essa – obiettivamente di piccole dimensioni e non difficile da trasportare – provenisse da un altro monumento della stessa Massa o di qualche centro vicino e fosse poi stata collocata sopra al portale della chiesa della Misericordia, o nel corso del suo restauro del 1613 o addirittura e con maggiore probabilità in tempi ancor più recenti, ad esempio in occasione degli altri restauri del 1894. In particolare è di un qualche interesse che nel 1685 la visita pastorale di monsignor Giovan Battista Nepita agli edifici sacri della diocesi di Massa non faccia menzione alcuna di questa statuetta nella citata chiesa di Santa Maria della Misericordia, ma di contro descriva un «simulacrum lapidis Beatae Virginis detinentis infantem Iesum in brachio sinistro» allora posto sull’altare della vicina chiesetta o cappella di San Sergio; ed è inoltre di un qualche interesse che in questa chiesetta – costruita a detta dello stesso Nepita in antico dall’altra famiglia locale degli Starace – il prelato in visita ricordasse a quella data anche un dipinto murale di probabile età angioina, una «icon […] depictus in pariete, et repraesentat in medio Beatissimam Virginem detinentem suum Sanctissimum Infantem in ulnis, a dextris Sanctos Sergium et Baccum, et a sinistris Sanctos Apoleum et Marcellum, a parte superiori adest misterium Sanctissimae Annunciationis, opus antiquam, et ut dixerunt Gallicum»17. È probabile che proprio questa fosse dunque l’ubicazione originaria della nostra Madonnina di Tino; così come d’altronde è probabile che il sarcofago già più volte citato e oggi murato nell’Hotel Luna ad Amalfi, prima ancora d’essere riutilizzato e dotato d’un’iscrizione – tra Quattro e Cinquecento – dal frate Michele Cardine, fosse stato in realtà commissionato e realizzato sin dall’origine, e cioè nei primi anni trenta del Trecento, proprio per quel complesso, e cioè per l’antico convento francescano di Sant’Antonio di Padova, che in quello stesso periodo, dal 1331 in avanti, era stato scelto come sua sede e abitazione dall’insigne teologo scotista ed arcivescovo francescano del luogo Landolfo Caracciolo, membro d’una famiglia napoletana d’antica origine e di provata fedeltà angioina, autore di sermoni e di un commento alle Sentenze di Pietro Lombardo dedicato al sovrano Roberto d’Angiò, il quale, rientrato a Napoli dai suoi studi parigini attorno al 1320 e dopo un breve soggiorno nel convento e Studio francescano di San Lorenzo Maggiore – dove Tino nel 1324 intanto realizzava la sua prima opera napoletana –, sarebbe stato nominato nel 1327 vescovo di Stabia e nel 1331 arcivescovo di Amalfi e sarebbe infine divenuto dopo il 1343 consigliere, logoteta e protonotario della nuova regina Giovanna I d’Angiò18. Non più singoli casi isolati, dunque, il sepolcro di Amalfi (fig. 2), la Madonna in marmo di Massa (fig. 4), quella lignea di Ponteprimario (fig. 8) e forse anche il San Pietro di Monticchio (fig. 3c) finiscono così col costituire una rete di presenze ‘tiniane’ su uno stesso e limitato territorio; e finiscono perciò col rappresentare, saldandosi l’una con l’altra, un indizio concreto d’un’altra area di azione e di attività per il più grande e moderno scultore della Napoli angioina.

 

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