Il “Falcone” del 1800? Era di Vietri sul Mare

Il “Falcone” del 1800? Era di Vietri sul Mare. Tutti i dettagli in un articolo di DOMENICO DELLA MONICA, nell’edizione odierna della Città di Salerno. Diego Tajani era nel pieno della maturità di uomo e di magistrato quando, il 17 ottobre 1868, fu trasferito da Catanzaro a Palermo come procuratore generale del Re. Era nato l’8 giugno 1827 a Cutro, dove il padre reggeva il comando militare della provincia di Catanzaro. La sua era una nobile famiglia di Vietri sul Mare. Liberale, si era laureato in giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1850. Avvocato presso il tribunale di Salerno, aveva difeso, nonostante l’ostilità del governo borbonico, Nicotera e altri superstiti dell’impresa di Carlo Pisacane nel processo celebratosi nel 1858 davanti alla Gran Corte Criminale di Salerno.

La sua difesa coraggiosa, anche se sfortunata, gli aveva procurato vasta notorietà in tutto il Regno delle due Sicilie e non solo. Costretto a fuggire in Piemonte per evitare l’arresto come cospiratore, fu presentato a Torino a Cavour, che aveva manifestato il desiderio di conoscere quel coraggioso avvocato. Nel capoluogo sabaudo aveva ripreso l’attività forense, pubblicando anche un commentario al codice penale del Regno di Sardegna, per il quale aveva ricevuto le lodi ufficiali del ministro guardasigilli De Foresta. Nel 1859 si era arruolato volontario, come soldato semplice, nel Secondo reggimento fanteria, ma ben presto era stato richiamato da Cavour e inviato in Toscana come vice uditore generale, col compito di riordinare i tribunali militari in Italia centrale.

Il 19 novembre 1860 veniva nominato giudice di Gran Corte Criminale con le funzioni di procuratore generale presso la Corte dell’Aquila e poco dopo chiamato a reggere la Prefettura di polizia a Napoli. Con Silvio Spaventa, consigliere di luogotenenza, aveva condotto un’energica politica contro i camorristi, infiltratisi nel periodo “rivoluzionario” nell’amministrazione pubblica; entrambi si erano dimessi il 18 luglio 1861 in polemica con il luogotenente generale Cialdini. Perché quest’ultimo aveva ripristinato le pattuglie armate create dal famigerato Liborio Romano nei momenti più critici del passaggio di regime, ma che Tajani e Spaventa avevano invece abolito. Tornato alla magistratura, fu in seguito trasferito ancora a Napoli come sostituto procuratore generale e incaricato per breve tempo di reggere la procura generale. Il suo sodalizio con Spaventa continuò, il che gli procurò le critiche della Sinistra, in particolare di Nicotera diventato suo avversario: lo accusò sui giornali di opportunismo politico ai fini della carriera. Passato ad Ancona come procuratore generale reggente presso quella Corte d’Appello, fu quindi trasferito nel settembre 1866 a Catanzaro a dirigere quella procura, e da lì inviato a Palermo dove arrivava preceduto da fama di magistrato integerrimo e severo.

A Palermo Tajani trovava un ambiente piuttosto caldo. Il capoluogo, e più in generale la Sicilia centro-occidentale, rappresentavano, infatti, una spina nel fianco delle autorità per la difficile situazione dell’ordine pubblico. I problemi a Palermo, e più in generale nella Sicilia centro- occidentale, erano cominciati già all’indomani dell’Unità. I funzionari governativi si trovavano ad operare in una realtà poco conosciuta, ostile al governo anche per la repressione da questi condotta contro i rappresentanti del partito d’azione che, pur avendo sostenuto il massimo peso dell’impresa garibaldina, si trovavano tagliati fuori dai posti di governo a causa della politica miope e ristretta della Destra. Ma, a parte i dissidi politici, quella realtà rivelava aspetti inquietanti: la presenza diffusa di un potere violento e criminale che non appariva isolato dal resto della società, ma veniva anzi utilizzato, con ambigui rapporti di scambio, dalle classi dirigenti locali ai più svariati fini, politici o economici. Polizia e magistratura si trovavano nell’impossibilità di trovare testimoni che permettessero di individuare i colpevoli dei numerosi e gravi reati di sangue. All’isolamento politico della Destra, insomma, si aggiungeva una realtà sociale non facile da controllare e da ricondurre nei confini della legalità.

In questa situazione le autorità politiche non tennero una coerente linea di condotta, ed oscillarono fra momenti di apertura alle forze locali e tentazioni autoritarie. Infatti ci fu un frequente ricambio del personale amministrativo e giudiziario: dal 1860 al 1866 ben dieci funzionari si alternarono a dirigere la Prefettura di Palermo, mentre cinque furono i questori che si avvicendarono nello stesso periodo, e ben sei procuratori generali avevano preceduto Tajani nella carica dal 1862 al 1868. Questa girandola di funzionari evidenziava una chiara impotenza del governo: si affidava alle iniziative dei singoli più che a coerenti politiche nei confronti dei problemi siciliani, lasciando oltretutto i propri funzionari indifesi davanti alle conseguenze di un’azione amministrativa incerta, oscillante, esposta di volta in volta ora alle tentazioni di soluzioni autoritarie ora ad opportunismi e reticenze, nell’esigenza di non alienarsi il consenso dei ceti dirigenti siciliani naturalmente ostili a qualsiasi politica di rigore in materia di ordine e sicurezza pubblica. Era così inevitabile che ben presto scoppiassero contrasti tra magistrati e funzionari statali: i primi denunciavano le pratiche illecite dei secondi per garantire l’ordine, ed in particolare quella di fermare individui sospetti e di trattenerli in carcere senza sottoporre tempestivamente i fermi alla conferma dei giudici. Questori e prefetti a loro volta accusavano i giudici di comportamenti eccessivamente garantisti, dietro i quali spesso lasciavano intravedere l’accusa di codardia o peggio di collusione con gli elementi malavitosi. Quando Tajani giunse a Palermo vi trovò come questore Giuseppe Albanese, un “duro”, un poliziotto che non nascondeva l’utilità di mantenere in carcere gli arrestati dopo che l’autorità giudiziaria ne aveva ordinato il rilascio; il prefetto era Giacomo Medici, prestigiosa figura di patriota e combattente. Il governo quindi nel capoluogo siciliano schierava alcuni dei suoi uomini migliori, energici ma non sgraditi alla Sinistra.

E all’inizio tra le autorità di polizia e il capo della procura generale i rapporti sembravano buoni: «Egregio e intelligente magistrato», definiva Medici il Tajani in un rapporto al Ministero dell’Interno. Ben presto, tuttavia, quell’apparente concordia si infranse. Medici era infatti propenso ad un uso deciso di tutti gli strumenti repressivi a sua disposizione, libero da impacci legali. Ma Tajani non era disposto a seguirlo su questa linea. Il procuratore non poteva ammettere che venisse sottratta all’autorità giudiziaria, ed in particolare alla procura generale, il controllo dell’attività repressiva: riteneva giustamente che fosse sua prerogativa istituzionale controllare l’operato di Questura e Prefettura, una volta che i sospetti fossero stati accusati di qualche reato. Ma c’era dell’altro. Ben presto Tajani scoprì che il questore Albanese impiegava noti delinquenti come poliziotti: non li puniva quando erano implicati in altri reati e nemmeno quando erano accusati di servirsi della loro carica per operazioni criminali. Tutto ciò divenne di dominio pubblico quando Tajani emise un mandato di cattura contro Albanese. Ma con sorpresa di Tajani il governo ordinò che il mandato non fosse eseguito; e, cosa altrettanto inquietante, alcuni testimoni che accusavano il questore furono assassinati. Il governo non poteva licenziare i giudici, ma usava regolarmente il potere di trasferirli per punire i nemici e ricompensare gli amici. Tajani, dopo l’assoluzione di Albanese, rifiutò il trasferimento alla Corte di Napoli, si dimise dalla magistratura e tornò a fare l’avvocato. Alle elezioni del 1874 Tajani si presentò come candidato della Sinistra nel collegio di Amalfi: stravinse con 531 voti contro i 250 ottenuti dal candidato governativo Ferdinando Acton (per la cronaca, i votanti furono 793). Una volta in Parlamento Tajani rese pubbliche le collusioni fra polizia e mafia con un discorso memorabile l’11 giugno 1875. Un atto d’accusa luci- do e spietato contro le autorità, corredato di episodi, riscontri, particolari inquietanti. Tajani mise sotto accusa un sistema nel quale la morale e la giustizia erano latitanti, rivelando come era stata diretta la Questura di Palermo e le indebite pressioni del governo nell’orientare il processo contro Albanese verso una soluzione favorevole al questore. Le sue accuse fecero scalpore e provocarono un aspro intervento di Lanza, chiamato in causa da Tajani perché come presidente del Consiglio e ministro dell’Interno dell’epoca aveva praticamente costretto lo stesso Tajani a dimettersi da magistrato e facilitato il salvataggio del questore Albanese. In pratica, in quella drammatica discussione, tutti i governi della Destra furono coinvolti dalla Sinistra nell’accusa di avere instaurato in Sicilia un’amministrazione fondata sull’arbitrio e sulla collusione con la malavita. Il Parlamento non amava discutere di mafia, perché i deputati siciliani erano troppo implicati o troppo timorosi o troppo orgogliosi per vedere di buon occhio questo genere di discussioni: essi erano i soli a conoscerne i particolari, e quando Tajani osò rompere il silenzio cercarono di minimizzare la questione. Ad esempio Crispi, che guidava la Sinistra siciliana, fu stranamente reticente nei suoi commenti. La Destra uscì a pezzi da quel dibattito e Tajani divenne, di colpo, un personaggio di primo piano. La successiva carriera politica dell’ex procuratore generale di Palermo visse momenti di travolgenti successi alternati a periodi meno esaltanti: oscillò a Sinistra nell’appoggiare alternativamente Depretis, Crispi e Cairoli per poi avvicinarsi, infine, al suo vecchio avversario Nicotera.

Nel maggio 1878 difese in un celebre processo, da avvocato, il ministro dell’Interno Francesco Crispi accusato di bigamia. Il processo, breve, si concluderà, grazie all’appassionata difesa di Tajani, con un giudizio favorevole a Crispi.

Fu ministro di Grazia e Giustizia dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879, e dal 29 giugno 1885 al 4 aprile 1887. Elaborò numerosi provvedimenti di riforma e qualcuno venne tramutato in legge, come quello che prevedeva l’obbligo di celebrare il matrimonio civile prima di quello religioso. Partecipò sempre attivamente alla vita politica della nostra provincia. Alle elezioni del 1890 non venne rieletto ma fu nominato dal primo ministro Di Rudinì senatore a vita. Morì a Roma il 2 febbraio 1921 all’età di 94 anni.

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