Positività al Covid-19, vi raccontiamo come funziona in Inghilterra

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Positività al Covid-19, vi raccontiamo come funziona in Inghilterra. Avrai tempo di capire le cose che non vanno nel sistema sanitario nazionale”, mi è stato detto da più di un collega che vive a Londra da molto più tempo di me, neo corrispondente arrivata nel momento più drammatico della pandemia per questo Paese, alle prese con una nuova variante ultra contagiosa e un incremento impressionante di nuovi infettati e di decessi come mai prima.

Qui nella capitale, Londra, il sindaco, Sadiq Khan ha proclamato lo stato di emergenza perché gli ospedali non ce la fanno più: sono oltre 800 i contagi quotidiani, il numero di ricoveri registra un 50% in più rispetto al picco della prima ondata.

I decessi nel Regno Unito hanno ora superato, in termini assoluti, quelli di qualsiasi altra nazione europea: oltre 81 mila e si teme che la soglia di 100 mila possa essere raggiunta entro fine mese o inizio di febbraio.

Khan ha fatto l’annuncio venerdì 8 gennaio: un mese esatto dal mio arrivo in città e il giorno in cui mi sono svegliata con 38 di febbre. E questa è la storia del mio primo incontro ravvicinato con l’NHS, il sistema sanitario nazionale.

I primi sintomi: che fare?

Venerdì 8 gennaio

Dopo una notte passata insonne a causa della tosse, mi sveglio con febbre a 38.  Penso al Covid ma penso anche di essere stata attentissima. E’ vero: mi sono mossa per lavoro per la città, ho preso a ripetizione la metropolitana per fare dirette da posti diversi, ma ho sempre indossato la mascherina, igienizzato le mani, praticato il distanziamento sociale.  Potrebbe essere un raffreddamento: in questi giorni la temperatura è scesa sotto lo zero, e quindi è possibile che stando fuori abbia preso freddo. Maè anche vero che ho fatto il vaccino antinfluenzale, e quindi in teoria dovrei essere più tutelata…

Devo fare il tampone, visto che i sintomi sono compatibili col covid 19. Il sistema mi riserva la prima piacevole sorpresa. Accedo al link del governo che fornisce la possibilità di fare il test gratuitamente  per chi, come me, ha appunto dei sintomi. Mi offrono due opzioni: ricevere entro 24 ore il kit per fare il test a casa e poi spedirlo indietro, o recarmi io, a piedi, nel centro selezionato più vicino. Opto per questa possibilità: è a circa tre chilometri da casa mia.  Fisso l’orario per il primo pomeriggio, quindi a distanza di poche ore dalla richiesta.

Sul cellulare mi arriva una mail con tutti i dettagli, le istruzioni e un qcode.

Arrivo al centro, non c’è coda, non c’è attesa. Mi scannerizzano il qcode, mi consegnano il kit e mi indicano il percorso obbligato dove, da sola, mi farò il tampone. Mi attendono una seggiolina, un tavolino, uno specchio e un poster appeso al muro con tutte le istruzioni (comprese indicazioni grafiche su dove si trovino le tonsille…).

Mi sento un po’ goffa, ma seguo attentamente le indicazioni, consegno il mio pacchetto e torno a casa ad attendere il risultato. “Arriverà entro 5 giorni”, mi avvisano all’uscita. Un collega di Sky News mi assicura: “Vedrai che l’avrai già domani”. E così è stato.

Il suo test è positivo

Sabato 09 gennaio

“Your coronavirus test result is positive”: la mail arriva a meno di 24 ore dal test. Mi avvisa che dovrò stare in autoisolamento per dieci giorni cominciando a contare dal primo giorno che sono comparsi i sintomi. Dopodiché non verrò più giudicata infettiva.

Una seconda mail arriva poco dopo, esortandomi a inserire un codice nella app dell’NHS. E’ importante ricostruire tutti i miei contatti (pochi) e movimenti (non così pochi).

Pronto? Qui è l’NHS

Domenica 10 gennaio

Pronto? Qui è l’NHS. E’ la prima telefonata che ricevo sul mio numero inglese, penso, e lo trovo ironico.

Un cortese addetto del sistema sanitario mi tiene al telefono mezz’ora. Si assicura su come sto. Passa in rassegna tutti i sintomi. Mi avvisa su come comportarmi nel caso i miei sintomi peggiorassero (va chiamato il 119) e poi passa in rassegna tutti i miei spostamenti, le mie attività, gli incontri dal 30 dicembre in avanti.

Mi fornisce anche un numero di telefono: corrisponde a un gruppo di volontari del quartiere che fornisce assistenza (cibo o medicinali a domicilio) per persone che si trovano in autoisolamento e vivono sole.

Chiude la lunga telefonata chiedendomi un giudizio sull’NHS, che, nel caso specifico, non può che essere più che positivo.  Resto con un’unica perplessità: mi è stato ribadito che a dieci giorni dalla comparsa dei primi sintomi potrò uscire di casa. Nessun tampone o doppio tampone necessario. Evidentemente, penso, si affidano alle statistiche, ai numeri. Ma le disparità tra Paese e Paese mi lasciano un po’ perplessa.

Fonte SktTg24, di Tiziana Prezzo

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