Aiuto: “So’ sbarcati li turchi alla marina!”. Il coraggio dell’accoglienza

È possibile parlare del “bene” come principio fondamentale del vivere civile? Osservando la scena politica e mondiale di questi ultimi giorni ero titubante ma fiducioso, forse perché quando si tratta di “macrosistemi”, l’analisi, anche emotiva, tenta a stemperarsi. Ma quando accaduto ieri sera m’impone il dovere di una riflessione più attenta. L’antefatto è che mentre ero ospite di Positano news, della trasmissione «Ma di cosa parliamo» condotta dal giornalista Luigi (Gigi) Maresca, il direttore Michele Cinque ci interrompe per mandare in anteprima uno scoop: «Clandestini sbarcati a Nerano!». Ascolto con attenzione i primi commenti a caldo che vanno dalla paura del migrante a un tentativo di infiltrazione mafiosa nel nostro territorio e mi chiedo, qual è il nesso? Perché nasce spontaneo l’assioma migrante = untore o migrante = spacciatore? Non vi dico cosa si è scatenato su internet e sui social contro queste persone, sembrava di rivivere quando accade in Puglia nel 1480 quando i Turchi arrivarono e fecero un massacro. Qualcuno ha pensato bene di rispondere a chi ne prendeva le difese o era contro questo becero odio: «E tu, col tuo buonismo da quattro soldi, cosa stai facendo per loro?». Mi associo e condivido quanto scrive e posta il giovane amico Peppe Maresca e rispondo che ognuno deve aiutare e intervenire con i mezzi più idonei e congeniali, io lo faccio scrivendo in coerenza con la mia idea di umanità, supportato dalla mia fede. Quindi, il mio scrivere è rivolto agli «uomini di buona volontà» e ai «cattolici professanti», chi non si riconosce in queste due categorie può anche fare a meno di proseguire la lettura. Chiusi in questa forzata clausura non è che siamo autorizzati a “chiudere” anche i nostri cuori, il valore del «noi» è costitutivo della società, senza il quale non ci si può riconoscere e non può esserci una scelta verso il bene e l’apertura all’altro. Scrive Corrado Alvari: «La tentazione più sottile che possa impadronirsi di una società è quella di pensare che vivere rettamente sia inutile». Ma le tentazioni sono stimoli a renderci migliori e la Gaudium et spes, al n. 26 ci raccomanda di raggiungere insieme la propria perfezione, il bene comune, che è mettere al centro la dignità di ogni persona umana, qualunque sia il colore della pelle, la fede e la cultura. Bisogna uscire da una logica “populista” del «tutto e subito», una logica che motiva promesse che non può mantenere e scatena violenza sull’altro, il diverso. Un leader che sbandiera simboli religiosi o una capopopolo che crede di essere Eleonora Pimental Fonseca e non è altro che l’ombra proiettata su un muro rabberciato, compattano i “fedeli” alimentando il consenso cercando di soffiare sul fuoco, alzando i toni del dibattito politico, incitando ed eccitando l’opinione pubblica. Ed ecco che il linguaggio si fa spettacolo, la comunicazione roboante monologo e s’investe sul fatto emotivo e non su quello critico, riflessivo. Come è lontano tutto questo da quell’accoglienza e ospitalità di antica memoria, che appartiene al nostro ieri, alle nostre famiglie contadine e rurali, una sapienza che la Bibbia traduce come valori di tutti i popoli, rappresentati da Abramo alle Querce di Mamre che tenta di salvare Sodoma e Gomorra. Non molto tempo fa abbiamo sentito un accorato appello, Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato incitava: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». Lasciamoci illuminare e guidare dalla Luce del Vangelo. Cristo si fa accanto all’umanità attonita e frastornata, triste e delusa come i discepoli di Emmaus e, sotto le spoglie del pellegrino, del migrante, del povero, ci indica nuovi percorsi di speranza. Un mio caro amico e collega, don Antonio Ascione, scrive che deve finire l’homo oeconomicus, utilitarista e possessivo, guidato dal perseguimento del proprio interesse, ed essere sostituito dall’homo donator, capace di farsi carico del proprio agire, non per “altruismo”, ma perché riconosce il debito costitutivo che lo lega agli altri uomini. Ai fini di quel che sto cercando di spiegare è utile precisare che per quanto l’uomo possa sottrarsi alla relazione di dipendenza che lo lega al suo Creatore, l’immagine viene “distorta” ma non può essere distrutta. Quindi se l’uomo vuole mantenersi fedele al suo essere costitutivo non deve interrompere questo legami di dipendenza che conferisce essenza al suo essere uomo. L’immagine e la somiglianza non possono sussistere in un orizzonte di autonomia e di indipendenza reciproca, cioè al di fuori della relazione. Quando l’uomo si sottrae a questo legame, rinnega la sua natura si orienta cioè verso il fallimento ontologico, condanna la sua natura creaturale al non-compimento. L’uomo, ontologicamente è da Dio, vive in Dio, il fine del suo esistere è la perfezione, la beatitudine. L’essere umano proviene da Dio e tende verso di lui. Il fine dell’uomo è il bene sommo. L’uomo non deve far altro che tendere verso quell’esemplare di cui è immagine, per cui quanto più somiglierà all’Ente che lo ha fatto, tanto più grande sarà la sua perfezione. Il mio augurio è che dalla Penisola Sorrentina, Eden in terra, possano nascere germi di speranza per questa afflitta umanità.
Aniello Clemente

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