Carlo Franco, l’uomo col taccuino sempre pronto allo scoop

Titti Marrone sul Il Mattino di Napoli traccia un profilo del caro Carlo Franco giornalista di Massa Lubrense scomparso l’altro ieri.

Dopo aver smaltito incredulità e sgomento, il mio primo perentorio ricordo, a due giorni dalla scomparsa di Carlo Franco, ha a che fare con uno scoop e con un buco, categorie decisive e contrapposte del mondo dei giornali di cui è stato per 55 anni un protagonista. Premessa: dicesi «buco» la notizia in esclusiva, riferita da un unico giornale e assente dagli altri, che subiscono così l’altrui successo. L’opposto del «buco» è lo «scoop». E che buco rifilò Carlo Franco a noi de «Il Mattino» quando, sul «Corriere del Mezzogiorno» a cui era approdato, pubblicò un suo scoop: la notizia della morte a Rapallo di Anna Maria Ortese. Ancor mi duole, perché all’autrice del Mare non bagna Napoli ero devotissima. Ma ancor più mi duole perché della redazione Cultura ero allora io la responsabile. Quindi per me, più che un buco, lo scoop di Carlo fu un cratere in cui sprofondare e possibilmente seppellirmi.
Il giorno dopo Carlo mi telefonò, mi raccontò. Voleva addolcirmi l’amaro calice. La sera prima, mi disse, aveva incontrato sotto casa Rita Ortese, nipote della scrittrice, ex regista Rai e sua vecchia amica. Aveva notato la sua aria affranta e gliene aveva chiesto la ragione. Seppe in quel modo che la grande Ortese si era spenta e allora fece le condoglianze alla nipote, inforcò il portone del palazzo di via Caravaggio e volò su per le scale, a scrivere il pezzo. «Ecco, è andata così, io ho avuto fortuna, tu non lo potevi venire a sapere», mi disse con tono consolatorio. A riconsiderarlo ora, quell’episodio ha un che di simbolico e di molto adeguato a dare un’idea di chi sia stato Carlo Franco: un cronista che stava per strada, proprio come gli era capitato quella sera, cioè uno che le notizie se le andava a cercare. Con una tenacia che in nessuna scuola di giornalismo è dato imparare. Con una passione ostinata che rasentava una dipendenza così forte da provocargli quasi crisi di astinenza nei brevi periodi in cui dalla ricerca di notizie è stato lontano.

Di bello c’era poi che lui non solo si lasciava rubare il mestiere, ma sceglieva volentieri d’insegnarlo a quelli che gli sembravano i più promettenti tra i giovani di via Chiatamone. Così, da capocronista, ne adocchiò e formò tanti, da Santa Di Salvo a Gigi Di Fiore a Daniela Limoncelli, da Francesco Romanetti a Generoso Picone. Quando nello stanzone della Cronaca spuntava la sua sagoma così peculiare, si tirava un sospiro di sollievo perché Carlo era «’a chiave e ll’acqua». La persona decisiva capace di risolvere i problemi, come il Mr. Wolf di «Pulp fiction». Con testa velocissima, inquadrava «’o fatto» nella sua giusta prospettiva, con abilità artigianale tirava giù a penna lo schema della pagina quando ancora i menabò si tracciavano a mano, con senso del ritmo sparava il titolo giusto. E per tutti spalancava la sua agenda telefonica zeppa dei numeri che nessuno aveva, tenendola sulla scrivania, a disposizione degli altri.
Per Carlo Franco la notizia era a tal punto un elemento da «lavorare» che a volte riusciva ad ottenerla, o a costruirla, mettendo in scacco la fonte riottosa, giocando d’anticipo o anche mentendo: come se fosse a un tavolino di quel poker a cui tanto amava giocare, magari con i colleghi e, perché no, in redazione nelle pause libere dal lavoro.
La centralità sempre attribuita alla notizia risultò preziosa anche quando, negli anni Ottanta, guidò la scoppiettante redazione del «Mattino del Sabato». Un inserto magnifico, pioniere assoluto della divulgazione culturale italiana, disegnato con pagine ariose e ricche di «scontornati» da Carlo Monti, ideato da Francesco Durante, anima ispiratrice e creativa, con in redazione Antonio Fiore, Michele Bonuomo, Salvatore Signorelli, Eduardo Cicelyn. Anche qui Carlo coinvolgeva i giovani redattori che bontà sua gli sembravano più promettenti, e con me, Titta Fiore, Carlo Nicotera e Romanetti ingaggiò il borsista Pietro Treccagnoli, cui trafugava quotidianamente il panino odoroso di soppressata. Ci voleva però spesso la sua bussola di cronista per ricondurre i nostri frequenti voli pindarici al principio di realtà e al senso della notizia. E l’interfaccia che Carlo incarnò, mediando nella «difesa» dei servizi con i vertici direttivi di un giornale allora alquanto old style e democristiano, garantì a quel gruppo percepito come eterodosso una pressoché totale libertà di scelte e, a volte, perfino impunità.
Quando, con Zavoli, entrambi passammo a lavorare alle pagine di Primo Piano e alle Speciali, con Cicelyn, Treccagnoli, Carlo Nicotera e Rosaria Capacchione, Carlo patì nel dover mettere a punto pagine di approfondimento denominate «Per saperne di più», tanto laboriose quanto scarsamente lette. Ma si mostrò abilissimo quando si trattò di «smontare» le pagine e rimontarle magistralmente all’arrivo di breaking news di caratura internazionale come l’attentato alla moschea di Hebron o lo scontro etnico in Ruanda tra Hutu e Tutsi. Perché, di esteri o di cronaca cittadina, di politica o di cultura, la notizia era sempre per lui la regina.
Il massimo era però quando, chiuso il giornale, si poteva ritirare a Massalubrense, suo luogo dell’anima, con Maria Teresa Campili e con i figli Enrico e Luca. Luogo da gustare per l’incanto della costa e le battute di pesca a bordo del mitico gozzo NoiQuattro, vere sfide ingaggiate con noi amici a cui quasi sempre mentiva per eccesso sulla quantità del pesce pescato. Lo si sapeva benissimo, e gli si perdonava perché almeno in quei casi una notizia falsa gli era consentita: non faceva male a nessuno.

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