Positano: il viaggio da favola all’isola Li Galli

La leggenda delle sirene che portavano i naviganti alla perdizione narrata sin dall’antichità

Domenico della Monica per il quotidiano La Città di Salerno ripercorre la favola della splendida Isola Li Galli che si affaccia verso Positano e la meraviglia di Punta Campanella e Nerano.

Quella delle Sirene è la più bella delle leggende mediterranee. Noi sorridiamo spesso e facilmente delle leggende, che invece credo abbiano nel loro fondo un senso che si rivela solo attraverso il simbolo. Ma la nostra epoca ha quasi perso la saggezza di comprendere i simboli. L’anima è spesso sorda, cieca e muta, prigioniera com’è della falsa realtà che ci circonda. La nostra umanità, poi, tormentata di desideri, vorticosa di volgari appetiti, assillata dalla fretta, non sa più comprendere i colori e i valori dei simboli e dei misteri. Il valore di un paesaggio è nel suo fascino, e la sua bellezza fiorisce nelle leggende che affiorano come misteriosi germogli di una verità impenetrabile. E la nostra Costa non è che un cespuglio di leggende: cantano la divina armonia che è stata perduta dagli uomini alla ricerca frettolosa, tormentata e materiale del danaro.

Dunque, secondo la leggenda, le tre sorelle Ligheia, Leucosia e Partenope, scelta come loro dimora Li Galli (i virgiliani Sirenus scopuli – le Sirenuse) adescavano col canto gli uomini del mare per portarli alla perdizione. Per sfuggire ai loro richiami e superare il tratto di mare che separa l’isola di Capri dalla penisola sorrentina, dove le divine sorelle avevano un veneratissimo tempio, Ulisse, nel poema omerico (Odissea-XII), prevenuto dalla maga Circe, si fece legare all’albero di maestra e turò con cera le orecchie ai compagni. Dopo il passaggio di Ulisse, in preda alla disperazione per essere state vinte dal suo stratagemma, le tre sorelle si tolsero la vita e furono trasportate dalle correnti su lidi diversi.

Nella tradizione poetica che fa capo “all’ Alessandra” di Licofrone, Ligheia fu sbalzata sulla costa tirrenica della Calabria, nel golfo dell’antica Terina; Leucosia si arenò nel golfo di Poseidonia, dando il nome alla Punta Licosa; e infine Partenope fu scaraventata sulle rocce dell’isolotto di Megharis (l’odierno Castel dell’Ovo): qui le fanciulle del luogo ne raccolsero le spoglie e le eressero un sepolcro. Lì vicino fu costruita una città e si chiamò Partenope, dal nome della sirena. In seguito la città, trasformata e ingrandita, diventò Neapolis. Ma chi erano queste sirene che la maga Circe descrive all’eroe di Itaca come le Muse del mare? Quale realtà nasconde questa leggenda poetica, il cui fascino è stato evocato anche nella moderna letteratura, soprattutto da Andersen nella “Sirenetta” e da Thomas Mann nel “Doctor Faustus” ?

Per Cervio erano figlie del fiume Acheloo e di Calliope; per Lattanzio Placido erano figlie di Acheloo e di Melpomene. In una prima epoca le Sirene vissero sotto forma di uccelli. Cioè finchè non solo Ulisse, ma anche Orfeo (nelle “Argonautiche” di Apoollonio Rodio, le sirene furono vinte dal canto di Orfeo, come gli era stato predetto dal centauro Chitone) non resistettero al loro canto. E sotto forma di uccelli, infatti, si sono trovate raffigurate in parecchi frammenti fenici conservati a Napoli e a Londra. Solo in una seconda epoca vediamo le Sirene caudate sotto forma di mostri marini. E se vi fu chi le volle vergini con le ali che volano da Sorrento alle Sirenuse, da Capri a Punta Licosa, altri le definirono donne maliarde, con le code squamose; buone fanciulle selvagge; meretrici viziose; vergini indovine, come le Sibille; mostri marini. Lo storico greco Polibio ritiene che esse significassero una visone incantevole della natura. Cicerone, nel trattato “De Finibus”, interpreta questa credenza come luogo ideale dove cultura e natura si fondono mirabilmente. Le mitiche figlie di Acheloo nell’interpretazione dell’Arpinate sarebbero simboli di popoli colti, i quali, destando curiosità e interesse nei naviganti che si accostavano ai loro scogli per quanto dichiaravano di conoscere, li adescavano e li trattenevano. Nel primo e nel secondo caso appare chiaro come nessun luogo possa contendere al nostro territorio il primato cronologico di centro residenziale (o, se preferite, turistico), il più antico che si conosca e con esso, un’esaltazione letteraria e artistica che non conosce fine.

Ho sempre pensato che i nostri luoghi, da Capo Misero a Punta Licosa, racchiudono in sé un soffio di purezza divina, se non solo i geni di tutti i tempi, da Virgilio a Wagner, hanno attinto qualche ispirazione per le loro opere, ma persino il Poverello d’Assisi, tra Amalfi e Trani, ha fondato, sospeso tra cielo mare e terra, sull’antica rocca di Santa Sofia, il suo primo convento francescano.

Su queste acque, tra Capri e la Punta Campanella, sono passate le navi di Orfeo e di Ulisse, di Cesare e Ottaviano, le rosse prue delle navi fenicie che portavano nelle nostre terre il primo soffio di vita, diciassette secoli prima di Cristo.

Mi guardo intorno, e dalle ombre dei secoli questi luoghi e queste acque mi parlano ancora di Sirene e di eroi, di poeti, di storie e di leggende. Ma sappiamo noi dove finisce la leggenda e comincia la storia? E questi Scogli, questi isolotti chiamati Li Galli, non nascondono forse una verità millenaria? Avvicinandomi, mi sembra di avvertire qualcosa nell’aria, come una misteriosa vibrazione…forse è il loro canto.

La barca scivola leggera, alla ricerca di qualche grotta nella folle speranza di sentire un canto, una voce. Sarebbe meraviglioso se queste onde argentate potessero parlare: loro sicuramente sanno la verità sulle Sirene e sicuramente sanno dove si nascondono. Forse chi dal mare man mano si avvicinava, avvertiva l’approssimarsi di qualcosa nell’aria, qualcosa simile a una voce femminile che stupiva l’udito, un canto sottile, smorzato, insinuante che aveva in sé un senso di infinitamente remoto. La voce rapiva e ottenebrava la mente, guidandola verso un mondo che era al di là dei sensi umani, insostenibile per qualsiasi navigante. E ogni uomo di mare poteva essere indotto a pensare che laggiù, negli abissi, tutto fosse più felice: e non resisteva alla tentazione di tuffarsi. Sarò un folle, ma a me piace pensare che le Sirene siano realmente esistite, che risponda a realtà ciò che scrisse un anonimo nel suo “De monstris et Beluis”: Le Sirene sono fanciulle marine che ingannano i naviganti col loro dolce canto e dal capo fino all’ombelico sono di corpo verginale e molto simili al genere umano, tuttavia hanno la coda squamosa dei pesci, che nascondono sempre nell’acqua. E perché scomparvero? Forse la loro fine fu decretata dai Lestrigoni, selvaggi e cannibali, quando da Gaeta una loro colonia si trasferì nei nostri luoghi.

Ma se il loro canto aveva la misteriosa potenza di un male ignoto, che uccideva lentamente, quasi voluttuosamente chi lo sentiva, può darsi che la spiegazione, la chiave di tutto sia in Omero, nel canto VIII dell’Iliade, quando usa il termine Seirios (ardente) e Seira (catena). Seirios, Sirios, Sirio, la magnifica stella mille volte più grande del Sole. Sirio: il sole della canicola che ottenebra e brucia. E Seira, catena. Quindi Seirena, Sirena, Sole che incatena… All’improvviso il mare si gonfia, le Sirene scuotono le onde: forse non amano visitatori troppo indiscreti e forse vogliono ricordarmi che è ora di tornare a casa. Le stelle, a centinaia, gettano la loro capigliatura ardente sugli Isolotti e sulla Costa che rientrano nell’ombra, con un senso di sogno che svanisce lentamente.

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