CON LA PRO LOCO DI MASSA LUBRENSE IN GIRO PER LA PENISOLA foto

Ricominciano le passeggiate estive a Massa Lubrense!

Cinque itinerari per la riscoperta delle meraviglie della nostra penisola in compagnia di Galano Gennaro,Romina Amitrano e Valentina De Gregorio.

Domenica 12 luglio 2020, con appuntamento alle 18.00 sul sagrato della Chiesa dei Santi Prisco e Agnello, vi aspetto per una passeggiata al tramonto, a spasso per il centro storico di Sant’Agnello, Rione Angro e il Pizzo.  L’iniziativa, organizzata dalla Pro Loco di Massa Lubrense, si inserisce nel fitto programma delle passeggiate estive e rappresenta un appuntamento irrinunciabile per chi vuole riscoprire, “lento pede”, le bellezze del nostro territorio. Ovviamente la passeggiata, che è assolutamente gratuita, deve essere prenotata alla Pro Loco di Massa Lubrense, per garantire il rispetto assoluto delle normative anti-covid e la sicurezza di tutti i partecipanti. A guidare la visita, che si snoderà tra le chiese santanellesi, ci sarà Gennaro Galano, che proverò a farvi tornare, almeno per qualche ora, nel passato; ci immergeremo in secoli di storia, accompagnati dalle tradizioni, dai culti e dalle opere d’arte custodite nelle chiese e cappelle della piccola ma affascinante Sant’Agnello. Per darvi un assaggio di quello che vedremo, e “gusteremo”, vorrei parlarvi di questa seicentesca tela raffigurante “San Giovanni Evangelista“, che alcuni studiosi attribuiscono al pittore sorrentino Giacomo de Castro (1597-1587). In origine l’opera, commissionata dalla potente famiglia santanellese dei Gargiulo, fu destinata all’antica chiesetta di San Giovanni a Vallarano, proprio accanto all’attuale cimitero, sulla strada per Trasaella. In questo luogo i Gargiulo possedevano ampie porzioni di terra, che confinavano con i beni del potente monastero di San Paolo, e sin dalla metà del’500 vi mantenevano la cappella di San Giovanni, destinata forse alla cura pastorale dei “villici” del posto e di coloro che transitavano la trafficata via che conduceva ai Colli. Solo a fine ‘800, quando la chiesetta di Vallarano visse uno dei suoi ciclici periodi di abbandono e incuria, l’ elegante tela fu trasferita dagli stessi Gargiulo nella chiesa parrocchiale, dove tra l’altro detenevano il giuspatronato dell’altare dell’ascensione. L’attribuzione al de Castro però si deve al cappuccino Bonaventura Gargiulo, tanto che negli anni’90 la Soprintendenza ai Beni Artistici accostava il dipinto alla Sant’Anna del Pio Monte della Misericordia.

Generico luglio 2020
Generico luglio 2020

Nel 1582 il celebre pittore napoletano Silvestro Buono, che in Penisola Sorrentina ha lasciato una traccia quasi indelebile con ben 4 capolavori pittorici, consegnò a due ignoti committenti, raffigurati in ginocchio mentre pregano, una sontuosa “Annunciazione”. Si tratta di una tavola dall’alto valore artistico, nata nel pieno della maturità di un artista che aveva iniziato a lavorare già nel 1566 con il noto Giovan Bernardo Lama (legato ad alcune committenze nella cattedrale di Sorrento). Tra colori smaltati e vividi, paesaggi ricchi di rovine e panneggi di un’inedita naturalezza, Silvestro sembra quasi “saccheggiare” gli artisti toscani che operarono a Napoli tra il 1540 e il 1560, nonché i pittori fiamminghi (tra cui Teodoro d’Errico) che influenzarono il suo maestro Giovan Bernardo Lama. Comunque, al di là dei riferimenti, la sontuosa tavola dell’Annunciazione fu collocata nella piccola ma importante chiesetta della SS. Annunziata al rione Angri, fondata in epoca remota (forse nel’400 per opera delle famiglie Fiodo e de Angelis) nel cuore di una delle più antiche e caratteristiche borgate di Sant’Agnello. Già nel 1919 il sacerdote Giuseppe Vinaccia, rettore della chiesetta, definì l’opera di Silvestro Buono “il principale tesoro che possiede la nostra chiesa […] opera egregia per arte ed antichità”. Fu sempre il sacerdote ad indicare che “alla base del genuflessorio della Madonna” vi era il nome dell’artista: “Silvester Bonus napolitanus faciebat 1582”. Purtroppo a causa di alcune sviste di studiosi dell’epoca, don Giuseppe, che pure aveva associato l’Annunciazione santanellese alla tavola del Buono sistemata nella cattedrale di Sorrento (priva della data per il cattivo stato di conservazione), si lanciò in una teoria bislacca per retrodatare le opere alla fine del’400. Ma nonostante ciò, l’Annunciazione di Sant’Agnello resta una delle prove più riuscite di Silvestro Buono, “preziosissima”, a detta della Commissione delle Belle arti di Napoli (nota del 1905), “sia per la sua antichità di quattro secoli e più, sia per il suo valore artistico”.

Generico luglio 2020

IL PIZZO

Palermo, istituito un premio per il recupero e la valorizzazione del Giardino storico del Mediterraneo domenica 29 maggio 2005

Pare che Richard Wagner, in viaggio in Sicilia, ultimò il suo Parsifal proprio fra le aiuole del parco di Villa Tasca a Palermo: un romantico giardino all’inglese in cui si alternano tempietti neoclassici e finte rovine, collinette artificiali ed esotiche rarità botaniche.

Fra i meglio conservati nel Sud Italia e ancora oggi di proprietà dei Conti Tasca d’Almerita, il parco ha rivelato al pubblico i suoi misteri in occasione della manifestazione Natura in festa. Una tre giorni di riflessione sulla cultura ambientalista e sul vivere country, promossa dalle attuali inquiline della villa, le giovani cognate Francesca Borghese, Luisa Mainardi e Franca Tasca.

A inaugurare le attività di Natura in festa la consegna del Premio Camastra, un riconoscimento dato al miglior intervento di recupero e valorizzazione del Giardino storico del Mediterraneo. Il premio, alla sua prima edizione, è stato assegnato al Giardino del Pizzo di Sorrento. Al secondo posto si è classificato invece il Giardino di Villa Landolina, oggi sede del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa. (davide lacagnina)

La giuria della prima edizione del Premio Camastra era composta da Giuseppe Barbera (Ordinario di Culture arboree, Università di Palermo), Francesco Canestrini (Manutentore del Parco e della Reggia di Caserta), Annalisa Maniglio Calcagno (Presidente del Corso di laurea in Architettura del paesaggio, Università di Genova), Francesca Marzotto Caotorta (giornalista) e Paolo Pejrone (architetto e scrittore).

Dal libro  Sorrento bosco  di agrumi

Andrè Gide descrive nel Jurnal le meraviglie de il Pizzo e si ricorda, guardando i tronchi degli aranci, dei ricchi pilastri della moschea di Cordova”.

 La prima metà cieli’ ottocento vede la costituzione delle prime ditte per la commercializzazione. I primi esportatori si trovano subito a dover fronteggiare la concorrenza del prodotto siciliano che si presenta più bello e più ricercato sui mercati. Gli agrumeti sorrentini, trovendosi più a nord della fascia che normalmente accoglie tali colture, sono più esposti alla grandine e alle gelate; per  avviare a tali inconvenienti vengono attuate tecniche particolari: il piantato viene collocato a distanza ravvicinata con la ramificazione fatta crescere molto in alto affinché le chiome, incrociandosi l’una con l’altra, formino una sorta di copertura naturale  fittissima 13 Tale sistema si rivelerà ben presto negativo per la buona maturazione dei frutti, infatti i raggi del sole non raggiungono la parte medio-bassa cieli’ albero ciò comporta grave ritardo della maturazione e danno per la qualità del prodotto. Inoltre la pianta è sottoposta, per l’eccessivo sviluppo in alto ad uno sforzo superiore alle proprie possibilità vegetative. L’irrazionale sistema comporta il prematuro invecchiamento delle piante ed il facile attecchimento di malattie quale il marciume radicale e la gommosi 14 Nella seconda metà dell’ottocento per eliminare le diffuse malattie e nel tentativo di migliorare la qualita dei frutti l’agrumicultore  sorrentino è costretto a rinnovare gli impianti. Si sostituiscono le specie, viene introdotta la varietà dolce giunta a noi dalla Cina attraverso il Portogallo 15 ; si aumenta la distanza tra una pianta e l’altra e si abbassa l’altezza delle chiome; con ciò si consegue una migliore areazione ed esposizione al sole. Gli effetti delle gelate sulle piante di limoni sono contenuti mediante la loro copertura nel periodo invernale, in un primo terni;o con frasche di castagno o di quercia e successivamente con elementi confezionati. E a questo punto, intorno al 1885, che appare la pagliarella una stuoia di paglia di rn. 1,30 x 2,00, anch’essa poggiata, in origine, sulle chiome dei limoni 16 e successivamente sui pergolati di pali di castagno. Questo nuovo sistema di copertura si estenderà anche sugli aranceti solo dopo il primo conflitto mondiale. Il primo tentativo di copertura sugli aranci del piano sorrentino viene compiuto, nel 1919, da Cristoforo Starita fattore della tenuta il pizzo di Mariano Arlotta 17

  • Sotto la copertura delle pagliarelle, allo scopo di mantenere la temperatura di qualche grado più elevato, nei giorni più rigidi, si fanno nubi artificiali bruciando paglia umida o foglie ed erba, pratica questa che risale ai latini. La diffusione dei pergolati richiede una grande quantità di pali di castagno ed ecco che sulle colline al posto cieli’ ontano napoletano si diffonde il bosco ceduo castagnale. Il paesaggio agrario della penisola assume così l’aspetto fortemente antropizzato, lo stesso che è giunto fino a noi e che ancora oggi è possibile osservare.
  • Capitolo quinto

I giardini della bellezza Senza voler dar luogo ad ulteriore enfatizzazione del!’ aspetto marcatamente letterario a proposito dell’attenzione di moltissimi scrittori verso «la lussureggiante cornice» della penisola sorrentina, ma solo nell’intento si sottolineare con maggior vigore la stretta connessione fra i contenuti economico-sociali e quelli squisitamente culturali, vogliamo qui richiamare ali’ attenzione del lettore due siti particolari: l’agrumeto il Gesù di Massalubrense e quello de il Pizzo di Sant’Agnello. Fra i grossi possedimenti della penisola sorrentina sono quelli che hanno accolto impianti sistematici fin dal XVII secolo il primo e dall’SOO il secondo. Si tratta di fondi agruminati tutt’ora integri che conservano la loro originaria composizione e destinazione. Dopo lo smembramento degli aranceti di San Renato a Sorrento, di San Paolo a Sant’Agnello e della Strazza a Piano di Sorrento essi rappresentano una valida testimonianza dello strettissimo connubio, che nel tempo si è consolidato in q Qui nel trattare de il Pizzo vogliamo riportare alcune pagine, di noti autori ospiti della tenuta. Essi sono Andrè Gide che fu al Pizzo nel 1900 ed Amedeo Maiuri, archeologo, amico della proprietaria Donna Paola Zancani della quale fu ospite nel 1940. Si tratta di autori che più degli altri – che non siano specialisti del settore – si sono soffermati sul!’ agrumicultura sorrentina, e sul Pizzo, in particolare, con pagine di straordinario interesse, mostrandoci quel!’ agrumeto come l’autentico Giardino della bellezza. 

Andrè Gide; ]ournal- Sorrento Villa Arlotta chez Vollmceller (1901-1902)

«Di questo aranceto nulla potrà esprimere la luminosità, il fosco splendore, l’ordine, la

bellezza ritmica, la morbidezza … Entravo sotto la coltre degli aranci, per metà commosso,

per metà sorridente e pieno di brio; attraverso i rami fitti a stento riuscivo a vedere il cielo.

Era piovuto: il cielo era ancora grigio; sembrava che la luce arrivasse soltanto dalla grande

quantità di arance. Il loro peso piegava i rami. I limoni, più gracili, più slanciati avevano

nello stesso tempo meno maestosità ma più eleganza. Talvolta delle pagliarelle protettrici

al di sopra di essi costituivano un riparo quasi oscuro. Sul suolo, tra i tronchi il cui numero,

la discreta altezza, l’apparenza dolce e levigata mi ricordava i ricchi pilastri della moschea

di Cordova, appariva in modo discontinuo uno spesso tappeto di ossalidi di un verde più

tenero di quello dei prati, più azzurrino, più dolce, più delicato. E sui viali di terra dura

e nera, dritti, regolari, stretti, dove l’ombra, il calore, l’umidità avevano fatto crescere del

muschio, si sarebbe voluto camminare a piedi nudi. Il giardino terminava con una terrazza

a picco sul mare. Sul bordo estremo, l’aranceto lasciava il posto a verdi querce ed a pini.

Un viale molto più largo seguiva il bordo, ma in modo che una cornice di alberi si intraponesse

tra il passeggiatore ed il mare. Per spazi di ritrovo, su una sporgenza di roccia, la terrazza

ardita offriva una panchina circolare, un tavolo, un piacevole riposo. È su una di

queste panchine di marmo che il giardiniere premuroso aveva lasciato per noi delle arance.

Esse erano di quattro varietà: a quelle più grosse, quasi insipide, dolci come dei melloni d’acqua,

io preferivo di più quelle a forma ovale, dalla buccia doppia: esse erano di sapore etereo, come immagino che siano le arance orientali; soprattutto mi deliziarono i mandarini, più

piccoli, duri come delle mele appie dalla buccia verde assai sottile simile ad una pelle di

guanto. Non so più quante ne mangiammo, ahimè! in quell’estasi … Esse calmavano nello

stesso tempo la fame e la sete. Dalla panchina sulla quale eravamo seduti, conversando, gettavamo

le bucce al di sotto del parapetto, ad un centinaio di metri più sotto esse cadevano

dritte nel mare. (Traduzione di Antonietta Pasquariello-Nastro)

Il brano è stato di recente pubblicato anche da Michele Prisco in «Memorie di Sorrento » Electa-Napoli 1991. Pag. 11.

Del soggiorno sorrentino Andrè Gide ne dà un rapidissimo ricordo, velato di nostalgia,

nell’Immoralista apparso nel 1902. Egli scrive:

«Il nostro albergo era fuori Città in mezzo ai giardini e orti, la nostra camera si prolungava

in un grande balcone sfiorato dai rami degli alberi. L’alba entrò liberamente dalla

finestra spalancata … I pochi giorni che passammo a Sorrento furono sorridenti e calmi. Avevo

mai goduto di un simile riposo, di un’eguale felicità Ne avrei goduto ancora?»

L’altro brano è quello di Amedeo Maiuri pubblicato nel 1990 in Passaggiate sorrentine

curata da Benito lezzi e proveniente dai «Taccuini inediti» per i tipi della «Franco Di

Mauro Editore».

«Sorrento Il Pizzo- Villa Montuoro (3 ottobre 1940)

Sono entrato finalmente fra gli agrumeti di Sorrento: ho visto finalmente il mistero degli

alti giardini cintati di muro sopra cui si profilano le aeree pertiche di protezione dai gelidell’inverno e sulle pertiche stanno appollaiate come colombaie le pagliarelle, le capanne di

stuoia che aspettano di essere distese su quell’ombra di giardino incantato.

Che cosa avrebbe scritto Torquato se a suo tempo i giardini di Sorrento avessero avuto

l’incanto di questi agrumi densi e folti dei giardini d’Armida? Ma Tasso non conosceva ne

aranci ne limoni, ne le fioriture e il profumo di questi agrumi. La villa ha una passeggiata

lungo il ciglio della grande terrazza sulla marina di Meta e la Punta Srntolo. Ciglio ombrato

di grandi querce e di lecci con le radici affondate nel banco di tufo nero bigio cenere. La

parete è a picco quasi e il tiifo si sfalda qua e là percorso da lunghi crepacci.

È il quartiere padronale, il resto è a colonia e ad affitto [] il graticciato di canne e di

pioppo come grandi immense uccelliere. Il viale è seminato di ghiande lucide e di ulive annerite

già dalla caduta».

Le impressioni e gli appunti ricavati durante la visita al Pizzo l’illustre archeologo

trasferì in Passeggiate Campane uscito nel 1942 e ripubblicato dalla Rusconi Editore nel

  1. Al capitolo XXI leggiamo:

«Giardini e forre di Sorrento.

Rivedo i giardini incantati di Sorrento, cinti da alte mura di tufo bigio e gialliccio pregne

d’umidore e di muschio, orlate da siepi di gerani; con i filari delle viti che s’alzano dai terrapieni

sostenute da pali alti di castagno, e con le loro dense selve d’agrumi incastellate da

esili filagne di pertiche e difese da gran graticcio di canne come immense uccelliere, hanno

l’aria di giardini pensili di palazzi di fiaba, di orti fatati. Sono entrato in qualcuno di quegli

agrumeti ed ho compreso il mistero di quelle aeree capannucce di stuoia, le pagliarelle, che

si distendono l’inverno sui pergolati e che, raccolte e poggiate su quelle filagne perché il sole

e l’acqua non le dissecchi o non le marcisca, sembrano piccionaie che attendono il ritorno

di chissà quale corteo migratorio di colombi. Ma su quegli orti e su quei giardini è come

una luce d’incantesimo, e sotto il fogliame denso carico ancora di pomi, l’ombra della selva

porticata ha un suo caldo respiro di vita.

Dove meglio di qui avrebbe potuto il poeta immaginare i giardini incantati d’Armida?”

 

 

Dal libro VIABILITA E INSEDIAMENTI NELL’ITALIA ANTICA

 

Calata a mare in trincea della villa romana

de ‘Il Pizzo’

Il vasto fondo (agrumeto e oliveto), che si

affaccia sul mare tra i valloni naturali di Piano

(vallone S. Giuseppe) e quello di S. Agnel-

1<; (vallone Croce), denominato ‘Il Pizzo’, è

gmstamente noto nel mondo archeologico

per essere stato il rifugio sorrentino di Paola

Zancani Montuoro. I nomi più illustri dell’archeologia

del secolo appena trascorso sono

stati ospiti nella sua casa partecipando alle

vivaci disc11ssioni e messe a punto scientifiche

sull’archeologia classica della Magna

Grecia. La Signora andava orgogliosa della

presenza di vestigia archeologiche nella sua

tenuta: si tratta essenzialmente di una villa

romana, al centro di quello che dobbiamo

immaginare un fundus di no11 piccole proporzioni

(94). Delle fondazioni di parte di questa

villa, sotto il cellaio di una delle case dei contadini,

Paola Zancani fece rilevare la pianta

(95) mentre nel parco una sima fittile

frammentaria di gronda con decorazione a

palmette (fig. 68, proveniente dal manto di

copertura del tetto) testimonia l’edificio di un

tempo, scomparso completamente nell’alzato

a causa delle attività agricole e della costruzione

dei comodi rt1rali. Sotto l’aranceto corre

tutta una serie di gallerie antiche, cavate

nel tufo, utilizzate un tempo come riserve

d’acqua, con relativi pozzi di aerazione e di

ispezione. Esse furono a suo tempo esplorate,

ma oggi chiusi tutti i pozzi eccetto uno, pres-so la terrazza piccolai le gallerie sono ostruite

in vari punti da crolli.

Il monumento significativo superstite di pertinenza

di questa villa romana è la monumentale

calata a mare (figg. 67, 69-70). Sette rampe

(lungh. m 33, eccetto l’ultima di m 27; largh. media

m 1,80) ottenute esternamente al costone

con una progressiva tagliata verticale del banco

  • tufaceo, ricavando in trincea di scavo la carreggiata

protetta ali’ esterno da parapetto di tufo risparmiato

e con canaletta centrale (96) (largh.

circa cm 60) per lo scorrimento dell’acqua. Queste

caratteristiche tecniche avevano indotto Paola

Zancani a considerare greca, o comunque

preromana, questa calata, forse anche in base ad

un labilissimo indizio della presenza nel Pizzo di

un’area sacra ellenistica (97). Al termine delle

sette rampe sicuramente antiche, il percorso

verso il mare, si addentra nella falaise e seguendone

il profilo ( circa m 6 più all’interno) prosegue

in senso est ovest per circa m 50 in una galleria

naturale a sezione subquadrata larga circa

m 2,20/70 alla base, con pareti leggermente rastremate

verso l’alto e altezza media di m 4,50.

Questo tratto di galleria è aerato ed illuminato

da due ampie aperture (rispettivamente a m 13 e

33 dall’ingresso) che si aprono nel costone altermine

di due deviazioni trasversali lunghe quanto

lo spessore del costone tra la galleria e l’ esterno.

Al termine la galleria piega verso sud est

e con una lunghissima rampa di scale (largh.

m 1,70, fig. 71), scende verso un’altissima grotta

(fig. 72) dalla quale si esce in mare e in cui è presente

una specie di grosso poggio circolare, forse

una bitta di ormeggio, ricavata nel tufo

(fig. 73), in modo tale da poter servire anche da

tavolo (98). Questa parte della calata a mare,

galleria compresa, credo si debba ricondurre ad

un riadattamento della calata antica che doveva

svolgersi tutta all’esterno del costone, e dove,

probabilmente a causa dello scalzamento della

base della falaise le ultime rampe franarono. La

presenza della grotta ( cava di pietre) alla base

del costone deve aver fatto escogitare la soluzione

della galleria e della lunga rampa di scale intagliata

per tre quarti nella parete della grotta, e

costruita su un arco rampante in basso, per scavalcare

una diramazione laterale della cava. Nonostante

la più accurata rifinitura delle pareti

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