Passione per l’Arte, Ricerca ed Intelletto: quattro chiacchiere con l’artista Nicola Caroppo

L’arte contemporanea italiana è uno sfaccettato universo ricco di giovani promesse che spesso – nonostante anche una certa esperienza accumulata negli anni – sono ancora sconosciuti ai più. Nicola Caroppo è un giovane (quanto basta) artista stabiese che è in circolazione da molti anni. Decido così di andare ad intervistarlo nell’accogliente e spaziosa Villa Comunale di Castellammare di Stabia, nel pieno rispetto della normativa sul distanziamento sociale.

D. Sono passati più di dodici anni dalle tue prime esposizioni e nel frattempo il tuo nome ha suscitato più di qualche apprezzamento da parte della critica. Che cosa è cambiato in te da allora e nel tuo approccio alla pittura?

R. Sono cambiate molte cose, innanzitutto è cresciuta la mia consapevolezza, nel bene e nel male. Mi piace ricordare che il mio “debutto” pubblico è avvenuto all’Università Suor Orsola Benincasa, dove ho studiato Storia dell’Arte: qui – difronte ad una mia opera del 2001 – il prof. Stefano Causa affermò che «è difficile trovare oggi un’opera della stessa potenza espressiva.»
Questo mi incoraggiò tantissimo e l’anno successivo mi presentai con tre lavori e con la formula autoironica “Infor-male, anzi malissimo”, che voleva ironizzare sul mio modo di fare informale dopo decenni di sviluppo di questo genere artistico e lanciare un campanello d’allarme su immagini spesso forti e dolorose che veicolo attraverso i miei lavori. Da allora sostanzialmente la maturità ha fatto il suo corso sedimentando quello che era immaturo e rendendo intenzionali e ricercati alcuni gesti che in un primo momento erano affidati alla casualità o all’effetto del momento.

D. Ti sei contraddistinto in molte mostre con le tue famose “stratificazioni”. Personalmente le trovo molto suggestive, perché spingono l’osservatore ad interrogarsi sull’inesorabile scorrere del tempo. Che cosa rappresentano per te? (parlami anche di quell’opera legata ai migranti)

R. Il senso del tempo è una delle cose che mi affascinano nella vita come nell’arte ed è quello che cerco di realizzare con le mie opere, stratificando materiali e polimeri differenti in modo da ottenere anche effetti particolari come sedimentazioni, aggregazioni e screpolature. Alcune volte mi piace lavorare anche sottraendo materia, letteralmente spellando l’opera e facendo riemergere gli strati sottostanti. In questo modo è come sfogliare le pagine di un libro, come eliminare il di più e raggiungere l’essenzialità delle cose. Poi, per formazione, ho sempre avuto un grande interesse per libri, giornali, riviste per la carta stampata in generale e alcune di queste ricerche in cui ho unito pagine di giornale, gesso, chiodi antichi e ferri recuperati dagli antiquari sono approdate in una serie di progetti a cui ho partecipato lo scorso anno sia alla Respirart Gallery di Giulianova (TE), a cura di Berardo Montebello, sia a Napoli nel progetto Art in Progress nel chiostro del complesso monumentale di Santa Maria La Nova. In entrambi i casi le opere apparivano come degli antichi incunaboli ancorati nel fondo del mare e il senso della storia si mescolava alla cronaca tratta dai giornali utilizzati, di cui avevo lasciato a vista alcuni titoli.

D. Il tuo ecclettismo è la forza della tua proposta artistica che non perde mai di vista la tua idetità. Recentemente ho notato che stai avendo un “ritorno” al figurativo con “Ci osservano”, ma in essa però ci hai messo anche qualcosa di “vecchio” che ricorda le “stratificazioni”. Ce ne puoi parlare?

R. Fin dall’inizio ho sempre mantenuto più filoni di ricerca dall’informale al figurativo, passando per il bassorilievo e anche l’installazione. In due occasioni ho realizzato enormi libri d’artista che erano parte della mia installazione pitto-scultorea, però senz’altro nel corso del tempo ho compreso che la materia, lo spessore della pellicola pittorica sono alcune delle caratteristiche peculiari della mia ricerca che recentemente ho combinato con il segno figurativo. “Ci osservano” è un’opera nata durante il lockdown e la quarantena di isolamento che tutti abbiamo subito per la pandemia da COVID-19. Inizialmente l’opera voleva essere in polemica con il clima di polizia da “caccia alle streghe” che si era generato tra le persone, in cui alla già convivenza con “l’altro” si univa un alone di sospetto che in alcuni casi ha rasentato i limiti del grottesco, come se ammalarsi fosse una colpa. Ma non è un elemento subito palese nell’opera che invece sembra veicolare linguaggi, stili e elementi appartenenti ad un altro mondo e forse riemersi da un affresco dell’antichità. Siamo spesso osservati dalle opere d’arte, oltre ad essere osservatori.

D. Attualmente stai utilizzando il colore oro nelle tue opere come nel caso di “Aurea” e “Città caotiche”. Ha un sigificato particolare? Vuoi forse inaugurare una nuova era della tua pittura?

R. L’oro, che utilizzo steso in foglia, è un modo di antichizzare le immagini che creo dando quel tocco di lucentezza abbinata poi agli smalti industriali che generalmente prediligo come colori. L’oro mi richiama i mosaici bizantini, il fondo oro dei polittici medievali e mi riporta un po’ nel mondo storico-artistico che fa parte della mia formazione e in parte della mia attività.

D. Ci sono artisti che una volta raggiunta una soluzione stilistica interessante non se ne discostano più. Tu invece fai il contrario. Ti chiedo allora quanto è importante la ricerca nella tua pittura?

R. Fare arte è ricerca continua ed è un continuo accrescimento dei propri mezzi tecnici in funzione di ulteriori livelli espressivi. In generale non apprezzo la ripetitività che tuttavia è cosa ben distinta dall’avere una propria cifra stilistica e una propria riconoscibilità.

D. Quali sono stati per te gli autori più significativi che ti hanno spinto a dipingere?

R. Ho attraversato varie fasi. Nei primi anni da adolescente amavo molto Picasso e De Chirico, le atmosfere metafisiche sospese tra mito, realtà e poesia rispondevano in pieno proprio ai miei molteplici interessi umanistici. Poi ho cominciato ad apprezzare la pittura di istinto, l’action painting, Jackson Pollock, Williem De Kooning, Emilio Vedova, Mario Schifano e ovviamente i cretti di Alberto Burri, l’informale di Domenico Spinosa.

D. Ora ti faccio una domanda un po’ scottante: c’è qualcosa all’interno della scena artistica che ti ha deluso? Parlacene.

R. Sicuramente a deludere sono le logiche che sottendono il sistema dell’arte a tutti i livelli. Paradossalmente, ma fino ad un certo punto, l’unica espressione artistica libera è rimasta la Street Art, quando – parlando provocatoriamente – resta nei confini del “sano vandalismo” e imbratta muri di periferie squallide mettendo in circolo idee libere, democraticamente espresse e senza il solito mercimonio di spazi o la patetica ricerca della pura visibilità. Mi viene in mente un Felice Pignataro che negli anni Novanta trasformava Scampia con le sue creazioni fantasiose. Oggi, entro certi livelli, l’arte è assolutamente questo: mercimonio di spazi a metro quadro, di righe o battute da riempire in cataloghi che paghi a peso d’oro. Se è vero che la professionalità in ogni campo va pagata, è anche vero che questo sistema di cose porta a non investire minimamente nelle capacità dell’artista. Fare arte è innanzitutto un mestiere che si impara nel tempo e, come tale, va retribuito. D’altronde che in generale ci sia il timore di investire nelle nuove leve (e qui parlo a livelli molto più alti di quello che può essere il mio) lo si riscontra anche dalle più importanti fiere nazionali che ormai affittano pareti alle quali i più fortunati possono giungere con lo sponsor, oppure – per le realtà che ho visto da vicino – si mette mano alle collezioni storiche e si punta sull’artista storicizzato per fare cassa.

D. Come ti vedi, e come vedi la scena italiana dell’arte contemporanea, tra dieci anni?

R. Mi vedo libero di creare e di cercare la mia dimensione nei nuovi contesti ai quali dovrò adattarmi. Il contesto italiano contemporaneo è difficile da inquadrare soprattutto se, come nel mio caso, non si è esattamente esperti del settore. Sicuramente sarebbe opportuno evitare l’importazione massiccia di stili ed espressioni artistiche di realtà che non ci appartengono e rielaborare un linguaggio maggiormente legato alla nostra identità culturale e storica, ma certo abbandonando i facili nazionalismi che purtroppo sembrano riemergere anche oggi, imbastiti della stessa retorica di quasi un secolo fa. Non so se è corretto sotto il profilo storico dire che siamo nell’ultimo colpo di coda del cosiddetto post-moderno che ha rimescolato linguaggi, stili e generi eliminando confini e barriere e “globalizzando” alcune logiche che il nostro Paese in alcuni casi, nonostante la sua storia, ha dovuto inseguire ed importare ma che in alcuni casi ha saputo anche rielaborare in modo sicuramente efficace ed originale.

Ivan Guidone

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