Piano di Sorrento. La Via Crucis nel 1943, il bellissimo racconto del Professor Ciro Ferrigno

Riportiamo il racconto del Professor Ciro Ferrigno sulla Via Crucis nel 1943. Uno scritto come sempre toccante e ricco di umanità.

VIA CRUCIS 1943

Le stazioni della Via Crucis sono quattordici e mia madre le percorse tutte, una ad una, quell’anno maledetto, il più duro della guerra, il 1943. C’era un episodio che raccontava sempre, specie quando vedeva qualcuno di noi storcere le labbra dinanzi ad un piatto poco gradito, diceva: “Pecchè vuje nunn’avite cunusciuto ‘a famma!”
Mio padre era lontano, al fronte e lei aveva tra le braccia mia sorella Rosaria di due anni e quel giorno si era trovata senza neanche un po’ di pane, niente di niente, da poter dare alla bambina che piangeva. Girò tutto il paese bussando a porte e portoni di chiese e monasteri, a casa di parenti, amici e conoscenti, salendo e scendendo tante scale, osando chiedere, ma senza nulla ottenere. La fame era ovunque, non c’era niente nelle case, solo disperazione. Quanto era lontano Dio da questa terra in quei giorni bui, quando la sirena dell’allarme aereo sibilava facendo accapponare la pelle e bisognava scendere presto nei rifugi. Di fronte Napoli bombardata era una lava di fuoco, una brace ardente che tutte le lacrime del suo popolo non bastavano a spegnere.
Fu nel massimo dello sgomento e della desolazione che decise di salire quelle scale di Via Bagnulo che portavano su alla casa dell’Americanella, l’ultimo posto dove sarebbe voluta andare, la porta alla quale, mai e poi mai, avrebbe creduto di bussare. Ma l’amore vince tutte le ragioni, travolge, abbassa, fa sprofondare, annulla, distrugge per poi innalzare in alto, su, fino a raggiungere l’infinito. Fece quelle scale con un nodo alla gola, come stesse salendo sulla cima del Calvario, cosciente di aver avuto sempre parole di disprezzo per quelle donne, che considerava grandissime puttane. Provava vergogna ed amarezza, un senso di colpa. Trascinò la croce fino alla sommità, sicura che, essendo ancora giorno, non avrebbe dato fastidio; l’andirivieni dei soldati sarebbe iniziato all’imbrunire, prese coraggio e bussò forte.
La porta si aprì lentamente, scricchiolando sui cardini ed apparve lei in vestaglia e con la sigaretta accesa tra le labbra tinte di rossetto rosso fuoco. Vedendo mia madre con la bambina tra le braccia accennò un sorriso ed ascoltò la richiesta che arrivò fulminea, lapidaria: “Tenisse ‘nu poco ‘e pastina pe’ sta criatura? Se more ‘e famma e nun tengo niente… tenisse almeno ‘nu muorzo ‘e pane?”. Seguirono lunghi, interminabili momenti, perché la donna si allontanò senza battere ciglio, lasciando l’uscio socchiuso. Quando tornò aveva tra le mani un sacchetto di carta pieno di pasta e un tozzo di pane e disse: “Chesto tengo, chesto te pozzo da’…”.
Nell’aria un alito di vento. Nessuno Lo vide, ma lì vicino era fermo Gesù Cristo! Piagato, insanguinato, coronato dalle spine della guerra, ma presente, perché sempre, dov’è Carità e Amore, lì c’è Dio!
Mia madre la benedisse dicendo: “’A Maronna t’’o renne!” e andò via scendendo frettolosa le scale della sua Gerusalemme, lasciandosi alle spalle il Pretorio di Ponzio Pilato, il Sinedrio dei Sommi Sacerdoti e la triste cima del Golgota; percorreva la via dolorosa pensando all’antico e veritiero adagio popolare: “Chelle, proprio chelle, ‘e P. teneno ‘o core buono!”
Si può meritare il paradiso per un po’ di pastina ed un tozzo di pane? Certo, ancor di più quando la carità è per una madre in lacrime che chiede per la sua creatura. Allora è un atto d’amore che cancella mille e mille peccati. Sulla bilancia del bene e del male di una vita, un cuore buono pesa come un provvido macigno, come una montagna di pietra viva, quando i piatti di quella bilancia sono le mani del Dio della Misericordia e dell’Amore!

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