Piano di Sorrento. Il bellissimo racconto del Prof. Ciro Ferrigno sull’amore ai tempi del Coronavirus

Condividiamo il racconto del lunedì del Prof. Ciro Ferrigno.

La fotografia, quale fotografia stai guardando? Quali mascherine, fammi vedere. Sono le mascherine che dovevamo indossare per legge durante il periodo di quella maledetta epidemia. Porta la data dietro, vedi, era l’aprile del venti, sessant’anni fa, più o meno. Sono sul ponte di Rosella, tra Piano e Meta. Perché mi trovavo proprio sul quel ponte a fare una fotografia? Provo a raccontartelo, sperando di ricordare le circostanze, sono passati tanti anni oramai!
Il nonno era diplomato da poco, poteva avere ventuno ventidue anni ed era ad uno dei suoi primi imbarchi, su una nave da crociera, quando scoppiò un’epidemia. Il contagio cominciò dalla Cina e dopo poco si propagò in tutto il mondo e la prima ad essere colpita fu proprio l’Italia, si contarono morti a migliaia. La vita si fermò, diventammo la seconda Cina. C’era un’aria di tensione e di paura, non potevamo uscire di casa, era consentito solo per le urgenze, la spesa, la farmacia e per portare in giro il cane. Fuori dovevamo indossare la mascherina, i guanti e stare almeno un metro distanti da un’altra persona, bisognava lavare le mani continuamente, usare disinfettanti, una cosa da pazzi, fu una follia collettiva che durò diversi mesi.
Sulla nave dov’era il nonno ci furono vari casi di contagio e qualche decesso. Io all’epoca potevo avere una ventina d’anni ed eravamo fidanzati da poco. Fu una cosa terribile. Quando lui e gli altri marittimi, finalmente tornarono in Italia con un volo speciale e rientrarono in penisola, fu uno spasimo. Pensa che al posto dei familiari, c’era ad accoglierli una squadra di infermieri con tute bianche, grandi maschere a coprire il volto ed un casco sul capo. Furono portati in un albergo a Sant’Agnello per la quarantena.

Dovettero rimanere in completo isolamento per quindici giorni, uno per camera, con qualche libro, qualche giornale, il televisore ed il cellulare o il tablet per i contatti con la famiglia. Fu un dolore immenso, tutti i nostri ragazzi che rientravano dall’estero, dal Nord Italia, dagli imbarchi, dovevano rimanere giorni e giorni in isolamento ed invece di essere accolti con carezze, abbracci e baci, per la paura del contagio venivano trattati con sospetto, come untori, qualcuno gridava “Non dovete venire, restate dove state” ovvero lontano da casa, in un monolocale diviso con qualcuno, senza lavoro e senza soldi. Quante braccia restarono sospese a mezz’aria per un abbraccio che non era possibile, quante lacrime ci costarono quei quindici giorni di ulteriore lontananza, per di più nella Settimana Santa, la Pasqua più brutta e triste che io ricordi.
Il nonno, in quell’albergo viveva un tempo dilatato, le ore erano giorni, i giorni mesi, aspettando di sentirci al telefono. La solitudine, lo spazio ristretto gli creavano degli incubi continui, la notte non riusciva a dormire e creava dentro di sé tutti i sintomi del contagio, pensava di stare male, di morire. Durante quel periodo triste, alle nove di sera, nel silenzio più spettrale, suonavano le campane delle nostre chiese e lui sedeva sul davanzale della finestra per distinguerle una ad una. Quando suonava San Michele pensava alla famiglia, alla mamma, al padre, ai fratelli, ai nonni. Quando a suonare era Santa Teresa andava coi ricordi agli anni belli del Nautico. Pensava a me, quando ascoltava la Madonna del Lauro, perché all’epoca io vivevo a Meta e tornava alla triste realtà del momento, con i rintocchi della vicina chiesa di Sant’Agnello. Per ogni campana si segnava con la croce e diceva una preghiera, pur essendo poco religioso. Pensa che si era talmente convinto di non stare bene che chiese di rimanere in quarantena altri cinque giorni.
Assieme avevamo preparato tutto un piano per incontrarci, finalmente dopo tanto tempo. Un decreto del Governo impediva di allontanarsi da proprio Comune e noi avevamo questo problema, io ero a Meta, lui a Piano, perciò decidemmo di vederci al ponte di Rosella, proprio al confine tra i due paesi. Ma dov’era l’esatto confine, a metà ponte, in un lato in un altro, dove? Ero una ragazzina, cominciai ad informarmi, a chiedere in giro e nessuno lo sapeva, alcuni mi prendevano per matta, mi ridevano in faccia, fino a quando un signore disse che era il rivolo Campitelli a segnare la spartizione. Come giustificare poi, in un eventuale controllo, la nostra presenza sul ponte? Non c’erano negozi o farmacie, nulla, allora pensammo al cane! Il nonno convinse una sua vicina di casa, la quale gli affidò per un giro il suo bellissimo pastore tedesco, Argo, io meditavo, progettavo scuse plausibili, pensando notte e giorno. E venne il sospirato momento, ci incontrammo a metà ponte, proprio sulla verticale del rivolo e, a dispetto di guanti, mascherine e disinfettanti ci abbracciammo, superando ogni confine, quello amministrativo, di spazio e di tempo perché, mia cara, lo sai, l’amore è un sentimento che non ammette distanze, muri, limiti e confini, supera ogni barriera e infrange tutti i divieti. Altro che virus, in quel momento avremmo contagiato il nostro amore a tutto il mondo!
Fu allora che tuo nonno, ridendo felice, mi chiese di posare per lui, proprio lì, sul ponte e mi scattò la fotografia, quella che ora tieni tra le mani!

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