Roma. MACRO Asilo. Conversazione di Franco Lista su “EREDITA’ IN BILICO Ricerche ed esperienze artistiche tra memorie del passato e temperie del presente.”

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    Segnalazione di Maurizio Vitiello – Riceviamo, e, volentieri, pubblichiamo la sintesi della conversazione ”EREDITA’ IN BILICO Ricerche ed esperienze artistiche tra memorie del passato e temperie del presente” tenuta da Franco Lista il 19 ottobre 2019 al Macro Asilo, Stanza delle parole (Museo di arte contemporanea di Roma), a cura di Daniela Materazzi.

    EREDITA’ IN BILICO
    Ricerche ed esperienze artistiche tra memorie del passato e temperie del presente

    Sintesi della conversazione tenuta da Franco Lista il 19 ottobre 2019 al Macro Asilo, Stanza delle parole (Museo di arte contemporanea di Roma), a cura di Daniela Materazzi.

    Parlare dell’eredità, contestualizzandola nell’ampio percorso delle arti visive, significa soppesarla sin dal suo inizio con l’homo sapiens e la sua insopprimibile esigenza di comunicare per figure con rilevanti e indicative tracce segniche, fino all’incoerente e indistinto tempo presente; significa, soprattutto, prendere in attenta considerazione lo stato d’incertezza sempre attuale quando si riflette e si valuta il rapporto tra passato e presente.
    Un rapporto segnato, quasi sempre, da una sorta di equilibrio instabile del fenomeno artistico, osservato sul filo diacronico della sua storia.
    Da qui prendono avvio alcuni miei spunti di riflessione e alcune angolature, su questa “eredità in bilico”, fatti di attingimenti e segnatamente di quei prelievi stilistici che hanno dato luogo a manierismi e conformismi. Un equilibrio che ha comportato, altre volte, trasformazioni radicali e il corrispondente superamento delle eredità artistiche.
    Diversamente, questi lasciti sono stati avvertiti come retaggio negativo e da qui l’aperta, dichiarata rinuncia all’eredità stessa.
    Inizierei proprio da quest’ultimo atteggiamento perché si mostra più vivacemente attraente e suscitatore di polemiche quando a una eredità stilistica se ne sostituisca un’altra.
    E dovremmo dire che dietro qualsivoglia stile o gusto è sempre presente quella condizione che Riegl definiva Kunstwollen, cioè volontà d’arte. Una spinta, un moto dell’animo, dunque, che agisce come una sorta di abbrivio collettivo che sottostà alle metamorfosi e all’intima natura dell’arte.
    Hans Belting, poi, acutamente, mette in diretta relazione ogni “volontà d’arte” con una specifica Weltanschauung, ossia una concezione del mondo, della vita. Un modo di guardare le cose che diventa stile di vita e anche “fenomeno stilistico”. Così, “gli stili artistici – scrive – diventarono stili di vita o di pensiero”.
    Pensiamo, in proposito, all’influenza che ebbe il saggio di Wilhelm Worringer, “Astrazione e empatia”, sul pensiero di artisti e intellettuali del primo Novecento. Le avanguardie, in qualche modo, lo fecero proprio: quasi una sorta di manifesto, una esplicita dichiarazione di “intima affinità” tra concezione del mondo (Weltanschauung) e idem sentire dell’espressione artistica: una forte connessione, un profondo legame tra “anima collettiva e stile”.
    E, forse per questo, gli stili un tempo duravano secoli e non come accade oggi si estinguono nel giro di una breve stagione.

    Sarà il caso di accennare a qualche considerazione storica, di lungo periodo, per rendere meglio l’idea di eredità stilistica.
    Alcuni termini, con i quali sono stati indicati periodi artistici, hanno una spiccata origine polemica e dunque di riprovazione indiscriminata per tutte le manifestazioni artistiche di un’epoca.
    L’arte del Duecento e del Trecento, ad esempio, fu marchiata con intento dispregiativo col termine gotico.
    E’ Vasari che tira fuori il termine gotico. Nelle sue “Vite”, con forte espressività, definisce l’architettura come lavori tedeschi…mostruosi e barbari. Ai suoi occhi, di classico protagonista rinascimentale, l’architettura gotica che invade l’Italia è una vera sventura e ne auspica l’oblio: Questa maniera fu trovata dai Gotti che riempierono tutta Italia di questa maledizione di fabriche, che per non averne più, s’è dismesso ogni modo loro. Iddio scampi ogni paese da venir tale pensiero, et ordine di lavori, che per essere eglino talmente difformi alla bellezza delle fabbriche nostre, meritano che non se ne favelli più che questo.

    Nel Settecento, poi, con l’emergere e il consolidarsi delle idee e del gusto neoclassico, le architetture e le sculture seicentesche furono chiamate barocche, col chiaro intento polemico di giudicarle bizzarre e stupefacenti.
    Analoga repulsione vi fu tra romanticismo che segue al neoclassicismo e così via nel tempo, fino alla forte avversione e all’intransigenza delle cosiddette Avanguardie storiche nei confronti dell’Ottocento e dei suoi impianti formali. Che è cosa relativamente recente!
    Una situazione in bilico tra continuità e discontinuità dell’arte italiana che tuttavia convoglia, da una parte, sentimenti di forte identità culturale, di senso artistico, di italian style (diremmo con una abusatissima locuzione) e, dall’altra, all’assuefazione alla bellezza, spesso sentita come ingombrante eredità, una sorta di condizionamento, di restrizione storica.
    Cosa, questa, avvertita con largo anticipo da Goethe, sin dagli inizi del suo memorabile viaggio in Italia.
    L’eredità del passato, senza dubbio, implica la capacità di ricordare, la memoria, la rammemorazione. Paolo Rossi, in proposito, ha approfondito questo rilevante tema in quel suo bellissimo saggio dal titolo emblematico, “Il passato, la memoria, l’oblio”, dove mette in relazione memoria e immaginazione che, come sostenevano Hobbes e Vico, vanno considerate quali facoltà gemelle.
    “La memoria, dice Paolo Rossi, ha a che fare con l’idea – attiva pure nella biologia, nella filosofia, nella letteratura, nella psichiatria – che pezzi del passato si riaffaccino o riemergano nel presente”.
    Ed è questo il tipico processo dell’individualità creatrice dell’artista: rivedere il passato, assumerlo come stimolo, trasformarlo, decostruirlo per ricomporlo in forme nuove o decontestualizzarlo per risemantizzarlo; risignificarlo, per poterne fare variazioni di senso. Ecco l’immaginazione che accompagna quel fare che è pur sempre un rifare, come saggiamente sostiene Nelson Goodman.
    Al riguardo, le categorie di storia e attualità sono state sperimentate da chi scrive in gruppi di lavoro, negli anni ’70 con la Prop Art di Luca (Luigi Castellano) che aveva presso di noi partecipanti, il significato di arte di propaganda politica e la Pittura di storia (1984) che faceva capo a Giuseppe Gatt, attingendo alla nostra grande storia artistica.

    Nell’epoca che ancora viviamo della benjaminiana “riproducibilità” dell’arte, della scomparsa della sua connotazione “auratica”, della filosofia delle rovine, l’insofferenza verso il passato si avverte maggiormente. Oggi, viviamo chiusi, per non dire reclusi, in un presente enormemente dilatato: una società sincronica, non più diacronica e dunque con rapporti deboli con il passato e conseguente incapacità di esprimere progetti e congetture per il futuro. Gli artisti, producono “feticci artistici”, si rivolgono alle “merci semiotiche”, per citare Mario Perniola; il banale è assunto come valore se produce stupore e compiacimento.
    Si verifica la “trasfigurazione del banale”, per citare Arthur Danto!
    Conseguenze della rinuncia all’eredità, per dirla francescanamente, sono da vedersi nella evidente inclinazione di gran parte dell’arte contemporanea verso processi di appiattimento e di conformismo, in direzione di una estrema frammentazione di contenuti e comportamenti: una babelica “eteroglossia” (se così si può definire) dei linguaggi artistici, ormai governati con efficienza economica dal cosiddetto “sistema dell’arte”.
    Hans Belting, non saprei se per impassibile e concreto realismo o per fatalistica accettazione, ha scritto: “Bisogna convivere con il pluralismo degli stili e dei valori che caratterizzano la nostra società, anche per il fatto che non è in vista nessuna via d’uscita”.
    L’arte ora appare come se fosse priva di elementi aggreganti, pure presenti nelle neoavanguardie; una sorta di rinuncia a elementi stilistici e linguistici comuni, quasi che si esaurissero nella stessa mobilità dell’artista che passa, con estrema disinvoltura, da un linguaggio all’altro, da una ricerca all’altra.
    Eppure a questa frammentazione, pari a un gioco di specchi infranti che genera una pioggia di schegge espressive, corrisponde paradossalmente una sorta di culto delle immagini, la cosiddetta “imagomania”.
    Una complicata prospettiva della contemporaneità sulla quale l’eredità, intesa come sensibilizzazione della coscienza dell’artista, può avere un suo nuovo ruolo. L’artista non rinunciando ad essere testimone e critico del momento storico che vive deve tentare, con la sua ricerca, di dar forma e, soprattutto, autentica “interpretazione” (Auslegung) al suo Dasein, al suo “esserci”; riscattare, come voleva Heidegger, il suo Geworfenheit, il suo “essere-gettato” nel mondo.
    Temi dunque di forte peso specifico che invitano a una connessione sempre più stretta tra l’individualità creatrice e il mondo sociale; a una ricognizione concettuale su quanto accade.
    Allora, chiediamoci: vi sono, oltre all’invito alla convivenza, suggerito da Belting, e ai punti da me sottolineati, cenni, segni, tracciati di esperienze che possono essere di sostegno alle nuove stagioni dell’arte?
    Penso, per questo, a quell’insieme di azioni artistiche che favoriscono relazioni e rapporti tra artisti e pubblico. Alle forme di coinvolgimento, sperimentate al Ramo d’oro di Napoli, non più statiche come vuole l’organizzazione museale e il tradizionale rapporto tra l’opera e l’astante. Penso a fruizioni più dinamiche fondate sull’interazione, la socialità, la convivialità. A un rapporto coinvolgente, non più passivo ma agente e partecipativo. In sostanza, come già avviene in più parti, a relazioni, legami e confronti con gli artisti nel vivo dei loro atelier: legami dunque che portano a far coincidere i due termini di arte e vita.

    Franco Lista

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