Napoli,Ringhio Gattuso- risaliremo la collina con forza e determinazione foto

Al nuovo allenatore serve più tempo  per lavorare sulla testa dei suoi giocatori,  dare una svolta e tornare in zona Europa

Rino Gattuso (41 anni) sabato scorso era al debutto sulla panchina del Napoli dopo l’esonero di Carlo Ancelotti Contro  il Parma  al San Paolo ha rimediato una sconfitta
Nessuno si meravigli dell’avvio tormentato di Rino Gattuso sulla panchina del Napoli. Non sarà quel rovescio a mandarlo in tilt, a rovinargli una vita e una carriera, cominciate tutte in salita come spesso l’interessato può rammentare. A Conegliano Calabro, il suo natio borgo selvaggio, è un ragazzo scapestrato, attirato solo dalla passione del calcio trasmessa da papà Franco, modesto calciatore arrivato alla serie D. Torna spesso a casa con le scarpe sfondate o con i vestiti a brandelli e dalla mamma, che è il vero Ringhio di casa, riceve puntuali punizioni. A 12 anni, appena un ragazzo, per inseguire il sogno di diventare calciatore, lascia le radici calabresi per trasferirsi a Perugia, da lì addirittura nella lontana e freddissima Scozia per indossare la maglia dei Rangers e avere l’occasione di conoscere Monica, sua moglie, la figlia del ristoratore italiano che gli riserva un tavolo e anche il calore di una famiglia nella Glasgow di quel tempo. Cosa volete che sia allora, per uno allenato così alle intemperie della vita e dei primi passi di carriera, ridisceso poi a Salerno dove incontra un altro amico, Ruben Buriani che lo segnala a Braida, finire sepolto dai fischi della sfida col Parma?

Anche col Milan, appena accomodato sulla panchina che era stata di Montella, a Rino il destino riservò un incipit dolorosissimo. Pensate, a Benevento, rimase folgorato da un gol di un portiere all’ultimo assalto che marcò il 2 a 2 finale e costituì l’evento della domenica, ricacciando i rossoneri in fondo alla pagina dei commenti. Questo è Rino Gattuso, uno che prima di diventare la scorta armata di Pirlo e Seedorf, di prendere per la gola Joe Jordan, di mordere le caviglie di Ronaldinho o di dar man forte a Oddo per frenare CR7 imbottigliato in una notte epica a San Siro, è stato un ragazzo semplice e umile, abituato a guadagnarsi ogni gradino della scalinata fino a conquistare a Berlino i gradi di campione del mondo. E anche lì molti di noi lo ricorderanno per quella presa alla gola di Lippi che voleva dire semplicemente “non ci lasciare” al ct deciso a mollare l’azzurro. Tutte le volte, dopo l’inizio complicato e tormentato, è stato capace di costruire successi e rivincite che sanno quasi di riscatto generazionale. Già perché lui, Rino, sapeva benissimo di non essere stato premiato dalla natura. Perciò continua a descriversi come “brutto, sporco e cattivo”, facendo ironia sulla propria sagoma, il più evidente attestato d’intelligenza raffinata. Alla fine, nella vita e nella carriera, da calciatore e da allenatore, è salito in cima alla collina. Succederà anche a Napoli.

RISALIAMO FORZA NAPOLI

Basta dare un’occhiata in avanti, lassù, e un’altra alle spalle, laggiù, per accorgersi d’essere finiti nella terra di mezzo o persino di nessuno, e di potersi lasciare andare con i sogni più audaci, certo, però anche di avvertire un senso di disorientamento. La Champions, il quarto posto, si perde nella nebbia che ha diffuso la Roma: dai 32 della Roma (e il Cagliari deve ancora giocarsela) ai 21 del Napoli c’è un abisso che non si può colmare con l’ottimismo della volontà; e gli otto punti che separano invece dal Brescia non spingono al pessimismo, ma ad accorgersi che la realtà possa andare persino al di là della fantasia. Ora che anche l’ultimo alibi è sparito in una notte pavida, e che Ancelotti non può rappresentare l’unico colpevole di cui il Napoli si è disfatto, restano i numeri, che sono crudi e anche crudeli, e raccontano questa storia riscritta male – e può succedere in dieci anni – ma che va rimodellata in fretta, prima che sia troppo tardi.

Davanti a cinque pareggi e tre sconfitte, nelle ultime otto giornate, ci sarebbe semplicemente da alzare le mani: però vale tutto, anche ciò ch’è stato fatto prima e in Champions, per pensare che il calcio, come diceva Benitez, sia anche bugia. Ma questa è la tendenza, fa una media raccapricciante da retrocessione (eh, sì) di 0,625 a partita e costringe a chiedersi cosa cambi dal martedì (o al mercoledì) al week-end e come quella stessa squadra, imbattuta in Europa, capace di vincere a Salisburgo, di pareggiare con gli austriaci in casa e poi di resistere ad Anfield, si sbricioli in campionato.

E’ un problema di testa, forse anche di cuore, quindi dell’anima che si è spenta e sulla quale la scintilla della rivoluzione tecnica non ha fatto presa: «Stiamo male, non c’è che dire». E non ci sono lettini che possano, né sedute d’analisi che aiutino: non è servito cambiare il modulo, dunque concedere alla squadra quella avvolgente coperta di Linus di movimenti e di atteggiamenti che avrebbero dovuto scaldare; né ha avuto un peso verificare se fosse vera, verosimile o presunta l’«incomunicabilità» tattica con Ancelotti, smontata già sin dai primi dieci minuti con il Parma, una galleria degli orrori da inorridire.

Il tridente, quella ricorrente ossessione, è divenuto un tormento, perché sono sparite non solo le evoluzioni dei singoli, ma anche la magìa di una fusione plastica all’interno di un sistema non più riproducibile: l’assenza di un regista, di un play, d’un ideologo che stabilisca i tempi delle giocate e funga da collante si mescola alla crisi che stanno attraversando Insigne e Callejon, gli esecutori fantasiosi di quel passato spumeggiante, denso di sovrapposizioni, di «cambi» di campo, d’irruzioni alle spalle dell’ultimo uomo.

Per non farsi mancare nulla, né evitare di farsi del male anche un po’ da solo, se ne è volato via pure l’effetto San Paolo, improvvisamente trasformato in teatro in cui da loggione stanno lì, osservano, applaudono e semmai fischiano, alterando anche un aspetto ambientale che ha acuito le paure di un Napoli terrorizzato già da se stesso, dai propri errori (racchiusi, tutti assieme, nella notte dell’ammutinamento, dagli effetti che ha avuto quella scelta e che ha rovinosamente inciso sui rapporti interni).

Ma nei rimpianti, e ce ne sono, rientra anche il mercato, la scelta di «rinunciare» a Veretout, praticamente bloccato, ritenuto anche l’alternativa di Allan, oltre al riferimento centrale nel quale, eventualmente, andare a planare, soprattutto nelle difficoltà di uscita in palleggio. Non è un caso che adesso, in cima ai pensieri, ci siamo Torreira dell’Arsenal: non avrà il fisico, ma ha dinamismo e capacità di interdizione, per arricchire la densità nel mezzo. E poi sono comparse le carenze sull’esterno di sinistra, dove alle spalle di Mario Rui non c’è più Ghoulam ma l’alternanza (Di Lorenzo o Hysaj) per fronteggiare un’emergenza ch’è andrà poi affrontata al mercato, tra sette mesi, quando comincerà una rivoluzione ch’è nei fatti. Perché anche nel calcio nulla è per sempre.

fonte:corrieredellosport

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