Rocco Scotellaro il messia del Sud . Quando da Cava de Tirreni arrivò ad ammirare la Costa d’ Amalfi

Rocco Scotellaro il messia del Sud . Quando da Cava de Tirreni arrivò ad ammirare la Costa d’ Amalfi  . Un bel pezzo oggi di Antonio Corbisiero che riguarda da vicino anche la Costiera amalfitana oltre ad essere una riflessione sui poeti e intellettuali meridionalisti che merita attenzione:
È di questi giorni la notizia dell’intitolazione della biblioteca comunale di Tricarico ad una poetessa dell’Ottocento, Laura Battista, che ha scatenato proteste, articoli di giornali, lettere, polemiche e imbarazzi dell’amministrazione comunale della cittadina guidata dal sindaco Antonio Melfi. La biblioteca – si è detto – era intitolata a Rocco Scotellaro, «il poeta della libertà contadina», il sindaco più giovane d’Italia. «Ma Rocco Scotellaro è un poeta minore, sostengono diversi intellettuali ed è stato soprattutto un dimenticato, come Manlio Rossi Doria, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Umberto Zanotti-Bianco, fino a Tommaso Fiore, una generazione di intellettuali con la sola colpa di essere stati dei meridionali e meridionalisti». Non la pensava così Carlo Levi quando scrisse la prefazione al volume di Scotellaro «L’uva puttanella», pubblicato postumo: «Non c’è casa di contadini a Tricarico dove il ritratto di Rocco non sia appeso al muro accanto alle immagini dei Santi».
IL SIMBOLOUn San Pio laico. Carlo Levi consacra Scotellaro  poeta-contadino, personaggio paradigmatico con propri simboli, miti, visione antropologica, folklore; fa di Rocco il nuovo Messia del Sud e della poesia il quinto vangelo a uso dei contadini. Dispose personalmente il corteo funebre quando morì a soli trenta anni a Portici in provincia di Napoli; le donne lucane col loro lamento accompagnarono al cimitero il feretro. Fu come se fosse morto un eroe greco. Non mancarono al poeta lucano momenti difficili e drammatici da affrontare e superare. Sradicato dalla sua terra, visse una profonda angoscia da emigrato; smarrito e in perenne conflitto esistenziale con sé stesso per aver lasciato il paese natio; si sentì quasi un traditore, tanto che definì Napoli «città d’esilio». Tuttavia Scotellaro rimane il nume tutelare del paese del materano che lo ha celebrato sabato scorso con un simbolico gemellaggio del Comune dove morì, Portici e dove visse e studiò, Sicignano degli Alburni e Cava deiTirreni. I rappresentanti dei comuni salernitani si sono recati a Tricarico, invitati dal sindaco Antonio Melfi che con la sua amministrazione ha voluto dare una cittadinanza onoraria a Ulderico Pesce, che ha portato sulle scene il poeta contadino e, tra altri cittadini illustri a Rocco Papaleo.

IL PERCORSO

Scotellaro nacque nel 1923 a Tricarico da Vincenzo, calzolaio, e Francesca Armento, casalinga. «Il 1923, il 19 aprile, la mattina del giovedì, alle ore 7 nacque il mio caro Rocco – ricordava la madre – Appena nato era come se l’avessero ravvolto in un velo; (nato con la camicia); era grande come un tovagliolo, lo misero ad asciugare e il padre se lo mise nel portafoglio, ché dicono: chi nasce velato è fortunato». Aveva dodici anni quando, nel 1935, come tanti giovani poveri del Sud, per studiare ricorse all’espediente della vocazione religiosa. Andò prima nel convento francescano di Sicignano degli Alburni. Qui, in un’atmosfera noir, tra le rovine del convento abbandonato, si sentono ancora riecheggiare le voci dei frati precettori e i passi dell’adolescente Rocco nei suoi studi ginnasiali. Su questo convento aleggia anche un mistero. In paese si dice ancora che un vagabondo diventato monaco si innamorò follemente di una contadina del paese.  Quando i monaci li scoprirono in un furioso amplesso, buttarono in cella l’uomo affinché chiedesse perdono ed espiasse i suoi peccati davanti a Dio, mentre accusarono la donna di stregoneria. E così i passi del giovane Rocco risuonano anche nel convento di San Francesco di Cava de’ Tirreni. «Non tutti sanno – dice l’acuto giornalista e scrittore vietrese Vito Pinto – di un legame di Rocco Scotellaro con la Costiera amalfitana, una terra che gli fece scoprire il mare e che, per essere legata ai suoi anni di studi giovanili, gli resterà sempre dentro come un amore intenso ma poco vissuto e presto perduto». Nell’estate del 1949 Scotellaro, da tre mesi reinsediato come sindaco di Tricarico, giunse ad Amalfi a trovare un suo amico professore, impegnato per gli esami presso il locale liceo. «Ci sedemmo sul muretto della spiaggia – raccontò anni dopo l’amico professore- spaziando lo sguardo fino a Punta Licosa e ad Agropoli e Castellabate; mangiammo un panino che ci eravamo procurati in una salumeria in piazza: «Guarda questo mare cullato dal ritmo di tamburi quanto è bello. È un mare unico questo mare celeste attraversato da correnti color latte ed è diverso e unico: il mare celeste, le barche, le correnti color latte che lo attraversano e quelle larghe chiazze di colore blu cobalto», disse Rocco al suo amico riprendendo pensieri ad alta voce da tempo racchiusi nel suo animo».

L’INCOMPIUTA

Nella sua incompiuta «L’uva puttanella» ricordava che in quegli anni andò spesso nei paesi della Costiera amalfitana, vestito del saio, insieme ai monaci e ad altri novizi, per accompagnare i morti al cimitero. Così scoprì il mare azzurro e le spiaggette incastrate «come seggiole» nelle rocce fra agrumeti. In una notte insonne, nella sua cella del convento dei Francescani di Cava, germogliarono i versi di «Costiera Amalfitana»: «Mare celeste di pozzi blu e lattee correnti, / l’abito di foglie del carrubo ti segna, / piega all’ansito tuo piano e indifferente / la sua chioma di onde sulle rocce violate e coperte. / L’amore non chiede nulla, né frutti né serti / nel giorno che ha colori aggrovigliati e soli, / nella notte quando cade l’abbondanza dal cielo / fino al piede della marina punta di lampare. / Tu sola vorrei amare, bambina che ora spunti / e hai la piccolezza dell’arancia verde / e dovrai ingiallire per avere la mia età. / È sbocciata la silenziosa regina di una notte / che affascina il muro vecchio come una lampada / e l’alba tra un’ora la richiuderà / amante insonne affogata nei sepali biondi. / E noi fiorire e religioso andare, / ognuno nel suo turno di stagione, / nei giorni e nelle notti senza amore» Rocco Scotellaro è sepolto nel cimitero della sua Tricarico e il monumento funebre, costruito nel 1957 su proposta di Carlo Levi e finanziato da Adriano Olivetti, si affaccia sulla valle lunga e verdeggiante del Basento.

A Palazzo Lanfranchi, a Matera, è conservata Lucania 61, la grande opera pittorica di Carlo Levi lunga 18 metri e mezzo e alta più di 3, che rappresentò la Basilicata alla “Mostra delle Regioni” organizzata a Torino nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia. Lucania 61 racconta in cinque pannelli, che probabilmente costituiscono la summa del Levi pittore, la storia della Lucania contadina e di Rocco Scotellaro, il poeta in bilico tra mito e oblio, che ancora ci interroga, non solo attraverso quel quadro.

Ecco come lo tratteggia Alessandro Leogrande

Scotellaro nacque il 19 aprile del 1923 a Tricarico, da padre calzolaio e da madre sarta e “scrivana” del vicinato. Morirà il 15 dicembre del 1953, stroncato da un infarto, a Portici. Nei trent’anni della sua breve e intensa esistenza sono racchiusi tutti i segni del più grande sommovimento che abbia travolto il Sud nel Novecento: il ridestarsi di un mondo contadino e bracciantile per certi versi fino a quel momento “fuori dalla Storia”, o comunque relegato ai suoi margini. Scotellaro fu, come disse Carlo Levi che lo considerava un fratello minore più che un figlio, “il poeta della libertà contadina”: il narratore di quel lungo processo di liberazione, mentale non solo materiale, culminato nell’occupazione delle terre della fine degli anni quaranta, negli incerti successi e insuccessi della riforma agraria e, soprattutto pochi anni dopo la sua scomparsa, nell’emigrazione di massa verso il Nord. A differenza di chi aveva raccontato quel mondo dall’esterno, Scotellaro fu il primo a farlo dall’interno. Le poesie di È fatto giorno che vinsero il Viareggio, il romanzo incompiuto L’uva puttanella (che Levi riteneva superiore allo stesso Cristo si è fermato a Eboli), l’inchiesta altrettanto incompiuta di Contadini del Sud, pubblicati tutti nel biennio 1954-55, costituiscono il nucleo del suo lascito.

Ma Rocco non fu solo un giovane intellettuale meridionale del dopoguerra. Fu anche un politico, un amministratore: il giovanissimo sindaco socialista del paese in cui era nato, Tricarico, fortemente attraversato da quei sommovimenti. Della politica visse le gioia di una vittoria elettorale forse insperata, la difficoltà estrema dell’amministrare, le sofferenze della calunnia (per un accusa del tutto infondata di malversazione fu addirittura costretto a una quarantina di giorni di carcere, esperienza poi raccontata in alcune bellissime pagine dell’Uva puttanella).

Per chi si volge a rileggere la sua opera, a sessant’anni esatti dalla sua scomparsa, l’aspetto più interessate è proprio questo intreccio irrisolto tra letteratura e politica, tra l’individuare lucidamente i problemi, il saperli narrare, e il peso della loro risoluzione. L’uva puttanella parla della sua infanzia, della famiglia, della morte prematura del padre, della miseria nera della Lucania, delle sue esperienza di sindaco, del movimento dei contadini e dei braccianti per la terra… Le pagine più commoventi sono quelle in cui si racconta della morte di Pasquale, un fuochista che ha perso il poco di cui viveva, e dell’impotenza di un sindaco di fronte al suicidio di un povero, di fronte a tutte le povertà cui non si riesce a mettere mano. Un tema doloroso, questo, che ritorna anche nella riflessione, e nella vita concreta, di tanti amministratori del Sud di oggi: proprio del Sud nascosto dei piccoli paesi di provincia, in genere non raccontati, benché attraversati da una crisi profonda.

L’ultimo Rapporto Svimez, ad esempio, parla di una società meridionale in decomposizione, attraversata da una feroce recessione, dalla desertificazione industriale, dal non-lavoro dei giovani, del ritorno dell’emigrazione verso l’esterno, proprio nel momento in cui il Sud sembra espulso dell’agenda politica, dagli slogan dei leader emergenti, e il meridionalismo dei Levi, dei Rossi-Doria, dei Salvemini e dei Fortunato è stato accantonato – sommerso dai latrati dei neoborbonici, che di esso sono l’esatto contrario.

Nel Sud che si decompone riaffiorano tante storie di povertà, solitudine, impossibilità di andare avanti, che andrebbero raccontate al di là del medium giornalistico, al di là della concentrazione (e, quindi, anestetizzazione) in poche righe superficiali, come accade in genere sui giornali. Anche per questo, i libri di Scotellaro sono un esempio letterario su cui meditare: un esempio complesso, sfaccettato, poliedrico, come tutte le narrazioni che sorgono seguendo mille rivoli, e che per giunta, come nel suo caso, restano incompiute. Eppure queste strutture narrative stratificate sono oggi un modello con cui fare i conti, un modello significativo di inchiesta, di costruzione di biografie di uomini e donne sconosciuti, di rielaborazione di racconti ascoltati a voce o raccolti “in presa diretta”, persino di autobiografia politica, tra pubblico e privato. Si coglie in ogni pagina in prosa di Scotellaro il tentativo di trovare una soluzione letteraria all’organizzazione di questo materiale complesso, la riflessione costante sul medium della scrittura (prima o terza persona singolare, italiano o dialetto, lingua parlata o scritta…) affinché esso non strozzi la vita di cui si vuol dire, ma la faccia invece scivolare nelle pagine.

Rocco Mazzarone, medico epidemiologo che gli fu amico, tra coloro che hanno condotto nel materano la lotta contro la malaria e la tubercolosi, ha ricordato più volte come Scotellaro fosse pienamente consapevole della complessità del tessuto sociale del suo paese, e del Sud in generale. Non era solo il poeta della libertà contadina. Lo fu innanzitutto, certo. Ma fu anche consapevole, da sindaco, della necessità di creare alleanza sociali molto più ampie e complesse; come fu cosciente dell’importanza di uscire (per un po’ di tempo) dal proprio mondo, per meglio comprenderlo con uno sguardo allo stesso tempo interno ed esterno.

Anche per questo, conclusa amaramente l’esperienza di sindaco, Scotellaro si trasferì a Portici, all’Istituto di Agraria diretto da Rossi-Doria, con l’idea di acquisire strumenti maggiori per intervenire sul Sud in trasformazione. È in quella fase che nasce l’idea di realizzare l’ampia inchiesta sui Contadini del Sud, raccogliendo storie “sul campo”, in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale.

In una lettera a Rossi-Doria del luglio del 1948, all’indomani delle elezioni politiche, Scotellaro scrisse: “Mi sostiene ancora una profonda fiducia d’un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo”. Rossi-Doria gli rispose che un’epoca ormai si era definitivamente chiusa: “Per essere capaci di vivere utilmente quella che si apre o forse quella che seguirà a questa, bisogna prendere atto con assoluta chiarezza di questo fatto e bisogna cambiar vita. Di agitatori nessuno ha più bisogno e meno che mai i nostri poveri contadini di Basilicata.” Aveva anche lui profonda fiducia in un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo, ma da “una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho imposto tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la mia politica del mestiere.”

La politica del mestiere, per Rossi-Doria, così come per Scotellaro, nasceva innanzitutto dallo studio non ideologico della realtà e dalla consapevolezza di aver pazienza circa i tempi dell’intervento. In un Sud mutato rimangono – ancora oggi – l’estrema fatica di intervenire sulle cose, sulla materia dei rapporti umani, per trasformarli, e l’estrema fatica di raccontare le linee di frattura, la complessità delle tensioni sociali, che spesso mutano (come rilevava Scotellaro) da paese a paese all’interno della stessa provincia, la cultura e la politica, i comportamenti elettorali, le alleanze elettorali, gli immobilismi vecchi e nuovi, il ruolo dei luigini. Rispetto a sessant’anni fa, proprio perché il Sud, più che il resto d’Italia, ha vissuto una fase di crescita e decrescita infelice, di accesso alla società dei consumi e poi di ripiegamento nell’assenza strutturale del lavoro (e sovente di una cultura del lavoro, soprattutto dopo il fallimento dei grandi poli industriali), serpeggia un rancore maggiore, a volte difficile da afferrare. Una collera, mista ad apatia, su cui è complicato edificare qualsiasi cosa.

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