Ravello, San Nicola e l’Antica Repubblica Marinara d’ Amalfi

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Ravello, San Nicola e l’Antica Repubblica Marinara d’ Amalfi. Il professor Giuseppe Gargano, direttore scientifico del Centro di Storia e Cultura Amalfitana, e principale storico della Costiera amalfitana, ne parla , come al solito, in maniera piana e interessante.

Un santo vescovo, vestito dei suoi paramenti, viene sorpreso nell’atto di benedire e di miracolare l’equipaggio di una nave in preda ad una violenta tempesta: è San Nicola, protagonista di uno dei suoi miracoli marinari che fanno parte della sua agiografia.

La raffigurazione appartiene al ciclo nicolaiano di affreschi della cappella superiore di Santa Maria de Olearia in Maiori, una produzione pittorica che Robert Bergman assegna all’ultimo quarto del secolo XI. Il santo vescovo di Mira appare, quindi, come protettore dei naviganti. La disagevole conservazione della pittura ci permette, comunque, di individuare una vela latina, arrotolata intorno alla sua antenna a causa della procella, l’albero maestro con la coffa, la prua e due marinai: si tratta di un buctius, una nave da trasporto utulizzata da amalfitani e baresi nel corso dell’XI secolo, così detta perchè a forma di botte, lunga 30 m., larga 5,25, provvista di un solo albero con vela triangolare, con un remeggio da 6 a 40 pale, tredici marinai, una capacità di 100 t.

Il ciclo pittorico in questione fu realizzato proprio a cavallo della data di traslazione delle sacre reliquie di S. Nicola da Mira a Bari: il fatto avvenne nel 1087, in occasione di una spedizione mercantile barese ad Antiochia. Un atto della seconda metà del secolo successivo riporta i nomi dei membri dell’equipaggio che compì quella missione: essi sono 61, tra cui tre nauclerii (nocchieri) e due presbiteri, che avevano il compito di custodire durante il viaggio di ritorno le sante spoglie e svolgevano nel contempo la funzione di scrivani di bordo, alla stregua dei prossimi futuri curiali ecclesiastici con facoltà di scritture private laiche di Ravello, di Scala, di Tramonti. E proprio di quell’equipaggio facevano parte marinai del ducato di Amalfi: Stefano Bove e Leone Sapatico di Ravello, Iohannoccaro Manco di Atrani.

E proprio la Chiesa amalfitana stabiliva di scegliere quale protettore del suo capitolo quel santo vescovo che proteggeva i naviganti, poiché Amalfi e il mare fu, nei secoli del Medioevo, un binomio inscindibile di fortune economiche, relazioni diplomatiche, attività assistenziali e opere caritatevoli a dimensione mediterranea.

Questo articolo non ha altra pretesa se non di essere un’analisi alquanto acribica e puntuale delle attività marinare svolte dai ravellesi nel corso del Medioevo, quali aspetti di una società fortemente legata alla mercatura e ai traffici, ma nel contempo pregna di sensibili valori umani, morali e spirituali segnatamente visibili nell’attaccamento ai culti e alla venerazione dei santi. Pertanto, il culto di S. Nicola fu il più rilevante nella categoria dei santi vescovi venerati a Ravello e nella sua diocesi, che rappresentavano, come dedicazione di chiese e cappelle, il 15% del totale; con cinque luoghi di culto a Lui dedicati S. Nicola otteneva il 6% rispetto alla statistica cultuale relativa alla diocesi ravellese tra IX e XV secolo. Inoltre, la diffusione del culto del santo vescovo di Mira e di Bari fece proliferare tra XIII e XIV secolo il Suo nome nell’onomastica maschile del ducato di Amalfi, con punte significative proprio a Ravello.

Le attività mercantili dei ravellesi cominciarono almeno nella prima parte del secolo XI, quando Ravello non era ancora una città vescovile, ma semplicemente una terra composta da vari casali sparsi. Così a quel tempo ravellesi, scalesi e tramontani trasportavano via terra, lungo l’itinerario Monti Lattari – Nocera – Avellino – Benevento – Melfi, prodotti tessili lanieri, legna, derrate alimentari in Puglia e importando, per ulteriori commerci occidentali, sale, olio, vino, cereali. Al fine di allegerire le fatiche per sé e per i loro colleghi compatrioti diretti verso le terre di Puglia, un gruppo di ventitre mercanti ravellesi nel 1044 edificava a Melfi il monastero benedettino di S. Benedetto de Vultu, che sarebbe servito anche come stazione di riposo e di rifocillamento. Alcuni di questi operatori commerciali, durante quello stesso secolo, si stabilirono nelle città pugliesi, determinando i primi nuclei di quelle che saranno in seguito popolose, organizzate e attive colonie virtuali, che regolavano la propria vita interna e i rapporti con l’esterno mediante le consuetudini della madrepatria applicate da propri giudici. Così Orso de Fimia prendeva in fitto per tre anni un’astatio nel vicinius della chiesa di S. Nicola a Bari nel 1124, al fine di vendere il vino. Un complesso di nove domus erano riuscite a realizzare le famiglie ravellesi de Maurone e Pironti nei primissimi anni del XIII secolo, sicuramente un sistema di case-azienda, collocato presso la Giudecca nel porto di Brindisi. Proprio quel porto era la stazione di partenza di navi mercantili dirette a Bisanzio lungo la rotta marittima che costeggiava il Peloponneso o puntando verso la dirimpettaia Durazzo, dove vi era una folta colonia amalfitana, per poi seguire la Via Egnazia. Forse attraverso la direttrice marittima si recava nella capitale dell’impero Giovanni di Tramonti, soprannominato Rabella Grecus, un tramontano che, imitando altri suoi conterranei, dovette essersi trasferito dapprima a Ravello e poi aver intrapreso attività mercantili tenendo la Puglia come caposaldo e rivolgendosi ai territori dell’impero bizantino; da qui il secondo soprannome. Questo Giovanni risiedeva a Bari, presso la chiesa di S. Nicola: nel 1099 dettava il proprio testamento, con il quale lasciava tutti i suoi beni al predetto santuario. Egli era stato in prededenza insignito del titolo aulico di patrizio imperiale dalla corte costantinopolitana, probabilmente perchè Bisanzio lo riteneva un importante referente nella sua politica di riconquista dei territori del Meridione d’Italia ormai nelle mani dei normanni, quasi alla stregua del duca Marino di Amalfi, nominato sebastos pansebastos, o del nobile atranese di Salerno Landolfo Butrumile, ammiraglio della flotta bizantina e donatore delle porte della cattedrale di S. Matteo, che fu protosebastos. Un altro ravellese patrizio imperiale fu Leone de Turano, il quale lasciava in dote alla figlia ben 28 once d’oro (= 1400 tarì amalfitani).

Le fonti documentarie attestato traffici marittimi dei ravellesi di Puglia verso l’Oriente. Nel 1271 Fusco Campanile di Brindisi commerciava mediante una barca. Matteo Sannella nel 1328 trasportava 100 salme di frumento dalle coste adriatiche pugliesi alla repubblica di Venezia; a Villa Rufolo fu ritrovato un gruzzolo di doppi veneziani d’argento, prova materiale di questi traffici. Persino le donne ravellesi erano direttamente coinvolte nella mercatura: Grusa da Sancti, vivente a Putignano, nel 1159 ricevette dal cognato Giovanni Pititto 20 once d’oro (= 1000 tarì) in prestito con la clausola che quel capitale in cinque anni avrebbe dovuto raddoppiare; la donna, marito consenziente, offriva in pegno case, vigne, castagneti e orti. Pertanto, il tasso d’interesse, piuttosto elevato per l’epoca, si attestava al 20%.

Numerosi ravellesi furono incaricati, specialmente dai sovrani angioini, della cantieristica navale in Puglia. Nicola Acconciaioco, secreto e portolano di Puglia, riparò vascelli a Barletta e a Monopoli, galee e arsenali in tutta la regione. Matteo Rufolo, nello stesso tempo, assolse il medesimo compito; Mauro Muscettola fu magister tarsianatuum (maestro degli arsenali) dell’intera Puglia, per cui soprintendeva a tutti i cantieri navali. Nicola de Marra, milite e cambellano, nel 1316 allestì 14 galee in quell’area.

I ravellesi residenti nella loro patria operarono soprattutto come capitalisti in società marittime che si regolavano mediante l’applicazione della commenda. Già nel 1105 Sergio Zinziricapra di Ravello, insieme all’atranese Gregorio de Domino Tauro, assegnava al nauclerio Costantino Castaniola il loro nabidium, una nave lunga 22,5 m., provvista di cassero a poppa con due timoni, tre alberi con vele latine, ancore, funi, sartìe e barca per lo scarico delle merci. I due soci versavano il capitale di 100 soldi (= 400 tarì) e navigavano in taxidio, cioè col patto della divisione degli utili, insieme al nauclerio sulla rotta Amalfi – Sicilia – Ravenna, dove avrebbero venduto 60 cantari di lana (5,4 t.) caricati sull’isola di Trinacria. In questa singolare società, che è già una prima forma di colonna, i soci capitalisti impegnavano il capitale versato per le spese e per la paga dei marinai, salvo restituzione integra al ritorno ad Amalfi da parte del nauclerio, e la propria nave, che constava di 24 carati; il nauclerio riceveva 2 parti (carati), di cui una per la sua funzione di nocchiero (naucleratum), mentre una terza parte toccava al proprio figlio, il quale metteva in società i 60 cantari di lana. In definitiva, per l’azione della colonna, al socio ravellese e a quello atranese rimanevano 21 carati. Molto attivo quale socio actor o capitalista in accomanda fu il ravellese Filippo Frezza in età sveva. Costui, negli anni ’50 del XIII secolo, fu in società con Pietro Buccella, grande armatore amalfitano. Essi effettuarono viaggi commerciali, con i buctii Maymone Pandatus, verso la Sicilia e la Sardegna, dove avrebbero venduto 100 cognia di vino greco; Filippo Frezza impegnava un capitale liquido di 10,5 libbre di denari minuti genovesi, particolarmente richiesti su quell’isola, e prendeva alla fine i ¾ degli utili, lasciando l’altro quarto a Pietro Buccella, socio tractor o viaggiante.

Vari aristocratici ravellesi assunsero magistrature e uffici marittimi durante il regno angioino: essi collaborarono al sostegno della monarchia, specialmente nei frequenti confronti militari con i nemici aragonesi di Sicilia, mediante spedizioni marittime. I più attivi in tal senso furono i Rufolo. Sin dall’avvento angioino alcuni di essi si prodigarono sensibilmente nell’appoggio alla nuova dinastia. Già nel 1267 Giacomo era comito, cioè capo della ciurma di una galea regnicola. In quegli anni Ursone, secreto e portolano di Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo, trasportava balestre nel porto di Baia per armare le navi destinate ad affrontare nel golfo di Napoli le squadre pisane giunte in soccorso dell’estrema resistenza sveva. Giovanni Boccaccio volle importalare nel Decameron le qualità marinare dei Rufolo mediante l’ideazione della novella di Landolfo, prima mercante e poi corsaro nelle acque del Mediterraneo orientale, dapprima perseguitato dalla sfortuna e infine gratificato dalla fortuna. Questo racconto cela le imprese corsare di Lorenzo, costretto a guerreggiare sul mare, come una decina d’anni prima aveva fatto il suo concittadino Matteo Mosca, a causa dell’ingiusta accusa di estorsione e peculato che lo aveva fatto cadere in disgrazia nei confronti di Carlo II d’Angiò. Il poeta Eustachio Venusino fu ispirato dalle loro capacità marinare, per cui in una sua lirica paragona la stirpe ad una nave, sottolineando le origini dai Rufolo del casato dei Grisone e del loro esponente giureconsulto Enrico: «En Rufula navis, en Henrici fama Ravelli».

Dell’esperienza marittima del ravellese Sergio Bove si servì Carlo I d’Angiò negli anni ’70 del XIII secolo, per il trasporto via mare ad Acon dei legati pontifici per suo conto.

Altri ravellesi in quel tempo s’interessarono direttamente della costruzione dei vascelli da guerra: Bartolomeo Pironti di Brindisi forniva antenne per le galee regali; suoi concittadini segatori lavoravano negli arsenali vicereali ancora nel 1541.

Numerosi furono, poi, i ravellesi impegnati nella mercatura marittima. Sicuramente già in età normanna alcuni di essi frequentavano il Cairo, come prova per via indiretta l’onomastico Babilonia, che corrisponde ad uno dei quartieri della città egiziana, attribuito ad un rappresentante femminile della famiglia Pironti nel 1188. Per ben 14 anni Matteo Rufolo fu impegnato con le sue navi in attività di trasporto di vettovaglie per conto dei sovrani: egli nel 1278 importava ad Amalfi da Palermo 2000 salme di frumento; inoltre, due anni dopo forniva orzo per gli asini impiegati nella costruzione del Castrum Novum di Napoli (il Maschio Angioino). Nella seconda parte del XIII secolo le fonti ricordano: Giacono Rubeo, ravellese di Sorrento, in navigazione mercantile nel 1269; Ursone Rufolo operante in Grecia, tra Clarenza e Corfù. Con il centro palestinese di Acon vi furono intensi rapporti. Di lì Giacomo Bove nel 1280 importava merci a Brindisi e a Napoli. Lì Nicola Pappice e Leone Sannella trasportavano, nel contempo, frumento; mentre Maci Bove vi introduceva vettovaglie. Dall’area greca nel 1388 Masello de Agustino importava il ricercato vino de Ultra mare. Alla protezione di S. Nicola dovette appellarsi Giovanni de Furno, mercante in Sicilia, attaccato da una barca armata pisana presso Pisciotta.

Gli imprenditori marittimi ravellesi usarono per secoli la rada naturale di Marmorata quale porto d’imbarco e di sbarco delle merci. Daniele Manacorda ritiene che tale toponimo fosse legato allo scarico di spolia classici, appunto per la maggior parte in marmo, destinati alle chiese e ai tenimenta domorum dell’aristocrazia di Scala e di Ravello. Se si esclude la presenza di cave marmoree in quella zona, allora la tesi di Manacorda potrebbe essere veritiera; in tal caso il cognome da Marmorata, attestato sin dal 1031 e assunto da personaggi ravellesi che in quell’anno risultavano non presenti in ista terra, proverebbe quell’attività già in esecuzione prima che Scala e Ravello diventassero città episcopali. Da Marmorata salpavano navi cariche specialmente di legname, dirette sulle coste settentrionali dell’Africa e a Palermo, nel cui porto caricavano cotone, destinato agli opifici domestici delle città del ducato amalfitano. Quell’attività marittima e mercantile era ancora praticata nel primo trentennio del XVI secolo.

L’arguto accostamento tra fonti storiche produce un affascinante collegamento tra S. Nicola, la marineria amalfitana in generale e ravellese in particolare e l’invenzione di un fondamentale strumento per l’orientamento sul mare. L’inventario della nave siciliana S. Nicola riporta, nel 1294, una bussola de ligno: si tratta di un congegno magnetico di orientamento, che traeva il nome dal legno di bosso con cui era confezionata la scatola contenitrice. Abbiamo dimostrato in altra sede l’invenzione amalfitana della pixis nautica, uno strumento formato da una scatola dapprima di vetro e poi di bosso, che dal 1270 sarà chiamata bussola, contenente un ago magnetico imperniato e un coperchio vitreo, la cui circonferenza era distina in 360°. La pixis nautica assicurava l’orientamento anche quando il cielo era coperto e il mare agitato e permetteva il calcolo dell’azimuth, della latitudine e della posizione della nave. Essa viene dettagliatamente descritta per la prima volta dal meccanico francese Pietro Peregrino de Maricourt nel 1269, che la dovette conoscere in Puglia, mentre partecipava all’assedio di Lucera, l’ultima roccaforte sveva che ancora resisteva agli angioini. In quel tempo l’attività marittima della regione e le connesse amministrazioni fiscali e della giustizia erano quasi totalmente gestite da funzionari ravellesi. L’attestazione della navigazione effettuata in pieno inverno e lungo una rotta in mare aperto costituirebbe la prova indiretta dell’applicazione di un congegno di orientamento del genere della bussola a secco. Un documento del 1259 ci viene incontro in tal senso. Si tratta di una società di mare stabilita ancora una volta tra il ravellese Filippo Frezza, socio capitalista, e l’amalfitano Pietro Buccella, socio compartecipante e viaggiante, a partire dal 20 febbraio, con il suo buctius Pandatus sulla rotta Baia – Sicilia – Alessandria – Acon; la menzione al vernum mare serratum per il 30 novembre, festività dell’Apostolo Andrea, cioè all’interdizione invernale della navigazione, prova che questo fu uno dei primissimi tentativi di allargamento del limite temporale, incoraggiato, con buona probabilità, dall’impiego di un valido e sicuro strumento di orientamento. In aggiunta al contributo ravellese per questa notevole invenzione bisogna precisare che il presunto amalfitano inventore Giovanni Gioia (e non Flavio) apparteneva ad una famiglia attestata a Ravello ancora nel XVI secolo e ad Atrani, nella forma Angioja, in quello successivo. La bussola nautica, perfezionata dalla marineria di Positano mediante l’applicazione della rosa di 32 venti solidale all’ago, favorì la realizzazione delle prime carte nautiche. Sotto la protezione del Santo di Mira e di Bari le caravelle di progettazione spagnola, provviste di quegli strumenti, poterono solcare l’immensità dell’oceano e approdare sulle spiagge di un nuovo mondo.

 

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