La tragica morte di Giada e di Nico. Noi adulti colpevoli di non saper capire le paure dei ragazzi

Cosa passa nella mente dei giovani d’oggi, qual è il disagio che li spinge a fingere di essere prossimi alla laurea fino ad organizzare un bel festeggiamento con tragico finale? Oppure a bere a più non posso in un giorno di festa per poi ritrovarsi in fondo ad un burrone dopo aver camminato da soli nel cuore di una notte di oblio? Le vicende di Giada e Nico sono tanto diverse ma hanno un filo comune che le unisce. È il malessere di una generazione che noi adulti ci ostiamo a voler comprendere con le nostre categorie ma che alla fine ci sembra sempre più incomprensibile e irragionevole. Questi ragazzi percepiscono un futuro incerto e indefinito che fa paura. In un mondo che cammina veloce bisogna correre e affannarsi e si è forzati ad avere un determinato ritmo anche se va al di là delle proprie possibilità, altrimenti si rimane indietro. Una società selettiva non dà chance, o sei dentro o vai fuori. Arrivare secondi vuol dire essere perdenti. I giovani oggi vivono una continua competizione. Sia nel mondo reale che in quello virtuale. E chi è più debole, chi non regge il peso dei propri limiti rischia di soccombere. Sin da piccoli, spinti spesso dai propri genitori, entrano in competizione per motivi sportivi, scolastici, estetici. Quanti adulti sottopongono i propri figli a stress oltremisura perché li vogliono così come li hanno sempre immaginati, come magari non sono riusciti ad essere loro? E così tanti giovani cominciano a perdere il loro equilibrio nella fase fondamentale della loro crescita. Lo sballo da una parte, la depressione e lo sdoppiamento di identità dall’altro vincono su quelle menti più fragili che non ce la fanno a soddisfare le aspettative degli adulti. Quella sera a Positano Nico voleva trascorre una serata di festa. Chi lo ha visto lo ricorda sobrio e tranquillo nella prima parte della serata. Poi come avviene in tante discoteche è cominciata la gara: conta di più chi ha il tavolo nel posto più bello del locale, o quello dove ci sono più ragazze o ancora quello con il maggior numero di bottiglie. E il bere fa dimenticare, non fa pensare, amplifica l’euforia di un giorno di festa. La musica ad alto volume ti stordisce, ma comunica anche un modo di vivere, di scambiare le emozioni. Insomma esprime uno stato d’animo. Un cocktail che all’inizio è un modo come un altro per fare qualcosa ma poi diventa un’ossessione, una paranoia, fa dimenticare la fatica di tutti i giorni, i problemi e i genitori che ti tartassano per lo studio. Non sembra che Giada fosse tartassata dalla famiglia, ma sappiamo che non è la prima volta che una giovane vita decide di farla finita dopo aver nascosto il fallimento degli studi. Il mondo universitario non sempre aiuta, anche qui rivivono le stesse logiche competitive che si respirano nella società. I periodi ristretti in cui sono previsti gli esami impongono un tour de force che determina stress e un impegno straordinario. «L’ansia che mi prende prima di un esame – dice uno studente – è qualcosa che non provo per nessun’altra circostanza». Poi, se come Giada si è fuori sede, si sente anche la responsabilità di un dare peso economico ai genitori che magari fanno tanti sacrifici per permettere di portare avanti gli studi. Inoltre, diventare studente fuori corso peggiora la situazione sia perché aumentano le tasse, ma anche perché il tempo in più che si impiega per terminare gli studi si ripercuote sul voto finale di laurea, con delle decurtazioni del punteggio finale. L’università si adegua ai tempi. E allora i ragazzi che hanno bisogno di un tempo maggiore per apprendere, approfondire, studiare vengono penalizzati e non reggono il ritmo da performance che anche il mondo accademico detta. Non tutti sono uguali. Ma questo non lo comprendono tante volte né i genitori né i docenti. Bisognerebbe dire ai nostri ragazzi che si può anche restare indietro con gli esami, si può essere bocciati, e alla fine si può dire che il percorso di studi intrapreso non è quello che ci si aspettava. Sarebbe bastato dire a Giada che magari era una buona amica, che tutta la dolcezza che la contraddistingueva faceva di lei una persona migliore di una laureata. Il tonfo sordo che ha spezzato queste due giovani vite sia una sveglia per noi adulti, sempre pronti a giudicare e mai ad ascoltare la disperazione e lo smarrimento di tanti ragazzi la cui vita è sempre più una sfida a cui difficilmente riescono a sottrarsi. (Antonio Mattone – Il Mattino)

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