Il filosofo Aldo Masullo compie 95 anni e il sindaco de Magistris lo nomina cittadino onorario di Napoli, dove vive da 70 anni

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Suona piuttosto napoletana – tipica cioè di una propensione a cogliere strategicamente un’occasione per esaltarne un’altra – l’idea di scegliere il conferimento di una cittadinanza onoraria come regalo di compleanno. È quanto sta per succedere al professor Aldo Masullo, filosofo e giurista tra i più noti del panorama italiano, avellinese d’origine, che per il suo novantacinquesimo compleanno riceverà la certificazione istituzionale di appartenenza alla città in cui ha scelto di piantare (e mantenere) radici. Un riconoscimento per il quale si sono levate le richieste di svariate personalità pubbliche che vedono (e come non potrebbero) nel profilo di Masullo quello di un autentico protagonista della storia culturale e politica della città. Un’occasione per abbozzare con lui un bilancio possibile della sua lunga militanza intellettuale in quella che continua ad essere una delle città più vive, stimolanti e – come lui stesso racconta – ancora nobili, del mondo. Prima domanda, doverosamente ovvia: si aspettava questo riconoscimento? «No, proprio non l’avevo previsto, anche perché non amo molto gli onori nel senso formale della parola; tuttavia l’aspetto più gradito del conferimento che il sindaco e tanti altri amici hanno voluto riservarmi consiste nel poter diventare cittadino napoletano di diritto dopo essere stato, per settant’anni, un cittadino di fatto. Passare dal fatto al diritto, insomma, è una bella promozione». Come uno ius soli ad personam. «Mi sembra una definizione perfetta». Perché ha eletto Napoli come sua città? E cosa l’ha trattenuta a Napoli per tutti questi anni? «La prima scelta è stata obbligata dalle circostanze storiche: ero un pendolare universitario che veniva da Nola per studiare. Di quei primi anni conservo soprattutto il ricordo delle macerie (all’epoca ancora tantissime) a destra e a sinistra del rettifilo, e il contrasto, per certi versi straziante, fra la voce del professore che nel bellissimo giardino dell’Archivio di Stato ci leggeva Platone in greco, mentre le bombe cadevano di qui e di là». Una drammaturgia estetica che riassume abbastanza fedelmente la sua militanza intellettuale. All’inizio, dunque, Napoli è la sede universitaria geograficamente obbligata. E poi? «In seguito, da docente, ho avuto occasione di stabilirmi altrove (in particolare a Pavia); ma ho preferito restare a Napoli perché sono sempre stato sensibile alla sua nobiltà, intendendo con questa parola non un colore definito, decifrabile, ma una stratificazione. Nobile è ciò che porta in sé un bene e un male irrintracciabili altrove e dunque ha un significato unico. Napoli è nobile in quanto arcaica, gravida di un principio dominante che la fonda e, fintanto che un certo processo è in vita, lo sostiene». Una delle sue tesi è che gli uomini intuiscono il tempo nel registrare il proprio modificarsi rispetto ai cambiamenti del mondo. In questo senso lo spazio (soprattutto in una città come Napoli) in che modo è legato al tempo? «Credo che i napoletani abbiano fatto scempio dello spazio, invadendo quelli che erano – appunto – gli spazi delle selve, delle campagne, dell’aperto. Il problema è che questa invasione non è avvenuta secondo un principio razionale e la costrizione che ne è derivata ha inevitabilmente modificato il senso del tempo». Quindi il rapporto nevrotico che abbiamo con il tempo dipende dalla riduzione dello spazio? «Esatto. Il tempo passa sempre più velocemente perché si contrae con lo spazio. Essendo lo spazio una proiezione della nostra corporeità, la velocizzazione del tempo è la conseguenza della restrizione di quella proiezione. Il tempo non fa che segnare il passo di questo immiserirsi». E lei che rapporto ha con il tempo che passa sul suo corpo? «Sono sempre meno abile di un tempo (appunto). Direi che l’inconveniente dell’invecchiare consista nel fatto che gran parte del tempo che una volta s’investiva in altre attività (studiare, conoscere, osservare), con la vecchiaia viene destinato alla manutenzione del corpo. Da giovane, nella peggiore delle ipotesi si fa prevenzione; in seguito la cura del corpo diventa obbligatoria». Un piccolo passaggio in politica. Che cosa ha perso in questi anni? Cosa l’ha più delusa? «Forse, più del rapporto con le istituzioni, mi ha ferito il venir meno della capacità degli individui di diventare soci degli altri: la tendenza, sempre più evidente, ad isolarsi, allontanandosi dal concetto di comunità. Il che è un paradosso, se considera che oggi i principali canali attraverso cui si comunica si chiamano social: viene definito sociale ciò che dissolve la socialità». Non trova che Napoli, malgrado le contraddizioni, conservi ancora un istinto comunitario, un’apertura all’altro? «Vero. Napoli ha grandi risorse nella sua storia, memorie di comunità che si depositano nel suo corredo storico; ma anche da noi questa forma di umanità è fortemente deperita. Del resto, in una città dove i giovani versano in condizioni di concreta (e completa) difficoltà, i ricchi non fanno che godersela e i poveri possono soltanto rodersi, è inevitabile che il livello di civiltà sia sempre più scadente». Questa consapevolezza la rende infelice? «No. Io non sono mai infelice. Né felice. Felicità e infelicità sono termini falsi. La felicità, se esistesse, sarebbe una gioia immobile. La saggezza consiste nel realizzare che nessuna gioia è permanente». Vorrei concludere con una domanda personale. Qual è il luogo di Napoli che preferisce? «Gran bella domanda. Direi San Biagio dei Librai, il punto in cui si concentrano tutti i vari strati della storia napoletana: fisicamente; nel mondo di esercitare l’umanità; nella trasfigurazione intellettuale. È la via che comincia con San Domenico, il grande convento dove studiò Giordano Bruno, e via via contiene i luoghi in cui nacque e visse Giambattista Battista Vico. Tutto il grande pensiero napoletano è nato e cresciuto in quei pochi metri quadrati, un vero condensato di esperienza». (Diego De Silva – Il Mattino)

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