Salerno piange Sergio Vecchio. Pittore e artista visionario, muore a 71 anni nella sua casa-atelier di Paestum

Salerno. «Ora che la gioventù è defunta e si rimane in verticale con la schiena in tangenziale la pittura è l’unica chimera superstite». È l’incipit dell’ultimo libro di Sergio Vecchio, «Le stanze dell’eremita», presentato lo scorso gennaio a Paestum, nel “suo” museo. E nella pittura, luogo della mente e dell’anima, ha riposto il suo corpo d’artista, rigenerandosi alla sua linfa vitale, il dolore fisico annullato dalla voglia di continuare a costruire il suo «atlante della memoria», dice Angelo Trimarco, «il disperato sogno di un racconto totale dove passato prossimo e passato remoto si combinano fino a formare un linguaggio nuovo, libero», gli fa eco Fulvio Irace. Due critici che oggi piangono l’amico scomparso. Settantuno anni, ogni giorno pronto a ripartire da zero. Stava scrivendo un’altra pagina del suo diario per immagini e parole di un «viaggiatore notturno» nei territori della Magna Graecia – una mostra da realizzare in primavera – quando ieri mattina alle 8 il suo cuore forte si è fermato, forse per un ictus. Era nella casa atelier di Paestum, la vecchia abitazione di famiglia a due passi dalle mura poseidoniate, trasformata in una galleria d’arte con l’antico mescolato al contemporaneo, l’Itaca di colori e visioni in cui nuotare, lontano dal caos di Salerno, nelle acque profonde del mito. C’erano la moglie Bruna, performer e animatrice culturale, e la figlia Viviana, scrittrice. Il secondogenito, Marco, pittore sulle orme paterne, era in viaggio alla volta di Venezia, l’inutile corsa per riabbracciarlo. La notizia della morte si è diffusa in poco tempo, un tam tam che ha raggiunto Napoli, Roma, le città delle sue trasferte vittoriose. Nel giro di poche ore messaggi – il sindaco Vincenzo Napoli ha espresso il suo cordoglio per la «perdita dell’amico» e quello della città «per la scomparsa di un artista illustre e generoso» – e il via vai dei colleghi a lui più legati come Pietro Lista, Angelomichele Risi, Enzo Cursaro, Enzo Bianco. Affranti il critico d’arte Massimo Bignardi (che ha curato l’installazione del 2016, «Le stanze dell’eremita», all’interno della vecchia fabbrica Cirio), Gabriel Zuchtriegel (direttore del Parco archeologico di Paestum, che lo ha voluto spesso al suo fianco), i galleristi Lelio Schiavone (che gli ha sempre aperto le porte del Catalogo) e Paola Verrengia (per quella personale nell’aria ma sempre rimandata). Studi al liceo artistico Sabatini e all’Accademia di Belle Arti di Napoli, il primo incontro con la classicità Vecchio l’ha avuto quando, per «un caso fortuito» – scherzava – è venuto al mondo sulle vecchie pietre dell’antica Poseidonia-Paestum. È cresciuto a pane e ruderi Sergio Vecchio, come maestri Zanotti Bianco e la Montuoro – «avevo quindici anni, ma loro conversavano amichevolmente con me quando cenavano, insieme a contadini ed operai, alla stazione di Paestum» – come amici Mario Napoli – «con lui e con il Teatro Esse di Napoli abbiamo messo in scena una magistrale Medea nei templi» – e, infine, Johannowsky che nel 1981 gli allestì, complice l’architetto Ezio De Felice, la sua prima mostra a Paestum, nelle nuove sale del museo archeologico. «Sono un pittore per vocazione, un battitore libero – confessava Vecchio – mi perdo e mi ritrovo tra le trame della memoria e lo sguardo proiettato al futuro». L’artista non è mai stato estraneo ai fermenti del contemporaneo, di cui negli anni Sessanta-Settanta è stato tra i protagonisti. Inevitabile con maestri come Carlo Alfano e Lucio Del Pezzo, con amici del calibro di Filiberto Menna e compagni di viaggio come Peter Willburger, Giovanni Canton e Gelsomino D’Ambrosio. «Con loro creai in via Da Procida, erano i primi anni Settanta, la galleria alternativa “Contro” in dialogo con il “Laboratorio” di Carmine Limatola a Largo Campo – raccontava Vecchio – Insieme portammo Riccardo Dalisi alle Fornelle per animare il quartiere degradato». Non c’erano gelosie in quella stagione di rivoluzione culturale: i giovani artisti incrociavano le loro strade, l’Università con Menna e Sanguineti scendeva per le vie, nelle cantine, l’Arci guidata da Luigi Giordano offriva stimoli entusiasmanti. «Happening, arte povera, sperimentazione, teatro totale, eravamo immersi nell’avventura dell’inventare il nuovo». Viveva con orgoglio la solitudine Sergio nella sua «officina segreta dove non è mai venuto Sgarbi». Poco importa, perché quel laboratorio di idee e azioni di lotta, come la battaglia persa per fare della vecchia stazione di Capaccio un archivio della memoria del vecchio e nuovo Grand Tour, era frequentato da intellettuali del rango di Roberto Pane, Pietro La Veglia, Salvatore Emblema, Pierre Restany, Vittorio Avella, Gennaro Vitiello, Raffaele D’Andria, Paolo Apolito. Un campione Vecchio, lui che da ragazzo militava nella squadra di Capaccio. Un gabbiano, come gli piaceva definirsi, che ora sorvolerà altri orizzonti. (Erminia Pellecchia – Il Mattino)

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