La Settimana del Ragù a Napoli

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    La settimana del ragù, riportiamo un bel servizio di Emanuela Sorrentino
    Per la prima volta nella sua ricca e lunga storia gastronomica Napoli celebra il suo piatto più amato e più raccontato: O Rraù.
    E non ci riferiamo solo alla poesia di Eduardo De Filippo, ma proprio alla memoria che ciascuno di noi ha sin da bambino con questa ricetta che vuol dire casa, affetti, una domenica passata in famiglia o con gli amici.
    Un piatto povero che piace ai ricchi, un piatto semplice adorato dai gourmet. Il piatto dei piatti che ci accompagna tutta la vita. Per celebrarlo degnamente il LucianoPignataroWine Blog, e il sito Mysocialrecipe con il patrocinio della Camera di Commercio di Napoli, hanno promosso questa settimana dedicata al Ragù che è un atto di amore di tutti quanti coloro i i quali amano la cucina partenopea, invitando i ristoranti e le trattorie più conosciuti a mettere questo piatto, nella versione classica, nella variante di famiglia o anche in una moderna interpretazione, nel loro menù per una settimana intera. Di qui il nome al progetto, Ragu7su7, coordinato da Marialaura Rolando (Alessia La Ragione ha invece curato la linea grafica)
    Con il pane o con la pasta, le polpette o le tracchiolelle, le mille varianti che la fantasia del nostro popolo ha creato nel corso degli ultimi cento anni saranno raccontati in 40 locali.
    In ciascuno dei quaranta locali ci sarà un angolo dedicato alla iniziativa con locandine e depliant e due prodotti simbolo del ragù: il pomodoro San Marzano di Solania e la carne di Sabatino Cillo. Partner, e non poteva essere diversamente, l’azienda Santacosta con la linea Don Andrea della famiglia Pagano, da quattro generazioni vinificatori a San Marzano sul Sarno, e la Birra Valsugana.
    Luciano Pignataro e la nutrizionista Francesca Marino, Ceo di Mysocialrecipe, moderati dalla giornalista Santa Di Salvo, hanno illustrato alla stampa e agli ospiti intervenuti il programma della prima edizione di Ragù 7su7 cui è seguita una degustazione del ragù preparato dallo chef stellato Lino Scarallo in abbinamento al Don Andrea 36*05 di Santacosta e alla birra del Birrificio Valsugana. Ma prima non poteva mancare la famosa poesia di Eduardo recitata dall’attore Tonino Cuomo.
    Per la prima volta, dunque, tutta la città di Napoli, dai folcloristici vicoli dei quartieri ai luoghi più esclusivi e raffinati, sarà inondata dal tipico profumo di ragù e ciascuno dei 40 locali, dagli stellati alle trattorie storiche, celebreranno il piatto principe della tradizione partenopea, ‘O Rraù, mettendolo nel menù e raccontandolo nella sua variante classica, quella della nonna, o rivisitata in chiave moderna.
    Sono state davvero tante le proposte registrate su MySocialRecipe, dalle più originali come quella del «Ragù 9851» di Salvatore Bianco de Il Comandante, la «Lasagna Celestina, pasta celestina al basilico con cuore di lasagna napoletana» di Antonio Sorrentino di Rossopomodoro, le «Polpette schiacciate con quenelle di ragù napoletano, croccante di caciocavallo podolico condito con olio aromatizzato alla piperna» di Dario Della Rossa de Il Macello, la «Lingua mbuttunata al ragù o meglio lingua e pasta» di Mario Avallone de La stanza del Gusto, la «Pappulea with love» di Osteria Partenope, gli «Gnocchi di ricotta di bufala e basilico fritto al ragù classico napoletano» della Hostaria la Campanella, ai classici «Ziti spezzati al ragù di Carmnella» di Vincenzo Esposito, il «Timballo di maccheroni al ragù» dell’Osteria La Chitarra, o il «Purgatorio di Donato» dell’Osteria Da Donato, e la «Caccavella di Gragnano al ragù» di Cantina di Triunfo, il «Risotto al ragù di Gorizia 1916», la «Braciola di manzo crudo con scarola riccia, salsa al pecorino e ragù» di Veritas.

    Tommaso Esposito
    Siamo nel 1220 e a Napoli come a Palermo regnava Federico II di Svevia. Nello stretto vico dei Coltellari, che doveva trovarsi a ridosso di Piazza Portanova, accadevano cose strane. In una casetta abitata da gente di malaffare, all’ultimo piano viveva Cicho il mago, che passava le sue giornate studiando su libri polverosi o armeggiando tra provette, pentole e alambicchi. Tutti si chiedevano chi fosse e che cosa facesse. Soltanto Jovannella di Canzio, sua vicina e moglie di Giacomo, uno sguattero nelle cucine di Palazzo Reale, spiando dal buco della serratura riuscì a carpirne il segreto. Lo svelò al marito e costui ne parlò con il cuoco di corte. «Sai -gli disse- conosco una vivanda di così nuova e tanto squisita fattura da meritare l’assaggio del Re». Detto fatto la cosa riuscì ad essere realizzata e Jovannella, ammessa tra i fornelli di corte, dapprima cominciò a impastare fior di farina e acqua, ne ricavò maccheroni di zita e li stese ad asciugare al sole. «Poi mise in un tegame strutto di porco, cipolla tagliuzzata finissima e sale; quando la cipolla fu soffritta vi mise un grosso pezzo di carne; quando questa si fu crogiolata bene ed ebbe acquistato un colore bruno dorato, ella vi versò dentro il succo denso e rosso dei pomidoro che aveva spremuti in uno straccio; coprì il tegame e lasciò cuocere a fuoco lento carne e salsa».
    In poco meno di sei mesi tutta Napoli mangiava maccheroni con il ragù e Jovannella di Canzio, che aveva carpito il segreto a Cicho, divenne ricca e famosa. Questa favoletta fu scritta da Matilde Serao e pubblicata in Leggende Napoletane nel 1881. Poco importa alla scrittrice che il pomodoro non esistesse a Napoli nel 1200 e che abbia conquistato i fornelli soltanto verso la fine del 1700. L’importante, dirà la Serao, che: «diabolica o angelica che sia, la scoperta di Cicho ha formato la felicità dei napoletani e nulla indica che non continui a farla nei secoli dei secoli». E fu proprio così. Vale pure la pena di sottolineare che questa favola de Il segreto del Mago ha il merito di documentare come sul finire del 1800 la ricetta del ragù e del modo di condire la pasta, fosse già molto popolare e del tutto simile a quella che oggi conosciamo. D’altra parte è in questo scorcio di secolo che il nome, derivato dal francese ragot, intingolo stracotto a base di carni e aromi, si napoletanizza e diviene Rraù. Basta dare una sommaria lettura ai tanti dizionari dialettali per verificarlo. Assente in quello del Galiani e degli Accademici Filopatridi del 1789, in quello di Puoti del 1841, di D’Ambra del 1873, la parola Raù comparirà soltanto nel Vocabolario Napoletano-Italiano di Raffaele Andreoli pubblicato nel 1887.
    Eppure già circolava sulla stampa napoletana da un po’ di tempo. Sul numero di giovedì 23 maggio 1861 de Lo cuorpo de Napole e lo Sebeto, uno dei tanti giornali dell’epoca, si parla della Guapparia de na Gallina e si dice che l’animale non merita di finire arrosto, ma a Rraù. Cioè debba essere farcita con uva passa, pinoli, uova, cacio, cedro e rosolata lentamente, dolcemente in un tegame a cui si aggiunga il fiore della conserva di pomodoro. Con questo rraù vanno conditi i perciatielle. Anche nella Galleria dei Costumi Napoletani verseggiati per musica da Domenico Jaccarino, pubblicata nel 1875, troveremo la parola Rraù. È Lo Chianchiere, cioè il macellaio, che elogia la carne di una tenera annecchia de Sorriento: «Ve la taglio e vuje faciteve lo zuchillo de rraù».
    Questa, dunque, l’etimologia, ma qual’è la storia delle ricette? Chi per primo propose di utilizzare il pomodoro per completare la cottura di uno stufato di carne fu Francesco Leonardi nel suo Apicio Moderno del 1790. È la ricetta del Manzo garofanato: si lascia soffriggere il lardo, il prosciutto, la cipolla, i chiodi di garofano con un pezzo di carne. Se ne fa brodo, ma quando: «è la stagione del pomodoro, in luogo di bagnare col brodo, bagnate col sugo di pomidoro». Un anonimo M.F. pubblicherà poi nel 1807 La Cucina Casereccia e darà consigli sul Ragù di vacca o di vitello che: «sarà migliore se vi suffriggeranno anche i pomidoro».
    Da parte sua, il Duca di Buonvicino Ippolito Cavalcanti nella Cucina Teorico pratica del 1837 parlerà di Brodo colorito di carne con i pomidoro. Carne, pepe, cannella, chiodi di garofano, cipolla si soffriggeranno insieme nel pesto di lardo, si consumeranno con la conserva di pomodoro. E condiranno infine: «maccheroni incaciati e qualunque qualità di paste». E questa sarà dunque la ricetta base su cui ogni famiglia deciderà poi la propria variante più buona. Il pezzo o i pezzi di carne possono essere sostituiti dalla braciola, il grande involtino in cui raccogliere le spezie, o mbuttone: pepe, cannella, chiodi di garofano, cedro, uva passa e pinoli. La conserva di pomodoro seccata al sole, può diventare la passata di pomodoro San Marzano o a fiaschella o del piennolo. La pignata di creta darà spazio al tegame di rame o di alluminio. La cucchiarella di legno potrà essere sostituita da quella di teflon. La fornacella con il carbone sarà soppiantata dal calore a induzione. Una cosa dovrà sempre restare immutabile, senza eccezione alcuna. Il lento bollore. O Rraù dovrà peppeare o peppejare, cioè come dice il D’Ambra nel suo vocabolario: cacciar di bocca il fumo che si aspira con la pipa. D’altra parte è donna Rosa che ce lo ricorda in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo: «La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano e non si muoveva da vicino alla casseruola neanche se l’uccidevano. Lei usava o il tiano di terracotta o la casseruola di rame. L’alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di annecchia e lo metteva in una sperlonga come si mette un neonato nella connola, poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppeiato per quattro o cinque ore». Ma o Rraù di Donna Rosa, che poi era della signora Piscopo, scrive Eduardo: «andava per nominata».

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