Firmato il nuovo contratto della scuola. Sì agli aumenti ma addio al merito, ritorno al «favor loci» e rinvio del codice etico

Più informazioni su

    Con il contratto siglato ieri per il comparto istruzione della Pa – che comprende scuola, università esclusi i docenti, enti di ricerca pubblica e istituti di alta formazione artistica e musicale – si realizzano due record davvero storici. Il primo è quello di un contratto che ribalta in maniera strutturale la legge di riforma di cui è figlio, quella della Buona Scuola, che già da tempo nelle misure attuative aveva rinunciato a molti dei suoi principi all’inizio vantati come vessilli di svolta. La seconda è quella di una riforma che porta – grazie all’obbligo impostoci dall’Europa – al record dell’immissione in ruolo sin qui in tre tornate di ben 154.000 docenti, per tentare di azzerare l’orrore della precarietà di massa per decenni oscenamente coltivata nella scuola dalla politica, e che ciò malgrado ci regalerà ancora supplenze a decine e decine di migliaia, e proteste e voti elettorali contro chi l’ha varata, tradendola poi per strada dopo la botta del referendum del 4 dicembre 2016. I cedimenti rispetto all’impianto originale erano già stati numerosi e rilevanti. Ora è arrivata la botta finale. Il contratto certamente ha di buono che interrompe lo stop degli aumenti salariali nell’istruzione durati quasi un decennio ormai, come in tutta la Pubblica Amministrazione. Con aumenti medi nella scuola di 85 euro mensili, che partono da circa 80 nella scuola dell’infanzia fino ai 110 euro per gli insegnanti a fine carriera. E naturalmente con il recupero integrale del bonus fiscale 80 euro per tutti coloro che, grazie agli aumenti, superassero il tetto di reddito oltre il quale il bonus si perde (la salvaguardia non è altrettanto automatica se non sulla carta per i dipendenti privati, visto che i soldi in quel caso non ce li mette lo Stato ma le imprese, che devono tener conto della propria produttività e utili). Ma poi vengono tre scelte pesanti come macigni. Il primo è di fatto l’inabissamento di ciò che era stata una vera discontinuità rivendicata dalla Buona Scuola: il salario di merito attribuito valutando le professionalità e i risultati degli insegnanti. Al sindacato ovviamente non è mai piaciuto, fedele alla linea per cui nella PA i premi di merito si distribuiscono con criteri egualitari, sino al 90% e oltre a seconda dei comparti e delle amministrazioni. Ma con questo contratto si fa di più: esso sovverte pressoché frontalmente quanto disposto dalla legge. Il sindacato ha ottenuto di portare sotto l’ombrello contratto l’intera materia del salario di merito: quel che restava dei 200 milioni di euro stanziati a tal fine finisce infatti per quasi il 60% in retribuzioni tabellari a pioggia, e il resto è un “finto merito”, visto che i criteri della sua attribuzione in ogni istituto vedranno il dirigente scolastico obbligato a convenire con le richieste avanzate dalla relativa RSU sindacale: la quale o otterrà quel che vuole, oppure sarà libera di impugnare la soluzione sgradita davanti al giudice del lavoro. I sindacati confederali firmatari del contratto – gli autonomi non lo hanno siglato e  dunque si riservano di scioperare – ne sono legittimamente felici. Hanno vinto ancora una volta la battaglia contro il merito differenziato e contro metriche individuali per la sua valutazione. Ma è il Pd che, dal governo Renzi a quello Gentiloni, ha ideato varato e attuato la riforma della Buona Scuola, ad aver capitolato pensando alle elezioni. Il merito vero ancora una volta resta fuori dalle aule scolastiche: perché secondo questa concezione la scuola è innanzitutto di chi ci lavora, non di chi la frequenta e delle famiglie a cui appartengono gli studenti. Anche sul codice etico, che doveva riformulare insieme al merito status e identità degli insegnanti, il sindacato ha ottenuto una vittoria: non è parte integrante del contratto, sarà un mero addendum, da definire nei mesi prossimi. Il contratto recepisce la norma con sanzioni fino al licenziamento per gli insegnanti che si rendessero responsabili di comportamenti impropri con gli studenti, dalla molestia fino alla violenza. Ed è un bene che sia così, con sanzioni che prescinderanno dall’avanzamento e dall’esito di indagini e processi penali. Ma intanto il codice etico resterà relegato a un rango di cogenza inferiore a quella contrattuale. Terza botta: il ritorno al diritto del favor loci espresso dall’insegnante, per la sua destinazione preferita. Il sindacato ha vinto anche qui, e del resto il ministro Fedeli aveva rinunciato sin dal suo insediamento al criterio di 3 anni fissi nella cattedra assegnata una volta messi in ruolo. Quel criterio serviva a rendere il più efficiente possibile l’assegnazione degli insegnanti laddove si registrano i maggiori scoperti in organico: cioè al Nord. Ma poiché la maggioranza dei messi in ruolo viene dal Sud, la norma aveva da subito generato l’insorgere di migliaia di interessati al grido incredibile di «no alla deportazione». E così nel contratto il vincolo dei 3 anni resta solo per coloro che hanno la cattedra laddove avevano espresso volontà di ricoprirla. Nessun blocco per gli altri. Ovviamente i sindacati sapevano e sanno benissimo quale sia la conseguenza. Al Nord restano scoperte decine di migliaia di cattedre in numerosi insegnamenti essenziali, rispetto ai meno numerosi nordisti vincitori di concorso in quegli insegnamenti. Esito: un esercito perdurante di supplenti. E al Sud al contrario i rilocalizzati levano le cattedre a chi resta precario. In tutta Italia, poi, la messa in ruolo assegnata al cosiddetto “organico di potenziamento” ha effetti paradossali: moltissimi insegnanti di discipline non previsti negli istituti vengono invece loro assegnati, con l’idea che debbano comunque ringraziare per la messa in ruolo e rassegnarsi a leggere il giornale nelle sale professori, o a coadiuvare in attività diverse dall’insegnamento. In coerenza alla lunga storia delle tante riforme della scuola a cui quasi ogni ministro ha messo mano, è arrivato il momento di dire che anche questa volta l’occasione appare sostanzialmente perduta. Non c’è alcun pregiudizio pessimista nel dirlo. Né tantomeno un calcolo politico, o contrarietà a chi l’ha pensata e varata. L’abbandono del merito individuale; il tramonto progressivo del ruolo incisivo inizialmente proposto per i dirigenti scolastici, nella valutazione come nella pianificazione, ruolo immediatamente avversato appioppando loro la spregiativa definizione di “sceriffi”; le marce indietro come al solito contraddittorie del giudice amministrativo sul principio che comunque nelle scuole di ogni ordine e grado per insegnare serva una laurea, derogato invece a favore dei diplomati “storici” malgrado decine di migliaia di precari avessero preso sul serio l’impegno opposto dichiarato dallo Stato, sono tutti segni di una grande occasione fallita. Purtroppo, ancora una volta. (Oscar Giannino – Il Mattino)

    Più informazioni su

      Commenti

      Translate »