Quarant’anni di «Exodus»: alle radici della leggenda Marley

da Il Mattino La rivista «Time» nel 2001 lo proclamò miglior album del ventesimo secolo, precisando il giudizio con una motivazione che non lascia dubbi, né ammetteva repliche: «Ogni canzone è un classico, dal messaggio d’amore all’inno rivoluzionario: un intreccio politico e culturale che trae ispirazione dal Terzo Mondo e gli dà voce a tutte […]

Più informazioni su

    da Il Mattino
    La rivista «Time» nel 2001 lo proclamò miglior album del ventesimo secolo, precisando il giudizio con una motivazione che non lascia dubbi, né ammetteva repliche: «Ogni canzone è un classico, dal messaggio d’amore all’inno rivoluzionario: un intreccio politico e culturale che trae ispirazione dal Terzo Mondo e gli dà voce a tutte le latitudini». In tempi di anniversari e ricorrenze, impossibile farsi sfuggire l’occasione per celebrare un disco-manifesto come «Exodus», che Bob Marley assistito dai suoi Wailers pubblicò il 3 giugno 1977, poche settimane prima che al musicista venisse diagnosticato il melanoma che lo porterò alla morte: era tempo di punk e disco music, di rivolgimenti ideologici e tensioni assortite, che il profeta del reggae seppe tradurre con quello che unanimemente è stato accolto dalla critica internazionale come un capolavoro.

    Brani epocali, entrati di diritto nella colonna sonora di una generazione come «Natural mystic», «Jammin’», «Waitin’ in vain» o la conclusiva «One love», erano al centro della poetica del cantore giamaicano, allora poco più che trentenne, ma già maturo e affermato: la fama planetaria che gliene venne non ne arrestò la creatività, non scalfì la compattezza della band e quel disco, ancora più di altri fiori profumati di una carriera ricca e intensa, sarebbe rimasto ben fisso nell’immaginario collettivo. Siamo, insomma, alle basi, ma anche all’apice, della leggenda del santo fumatore.

    Più informazioni su

      Translate »