Escursione in quota. Secondo giorno

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    La signora Clara ha fatto trovare nella Stube panini, burro, marmellata, un bricco di latte e un termos di caffè. Le prime luci dell’alba filtrano tra le cime a est illuminando un sottile strato di nubi plumbee e un desolato paesaggio lunare fatto di lastroni rocciosi disseminati di grossi sassi. Le lame di luce, squarciando le nuvole, illuminano le rocce dolomitiche in lontananza creando un’atmosfera spettrale dominata dal silenzio più assoluto rotto solo, di tanto in tanto, dal fischio delle marmotte.

    Roberta se la dorme tranquillamente nella sua camera nel sottotetto. Enrico e Stefano hanno fatto colazione, alleggerito gli zaini del superfluo, e si avviano ora lungo l’irto sentiero che porta sulla cima della Croda del Becco.

    Partendo dal Rifugio Biella a 2327 metri, si arriva prima alla Forcella Sora Forno a 2388 metri e, da qui, seguendo la cresta sulla destra e un sentiero in parte assicurato con corde, si arriva in vetta alla croda a 2810 metri. Il dislivello totale è di 483 metri.

    I due amici hanno previsto di arrivare in cima per le otto per poter godere dell’esplosione di luce mattutina sulle cime dolomitiche che li circondano. Salgono con passo cadenzato, in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Non sembrano avere il morale alle stelle, sarà per il cielo velato da nubi o per l’alzataccia alle sei del mattino.

    Enrico sta pensando ad Henriette, la sua compagna, e agli ultimi sviluppi del loro rapporto. Aveva conosciuto Henriette tre anni prima sui campi da tennis del centro sportivo della AESMA, un’agenzia internazionale di standardizzazione digitale dei dati industriali con sede a Bruxelles. Henriette era molto brava a tennis e aveva subito individuato due errori basilari nella tecnica tennistica di Enrico. Pur giocando spesso a tennis, Enrico era un tennista mediocre e lo si poteva tranquillamente classificare tra i tennisti scarsi dello sport center.

    “Devi impattare la palla davanti al corpo e rimanere stabile sui piedi mentre la colpisci” gli aveva spiegato Henriette. Per mettere in atto gli insegnamenti, nelle settimane successive avevano giocato a tennis regolarmente durante la pausa pranzo. Fino a quando, un giorno, erano andati a giocare nella macchina di Henriette parcheggiata strategicamente in un angolo remoto dell’ampio parcheggio.

    Henriette era divorziata e viveva con il figlio diciottenne. Dopo qualche mese il figlio si era iscritto all’università in Inghilterra e Enrico aveva aderito alla proposta di Henriette di andare a convivere con lei. Il rapporto di convivenza era andato molto bene per qualche anno, poi erano cominciati i dissapori, le incomprensioni. Enrico viaggiava molto per lavoro e gli capitava di essere assente anche per qualche mese. Henriette, ovviamente, non ne era felice e, ultimamente, aveva preso ad uscire la sera con amiche e amici. Insomma aveva ripreso la vita da single e, in più di un’occasione, gli aveva proposto uno stile di vita da ‘coppia aperta’. Da buon italiano Enrico non ne aveva voluto sapere anche se poi era stato coinvolto, suo malgrado, in qualche esperienza di ‘coppia aperta’.

    In occasione dell’ultimo rientro di Enrico a Bruxelles dopo un periodo di lavoro in Inghilterra, Henriette gli aveva comunicato senza mezzi termini e senza ammettere replica che sarebbe partita per quindici giorni di vacanza a Ibiza con amici. A quel punto Enrico aveva telefonato a Stefano per organizzare l’escursione sull’Alta Via delle Dolomiti.

    Adesso Enrico riflette sul da farsi al rientro a Bruxelles. “Non è possibile continuare a convivere come se niente fosse” pensa. Un po’ gli dispiace, ma non è la fine del mondo. Ci sono aspetti logistici da considerare come trovare casa, spostare le sue robe, riorganizzare lo stile di vita. Ma tutto si può fare con calma e civiltà.

    Intanto i due amici hanno raggiunto la forcella Sora Forno e, da qui, si inerpicano seguendo la cresta a est.

    L’erto sentiero sembra aver risvegliato Stefano dal torpore mattutino. Girandosi indietro verso Enrico chiede:

    “Sai certamente che la Croda del Becco in tedesco si chiama Seekofel che letteralmente significa Picco del Lago, ma conosci come viene chiamata dagli ampezzani?”

    “No, non ne ho idea” risponde Enrico.

    “Cul de ra Badessa”

    “Culo della badessa?” chiede Enrico

    “Sì.” Risponde Stefano “Il crinale della Croda del Becco aveva segnato per secoli il confine tra i territori amministrati dalle Regole d’Ampezzo e quelli sotto la giurisdizione della badia di Sonnenburg”.

    “In Austria?”

    “No, qui vicino, a San Lorenzo di Sebato, presso Brunico. Oggi il convento è conosciuto come Castel Badia. La più celebre delle badesse di Sonnenburg, l’energica e bellicosa Verena von Stuben, tentò di annettere la conca ampezzana ai territori soggetti all’autorità del proprio convento. Dopo sanguinosi scontri, la badessa dovette desistere. E così gli ampezzani battezzarono sdegnosamente questo monte con il nome di Cul de ra Badessa”.

    Man mano che salgono in quota le nuvole scure si trasformano in una leggera foschia che avvolge il fondovalle. Solo le cime svettano maestose e luminose sopra la coltre di foschia. Arrivati in cima anche la foschia si dissolve e la vista sul lago di Braies dallo strapiombo della parete nord della croda è veramente impressionante. Vengono le vertigini a sporgersi troppo sullo strapiombo di quasi mille metri sul lago. Bellissima la vista verso Nord sulle alpi austriache e verso Sud sul Pelmo, Gruppo del Bosconero, Croda Rossa, Tofane, Fanes e Gruppo delle Odle. Sono le otto e trenta e le cime sono investite in pieno dalla luce del sole sullo sfondo di un cielo azzurro sfumato verso lo smeraldo all’orizzonte.

    “Solo per questa vista vale la pena salire fin qui in vetta” dice Stefano.

    Dopo una sosta in vetta di una decina di minuti, Enrico e Stefano si incamminano lungo il sentiero in discesa per il rifugio Biella dove c’è Roberta ad aspettarli. Superato il tratto con corde, la strada non presenta più difficoltà e Enrico chiede: “Anche quest’anno fai le vacanze al mare con i figli?”.

    “Sì” risponde Stefano “Andiamo per due settimane ad Acciaroli in Cilento a fine luglio. Ci sei mai stato?”

    “Ci sono passato una volta. E’ un bel posto per fare le vacanze al mare con i bambini. E Anna? Come va con Anna?”

    “Bene” risponde Stefano “Anna ha superato la fase del rancore e dell’odio che inevitabilmente segue ogni separazione. Adesso il nostro rapporto è un po’ simile al quello tra parenti visto che continuiamo a essere genitori responsabili che interagiscono in modo costruttivo per il bene dei figli. Certo il senso di colpa per aver fatto fallire il matrimonio continua a non darmi pace. Eppure credo che, nell’occasione che ha fatto traboccare il vaso, qualsiasi altro uomo non avrebbe potuto fare diversamente da come ho fatto io”.

    “Ho saputo che vi siete separati perché tu le mettevi sistematicamente le corna. Cosa vuol dire che qualsiasi altro uomo si sarebbe comportato alla stessa maniera?”

    “Non nego di averla tradita in qualche occasione ma mi aveva sempre perdonato perché in fondo conosce molto bene la mia natura che però non intaccava affatto i miei sentimenti per lei. Avevamo litigato e poi rifatto pace varie volte fino a quella notte quando tutto è andato in casino. Il problema è che non riesco a controllarmi quando una donna prende l’iniziativa … figurati quando sono due, come quella notte” risponde Stefano.

    “Ti va di raccontare cosa è successo?” chiede Enrico.

    “Era un sabato notte e con un gruppo di amici eravamo andati a divertirci in un locale notturno fuori mano. C’era il solito disk jockey, le luci soffuse e i divanetti intorno alla pista. Si ballava e si beveva ma senza esagerare. Il nostro era un gruppo composito: quattro o cinque coppie sposate, un paio di coppie non sposate, qualche ragazza più giovane. Ci si divertiva a volte con giocosi e innocenti flirt incrociati … ma niente di più. Era già parecchio tardi quando ho finito le sigarette. Le avrei potute trovare solo al distributore automatico che si trovava a circa un chilometro. Prendo la macchina, trovo le sigarette e torno verso il locale. A duecento metri dal locale ci sono due ragazze del nostro gruppo che mi fanno il segno dell’autostop; una delle due scherza sollevando la gonna per mostrare la coscia come fanno le prostitute.”

    Stefano fa una pausa poi chiede: “Tu ti saresti fermato?”

    “Non posso saperlo perché non mi è mai capitata una situazione del genere” risponde Enrico.

    “Sei sempre sfuggente come un’anguilla” replica Stefano infastidito “Fai uno sforzo di fantasia e mettiti al mio posto. Ti saresti fermato o no?”

    “Credo di sì” ammette Enrico.

    “Mi sono fermato anch’io e quello è stato un errore fatale perché dal quel momento in poi non sono stato più in controllo di niente. Una delle ragazze viene dal lato di guida e mi dice: spostati, guido io. Mi trovo seduto scomodamente tra le due ragazze a cavallo della leva del cambio. La ragazza alla mia destra, senza proferir parola, comincia a sbottonarmi la camicia ridendo, l’altra non fa più di due, trecento metri con la macchina e parcheggia in una stradina laterale”.

    “Sembra proprio un agguato pianificato nei dettagli” interviene Enrico.

    “Lo credo anch’io.  Mentre mi tasta e mi sbottona i pantaloni, quella alla mia sinistra dice con il respiro rotto dall’eccitazione: ‘sei messo veramente bene, tua moglie è fortunata’. Per farla breve, ho una mano sulla testa della ragazza alla mia sinistra e l’altra sotto gli slip di quella alla mia destra quando qualcuno sbatte ripetutamente il palmo della mano sul vetro del finestrino. Era il marito di quella impegnata a fare il pompino insieme al compagno della ragazza seduta a gambe larghe”.

    “Immagina il casino che ne è venuto fuori!” conclude Stefano “Una sceneggiata pazzesca nel cuore della notte con urla, improperi e qualche ceffone. Ma lasciamo perdere. Le due ragazze furono poi perdonate dai loro compagni perché la colpa fu data all’alcool e a qualche pasticca ingerita con troppa leggerezza. Io, che ero stato praticamente violentato, non trovai alcuna comprensione in mia moglie. Questo volevo dire prima: in una situazione del genere, tutti gli uomini normali si sarebbero comportati come mi sono comportato io. Non sei d’accordo?” chiede.

    “Sai bene che io non sono un moralista bigotto e nel caso esilarante dell’agguato femminista io, come te, sarei stato felice vittima sacrificale.” risponde Enrico “Ma l’idea di Stefano vittima di violenza sessuale mi fa proprio ridere. Forse, per onestà intellettuale dovresti chiederti se durante la serata, o in altre occasioni, tu non abbia eccitato in qualche modo le fantasie erotiche delle due signore”.

    “Lasciamo perdere … non andiamo nei dettagli … “ replica Stefano “ … infatti, come dicevo prima, il senso di colpa non mi abbandona mai. Quello che ho capito troppo tardi è che le mie leggerezze o ‘ragazzate’, se preferisci, minavano, a lungo andare, il senso di fiducia e di stabilità che in genere una moglie con prole cerca nel marito”.

    Roberta ha fatto colazione e si è seduta sulla panchina all’esterno del rifugio ad aspettare i due amici. Ha dormito fino a tardi e si sente riposata. Anche i piedi si sono sgonfiati e non ha avuto problemi a infilare gli scarponi. Adesso sta scorrendo gli appunti sulla tappa di oggi.

    Partenza dal Rifugio Biella, 2327 metri, arrivo al Rifugio Fanes, 2060 metri.  Tempo di percorrenza 4 ore. Dislivello in salita 512 metri. Dislivello in discesa 779 metri.

    Dal rifugio Biella si prende il sentiero n. 6 e dopo circa un’ora si arriva nei pressi del Rifugio Sennes a 2116 metri. Dal Sennes si lascia sulla sinistra il bivio per il Rifugio Fodera Vedla e si imbocca la strada militare che, con stretti tornanti, scende al rifugio Pederù a 1548 metri. Da qui si prosegue in salita per la Val di Rudo, si passa vicino al laghetto Piciodèl e oltrepassato un ponticello, si arriva al Rifugio Fànes a 2060 metri.

    “Si va più in discesa che in salita … non sembra una tappa difficile” pensa Roberta.

    Alzando lo sguardo verso la Croda del Becco, vede in lontananza i due amici che scendono agilmente lungo il sentiero.

    Scorgendo i suoi compagni Roberta ripensa subito alla sera prima, quando Stefano le ha massaggiato i piedi ed a quel momento di ‘rimescolamento’ che ha sentito dentro di sé. Si chiede se sia stata l’abilità delle sue dita a risvegliare in lei istinti primordiali a lungo repressi o qualcos’altro di più profondo.  Mentre le lunghe dita di Stefano scorrevano su e giù lungo il suo piede, la mente di Roberta era stata sopraffatta da fantasie lascive. Era stata tentata di allungare la mano per tastare la consistenza del polso vigoroso ma snello e nervoso di Stefano. Aveva dovuto fare uno sforzo di volontà per controllarsi mentre la mente vagheggiava di dimensioni e solidità improbabili.

    “Devo stare attenta” pensa Roberta. Da tempo non provava stimoli sessuali così espliciti ma è sicura di riuscire a controllarli agevolmente come ha sempre fatto.

    Roberta è ormai divorziata da oltre dieci anni ma ancora non ha superato il trauma per la fine del rapporto. L’amore, l’innamoramento, per lei sono diventati sinonimo di dolore e sofferenza. L’ideale di amore che aveva nutrito nel suo animo appassionato e romantico fin dall’adolescenza è miseramente svanito lascando il posto alla consapevolezza che l’amore porta all’infelicità per definizione. E, inevitabilmente, ha costruito intorno a sé un muro, un bastione difensivo invalicabile.

    Ha perso completamente fiducia negli uomini come compagni di vita ma al tempo stesso ne è attratta. A volte si trova a pensare: “Ci sono tantissime qualità negli uomini: sanno essere simpatici, se colti sono interessanti, se no sanno essere vitali e protettivi e raccontare la loro storia con grande slancio, sanno essere sexy e avvolgenti e, a volte, splendidi amanti”.  E’ stata tentata a volte di lascarsi andare con leggerezza ad una relazione senza implicazioni sentimentali ma lei si conosce troppo bene e sa che il pericolo è quello di ‘andar per tordi e finire a beccacce’ nel senso che vai per cercare leggerezza e trovi l’innamoramento e l’immancabile sbocco nell’infelicità. Meglio tenere alzato il ponte levatoio del bastione difensivo. “Meglio non rischiare” è la norma che si è autoimposta.

    “Buongiorno cara” dice eccitato Stefano mentre si avvicina alla panchina dove Roberta è rimasta seduta ad aspettarli “non sai cosa ti sei persa stamattina. Valeva proprio la pena fare i 500 metri di dislivello, da lassù si vede un panorama incredibile”.

    “No, no! Grazie, per me andava bene così. Avevo proprio bisogno di riposare” risponde Roberta.

    Enrico sopraggiunge qualche attimo dopo. “Ciao Roberta. Hai riposato bene?” chiede.

    “Benissimo” risponde Roberta “ho già fatto colazione e stavo rivedendo il percorso che faremo oggi. Non mi sembra difficile. Che ne dici?”

    Enrico crede di scorgere qualcosa nello sguardo di Roberta che gli ricorda l’intensità degli sguardi che si erano scambiati da ragazzi a Riaci. Ancora una volta gli sembra di cogliere, negli occhi verdi e sorridenti di Roberta, una promessa di felicità. “Ma dai!” pensa “è una mia impressione. E’ la sua espressione normale: Roberta è dolce con tutti”.

    Risponde: “Sì, la tappa odierna non è particolarmente difficile. Per le prime due ore andremo in leggera discesa, poi avremo altre due ore in salita ma senza vere arrampicate”.

    “Sono le dieci. Se partiamo subito arriveremo al Rifugio Fanes tra le due e le tre del pomeriggio. Non abbiamo nessuna fretta … propongo di rimanere qui fino all’ora di pranzo, mangiare qualcosa e poi ripartire. Cosa ne pensate?” chiede Stefano.

    “Io ho un’idea migliore” interviene Enrico “facciamo una pausa di mezz’ora per sistemarci e rifare gli zaini e quindi partiamo. Per l’ora di pranzo, verso l’una, saremo al Rifugio Pederù dove ho sentito dire che si mangia molto bene. Calcolando una pausa pranzo di un’ora e altre 2 ore di cammino, saremo al Rifugio Fanes per le quattro. Che ne dite?”

    “Per me va bene” dice Roberta.

    Stefano: “Ok anche per me. Ricordatevi però che al Rifugio Pederù troveremo molta gente. Se ricordo bene, tra San Vigilio di Marebbe e il Pederù c’è un’ampia strada asfaltata e ci si arriva tranquillamente in macchina e con i mezzi pubblici. Più che un rifugio, il Pederù è un albergo di montagna con ristorante.”

    “Non siamo in alta stagione per cui credo che non troveremo troppi turisti” risponde Enrico.

    Il sentiero sul quale si incamminano prende verso ovest e costeggia le lastronate sotto la Croda del Becco. Hanno camminato per una decina di minuti quando Stefano che fa da battistrada seguito da Roberta e Enrico si ferma e, in silenzio, indica un punto verso l’alto. A un centinaio di metri, arrampicati su uno sperone di roccia veramente scosceso, ci sono due camosci, che per nulla intimoriti dalla loro presenza, continuano tranquillamente a brucare. Alzano solo di tanto in tanto la testa per controllare le intenzioni degli inattesi ospiti.

    Arrivati nei pressi del Rifugio Sennes il sentiero si immette su una carrabile di montagna.

    La strada in leggera discesa è larga e comoda e i tre amici camminano affiancati chiacchierando. Roberta, a un certo punto, si rivolge ad Enrico: “Sono curiosa di sapere qualcosa sulla terza via di cui parlavi ieri”.

    Enrico risponde sorridendo: “Ne sei proprio certa? Guarda che è un discorso lungo e può essere noioso se non sei veramente interessata”.

    “Tu provaci” dice Roberta “se mi annoio te le farò capire subito”.

    Poi rivolta a Stefano chiede: “Tu che ne pensi?”

    Stefano: “Ok, per me va bene”. E ad Enrico: “Ma se ti metti a sparare cazzate metafisiche ti stoppo subito”.

    “L’avete voluto voi” scherza Enrico.

    Poi riflessivo, aggiunge: “Come dicevo ieri, la terza via ha a che fare con la conoscenza. Domando, cos’è che conoscete veramente?”

    Stefano risponde prontamente: “Conosco che sono in montagna con te e Roberta, che il sole è sorto all’alba stamattina e tramonterà stasera”.

    “E tu Roberta cosa conosci veramente?” chiede Enrico.

    Roberta: “Anch’io potrei riferirmi all’esperienza del momento e dire che vedo e quindi ‘conosco’ che siamo circondati da cime maestose e boschi verdeggianti. Ma non mi fermerei qui. Direi anche che le cime maestose e i boschi verdeggianti che ci circondano sono opera di Dio Padre creatore del cielo e della terra”.

    “Brava“ interviene Stefano “ … lo stesso Dio che verrà a giudicare i vivi e i morti e ti manderà diritto all’inferno”.

    Roberta non sembra apprezzare il sarcasmo di Stefano ma Enrico interviene prontamente.

    “Questo non c’entra con quello che voglio dire. Concentriamoci sulla conoscenza” dice.

    “Entrambi dite di conoscere per certo che esiste una realtà fatta di persone, monti, alberi, fiumi”.

    “Certo che sono certo” dice Stefano con faccia soddisfatta per il felice gioco di parole.

    “Ok. Concentriamoci solo su quell’abete isolato sul prato davanti a noi. Sai anche come si forma nella tua testa la conoscenza dell’esistenza di quell’abete?”

    “Certo, sono a conoscenza che esiste perché lo vedo con i miei occhi in questo momento”.

    “Il fatto è che non sono i tuoi occhi che vedono l’abete” dice Enrico.

    Stefano: “Cosa vuoi dire? Non ti inventare cazzate filosofiche, tipo Platone e la caverna, rimani nei fatti”.

    “Non è filosofia, è anatomia. E’ il tuo cervello che crea l’immagine dell’abete. Nel tuo occhio arrivano solo onde elettromagnetiche che, una volta trasformate in segnali elettrici, giungono al cervello tramite il nervo ottico. Ed è qui che determinate strutture cerebrali, come la corteccia visiva, interpretano i segnali in arrivo e creano l’immagine dell’abete nella tua mente”.

    Roberta e Stefano sembrano perplessi.

    Enrico rincara la dose: “La tua conoscenza dell’esistenza dell’abete è basata su un’apparenza, un’immagine creata dal tuo sistema cerebrale. Ora considera che non solo l’abete, ma anche il prato, i monti, il fiume laggiù, ecc.  sono apparenze, idee, create dal tuo apparato conoscitivo costituito, in questo caso, da occhio, nervo ottico e cervello”.

    Roberta interviene: “Ok. Grazie per la lezione di anatomia ma non vedo dove vuoi arrivare. Hai ragione, all’occhio arrivano onde elettromagnetiche sotto forma di luce. Ma queste onde provenienti dal sole sbattono contro l’abete, vengono riflesse, interferiscono tra di loro creando un fronte d’onda. E’ evidente che il fronte d’onda contiene le informazioni sull’abete reale quando impatta sulla retina dell’occhio. Sei d’accordo?

    “Senz’altro” risponde Enrico

    Roberta: “Allora possiamo essere certi che l’immagine che vediamo corrisponde ad un abete esistente nella realtà, con determinate caratteristiche, con una certa altezza, forma e colore, anche se l’immagine è creata dal cervello”.

    Stefano: “Esatto, brava Roberta. Quello che vediamo esiste nella realtà come lo vediamo. L’albero esiste nella realtà ed è di colore verde. Non ho dubbi”.

    Enrico: “Ok, prendiamo allora il colore verde delle foglie dell’albero. Se al nostro occhio arrivano solo onde elettromagnetiche e non colori, da dove viene fuori il colore verde delle foglie?"

    Non ricevendo risposta, Enrico continua: "La risposta è che ogni materiale, quindi anche le foglie dell’albero, tende ad assorbire alcune lunghezze d’onda della luce solare e a rifletterne altre. Per esempio, le foglie dell’albero e il prato davanti a noi assorbono tutti i raggi solari meno quelli che hanno lunghezza d’onda comprese fra circa 500 e 550 nanometri. Solo queste onde vengono riflesse verso il nostro occhio. E’ il nostro cervello che, quando elabora queste lunghezze d’onda, s’inventa letteralmente il colore verde. Se la lunghezza d’onda dei raggi che arrivano all’occhio fosse di 580 nanometri allora vedremmo le foglie e il prato di colore giallo”.

    Dopo una breve pausa, Enrico riprende: “Il colore verde non sta nell’albero, è un’interpretazione del nostro apparato conoscitivo. Quello che voglio dire è che non vediamo la realtà, vediamo solo quello che l’evoluzione della specie ha ritenuto necessario, per la nostra sopravvivenza, che vedessimo” replica Enrico.

    Stefano: “Che c’entra adesso l’evoluzione della specie?”

    Enrico: “Il fatto è che l’evoluzione naturale ha sviluppato i nostri sensi per sopravvivere in questo minuscolo, remoto angolo dello spazio-tempo”.

    “E allora?” chiede Stefano con impazienza.

    “L’evoluzione ha forgiato il nostro cervello per orientarci e sopravvivere in un mondo dove il tempo si misura in minuti, ore, giorni e anni, dove le cose si misurano in centimetri, metri e chilometri.  Per questo mondo il nostro cervello va più che bene e nessuno si è mai lamentato. E’ quando abbiamo cominciato a studiare qualcosa che si trova al di là di queste dimensioni che si sono rilevati tutti i limiti delle nostre capacità sensoriali e cerebrali.”

    “Vuoi dire che l’evoluzione ci ha fornito di un cervello e di sensi non adeguati a vedere tutto?” chiede Stefano.

    “E’ proprio così. Ci ha fornito solo le strutture fisiche necessarie alla sopravvivenza. Considerate lo spettro elettromagnetico” prosegue Enrico “Ebbene noi ne riusciamo a percepire solo una piccolissima parte. Per esempio, il nostro occhio non riesce a cogliere la lunghezza d’onda dei raggi infrarossi e ultravioletti. Come sarebbero l’abete, i prati e i monti se il nostro occhio fosse in grado di percepire anche questi raggi di luce? Bisognerebbe chiederlo ai serpenti che vedono i raggi infrarossi o alle api che vedono i raggi ultravioletti”.

    Dopo una breve pausa, riprende: “Se il nostro occhio avesse la capacità di percepire tutto lo spettro elettromagnetico ci renderemmo conto che lo spazio intorno a noi è letteralmente intasato da un’infinità di raggi cosmici, di onde radio, da gravitoni, bosoni, neutrini, muoni, ecc. Secondo te, Stefano, come ti apparirebbe l’albero se il tuo occhio percepisse tutte le onde dello spettro elettromagnetico?”

    “Boh, vallo a sapere! Credo che sparirebbe in una nebbia indefinita di radiazioni” risponde Stefano.

    “Lo credo anch’io. Se invece il nostro occhio avesse la capacità di vedere le cose piccolissime del microcosmo, allora l’albero ci apparirebbe come una costellazione cosmica con gli elettroni ruotanti come pianeti intorno ai neutroni e ai protoni costituenti il nucleo degli atomi dell’albero. Per fortuna, l’evoluzione ha organizzato i nostri sensi e il nostro cervello in modo tale da farci vedere solo quello che è necessario alla sopravvivenza”.

    “Insomma la realtà come ci appare e quindi l’idea che di essa abbiamo non corrisponde alla realtà come essa realmente è” conclude Enrico.

    Presi dalla discussione nessuno si accorge della biforcazione che a sinistra porta al Rifugio Fodera Vedla e a destra scende al Rifugio Pederù. Solo quando ormai sono arrivati al Fodera Vedla, i tre si rendono conto di aver sbagliato strada. Non rimane altro da fare che ripercorrere i propri passi fino al bivio continuando a discutere.

    Stefano non è per niente convinto di quello che Enrico va sostenendo.

    “La stai facendo troppo lunga e complicata. Secondo te, l’abete c’è o non c’è?” Chiede con una punta di impazienza e fastidio.

    “Secondo me c’è un abete oggettivo ma noi umani lo vediamo in maniera soggettiva in base alla nostra struttura conoscitiva” risponde Enrico. “Considera però che ci sono filosofi, come Kant, e fisici, come Heisenberg, che non risponderebbero alla stessa maniera. Secondo loro, la parola “c'è” appartiene al linguaggio umano che non può quindi significare qualcosa che non sia in relazione alla nostra capacità conoscitiva. Per noi “c'è” appunto solo il mondo nel quale l'espressione “c'è” ha un senso”.

    Roberta interviene: “A questo punto chi ci dice che noi ci siamo veramente? E se avessimo tutte le capacità fisiche di cui hai accennato, come ci vedremmo tra noi?  Enrico! Non ci lasciare con queste ambasce!”

    Enrico: “Alla tua prima domanda si potrebbe rispondere con la famosa formula di Cartesio: ‘Penso dunque sono’. Ma questo ci farebbe cadere dalla padella alla brace perché la realtà sarebbe ridotta a una mera conseguenza dei pensieri. Affermeremmo così che l’Io pensante sia l’unica realtà assoluta e che non c’è niente fuori dai pensieri.”

    “Ma di cosa vai blaterando” interviene Stefano “Basta accettare per reale quello che vediamo con gli occhi e tocchiamo con mano”.

    “Hai senz’altro ragione da un punto di vista pratico ma nessuno può logicamente confutare la tesi che tutta la realtà sia solo nel pensiero” risponde Enrico.

    Poi aggiunge “In fondo, caro Stefano, sono d’accordo con te, anche se non del tutto. Anch’io credo che l’idea dell’albero non nasce autonomamente nel cervello ma implica l’esistenza di un corpo reale che affetta il mio”.

    “Che vuoi dire? … affetta? E come lo affetta? Usa un’affettatrice?” ride Stefano.

    “Sei il solito caustico rompiballe” replica Enrico “hai studiato filosofia al liceo quindi sai che ‘affetta’ sta per ‘produce un effetto’. Cioè, l’albero è un corpo  … “

    “Adesso ne spari un’altra delle tue. L’albero è un corpo?” interrompe Stefano

    Enrico: “Certo che è un corpo, è un corpo complesso formato da una miriade di altri corpi più piccoli.  Insomma, è il corpo dell’albero che affetta il mio corpo, o, se preferisci, ha un effetto sul mio corpo, tramite l’occhio, il nervo ottico e infine il cervello”.

    Roberta: “Non hai risposto però alla mia seconda domanda. Cioè, ripeto, se avessimo il massimo di capacità sensoriali come ci vedremmo tra di noi?”

    “Se i nostri sensi e il nostro cervello fossero in grado di elaborare e rappresentare tutta la realtà che ci circonda, allora saremmo in grado di ‘vedere’ le cose in sé, come sono fatte veramente, non le apparenze. Se poi mi chiedi come sono le cose in sé, ti risponderei, con Kant, che non ci è dato sapere, solo Dio può saperlo” risponde Enrico.

    Stefano interviene: “Al liceo, un filosofo che mi stava sul cazzo era proprio Kant. Me lo immaginavo austero e rigido, oltre che moralmente anche fisicamente, come se avesse un manico di scopa infilato su per il culo. Ero allergico in particolare alla cosa in sé e ai suoi imperativi categorici”.

    “A me dava più fastidio la sua idea che lo spazio e il tempo sono creati dal cervello umano e che tolto l’uomo non ci sarebbe né il tempo, né lo spazio. Io non credo che la realtà sia un’invenzione del nostro cervello. Penso invece che, lì fuori, fuori della nostra testa, ci sia un mondo oggettivo di cui noi purtroppo riusciamo a cogliere solo deboli riflessi”.

    Dopo un attimo di silenzio pensieroso è Roberta che parla: “Credo che ci siamo persi. Dovevamo parlare della tua cosiddetta terza via. Cosa c’entra tutto questo con la terza via?”

    Enrico: “C’entra, c’entra …  ma la connessione sarà evidente solo più avanti se continueremo questa discussione. Per ora mi sembra già tanto aver messo in risalto le povere capacità sensoriali dell’uomo e la pochezza della nostra conoscenza della realtà che ci circonda”.

    La strada carrabile imbocca l'aspro, stretto e ripido canalone compreso tra il Col della Machina ed il Col di Rù e sembra che lo scambio di idee sia giunto ad un punto morto perché per, qualche minuto, i tre amici rimangono in silenzio.

    Ma Enrico ha ancora qualcosa da aggiungere: “Forse potremmo chiudere il discorso con una riflessione che è anche un dichiarazione di sana modestia. Se l’uomo, come tutti gli esseri viventi, trae origine da semplici molecole organiche primordiali, se si è evoluto nella forma attuale nel corso di miliardi di anni per sopravvivere nell’ambiente naturale, allora l’uomo, come tutti gli esseri viventi, è, a tutti gli effetti, parte della natura. Fine di un pregiudizio profondamente radicato nella nostra civiltà, quello cioè che l’uomo sia un’entità dotata di vita eterna, al disopra della natura, quindi soprannaturale”.

    Stefano: “Sono perfettamente d’accordo con te. Porre l’uomo su un piedistallo al disopra della natura è una cazzata pazzesca”.

    Roberta interviene a sua volta: “Io invece la sento in maniera diversa. Secondo me, agli occhi di Dio, l’uomo è più prezioso dell'intera natura. E’ per l’uomo infatti che Dio ha creato l’universo e per la sua salvezza ha sacrificato suo figlio. Per questo io credo che si possa pensare all’uomo come a un’entità speciale al centro dell’amore di Dio, superiore alla natura e a tutti gli esseri viventi”.

    Stefano fa un gesto di impazienza mentre Enrico si limita a chiudere il discorso: “Penso che avremmo modo di parlare di questo e della credenza nella teiera volante in un’altra occasione. Per adesso è meglio godersi il paesaggio in silenzio come suggeriva ieri Stefano”.

    “E no, non puoi lasciare il discorso in sospeso dopo questo bizzarro accenno ad una teiera volante. Così non mi fai dormire stanotte” dice Roberta sorridendo.

    Enrico: “La metafora della ‘teiera volante’ è di Bertrand Russell. Più o meno la metafora dice così: se io sostengo che tra la Terra e Marte c’è una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere vista persino dal più potente dei nostri telescopi.”

    “Ora, come reagireste voi se io aggiungessi che, giacché nessuno può smentire la mia asserzione, non si può dubitare in alcun modo dell’esistenza della teiera volante?” chiede Enrico.

    “Penserei che sei fuori di testa e che stai dicendo fesserie” risponde Stefano.

    “Giusto, hai ragione. Se però l’esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l’esitazione nel credere alla sua esistenza verrebbe vista come un’eccentricità e il dubbioso sarebbe discreditato agli occhi della gente. Questo ai giorni nostri. In un tempo antecedente il dubbioso sarebbe stato portato all’attenzione dell’Inquisitore” conclude Enrico.

    “E questo cosa c’entra con la nostra discussione?” chiede Roberta.

    “La metafora delinea molto bene un tipo di conoscenza confusa, imperfetta, inadeguata, prodotta da un’immaginazione fuori controllo, senza rigore logico. Per intraprendere la terza via la prima cosa da fare è emendare la nostra mente da questo tipo di conoscenza. Ma ne parleremo un’altra volta se ne avrete voglia.” risponde Enrico.

    Intanto sono arrivati alla fine del canalone tra il Col della Machina ed il Col di Rù e la strada sbocca sopra un ampio pianoro. Il Pederù è lì sotto di loro e, come previsto da Stefano, il parcheggio è parecchio affollato. Scendono velocemente lungo gli stretti tornanti della strada militare costruita dagli alpini della Tridentina e raggiungono il rifugio. Sul terrazzo quasi tutti i tavoli sono occupati ma riescono a trovare posto in un angolo proprio di fronte la salita per la Val di Rudo che dovranno percorrere dopo la sosta pranzo.

    Ordinano birra, tagliatelle al ragù di cervo e sacher torte per tutti.

    In attesa delle tagliatelle, Enrico riporta il discorso sul giallo della morte di Daniele.

    “Perché, secondo voi, Vincenzo era così inquieto e guardingo quando ci ha parlato dei movimenti e delle luci notturne sugli scogli di Riaci nei giorni precedenti la morte di Daniele?” chiede Enrico.

    “Secondo me” risponde Roberta “Vincenzo sapeva perfettamente cosa succedeva sugli scogli ma ha avuto paura di parlarne per non passare guai. Ma cosa accadeva sugli scogli secondo voi? Traffici illeciti?”

    Enrico: “Se è così, il riserbo e la paura di Vincenzo è giustificata. Da quelle parti i traffici illeciti sono gestiti dalla camorra e nessuno si arrischia a mettercisi contro … nessuno sfida la camorra”.

    “Che genere di traffico immaginate? Droga?  Potrebbe essere una partita di droga scaricata da una nave diretta al vicino porto di Salerno?” chiede Enrico.

    “Potrebbe essere. Anche perché Vincenzo ha parlato di luci che risalivano la scarpata dagli scogli fino alla strada statale dove, evidentemente, c’era una macchina in attesa” dice Stefano

    Roberta: “Daniele coinvolto in questo traffico? Mi rifiuto di crederlo! Piuttosto potrebbe essere che Daniele sia stato involontario e scomodo testimone e per questo eliminato”.

    “Questa mi sembra un’ipotesi logica. Mi chiedo come mai gli inquirenti non hanno seguito questa pista” riflette Stefano.

    Roberta: “Ma quello che ci ha raccontato Nicola, il nipote di Daniele, ci porta in un’altra direzione”.

    “A me questa storia degli strani ospiti e dei festini della torre non convince affatto” dice Enrico.

    “Ma ci è stato confermato dai Riacesi che la torre era affittata a un coppia tedesca” replica Roberta.

    “Sì, è vero. In tanti poi ci hanno raccontato che sulla torre, di tanto in tanto, si facevano ‘festini’ notturni con decine di ospiti che, stranamente, sembra non passassero per il paese ma arrivassero via mare” dice Stefano.

    “Tutto molto strano” riflette Enrico.

    Nicola, il nipote diciottenne di Daniele, aveva raccontato che una sera si era appostato insieme a due suoi amici per vedere cosa succedeva durante i festini della torre. Quella sera, saranno state le nove, sul piazzale della torre, illuminato solo dalla luce fioca di grossi ceri, c’erano una ventina di persone mascherate e paludate da ampi mantelli, disposte in semicerchio intorno ad un basso tavolo addobbato come un altare. Altre figure femminili indossavano corte tuniche bianche e, inginocchiate verso l’altare, formavano un semicerchio interno a quello degli uomini con mantello. Al centro del semicerchio, proprio di fronte all’altare, c’era un personaggio alto e massiccio con un mantello nero e una maschera impressionante con grandi corna. Costui sembrava essere l’officiante di un rito sacro con i fedeli che cantavano con voce sommessa a testa bassa e il cappuccio alzato sulla testa. Di tanto in tanto, l’officiante interrompeva il canto dei fedeli tuonando invocazioni oscure e alzando le braccia al cielo. Nell’enfatizzare la solennità del gesto si mostrava completamente nudo e munito di un grosso fallo posticcio. Le donne allora si prostravano con le braccia tese in avanti, e, per le corte tuniche che si sollevavano, svelavano ampiamente le loro nudità. Il rito evolveva con una delle donne che, denudata anche della tunica, veniva accompagnata e fatta inginocchiare sull’altare di fronte all’officiante.

    A questo punto, anche a causa della crescente tensione nell’aria e per il tenore raccapricciante raggiunto dal canto sacro, i tre ragazzi erano scappati via impauriti.

    “Quello che non capisco “ dice Roberta ”è cosa c’entra Daniele con questo sabba satanico”.

    “Possiamo solo fare delle ipotesi se è vero quello che dice Nicola, che cioè Daniele frequentava la coppia tedesca che aveva affittato la torre” dice Stefano.

    “Per esempio? Che tipo di ipotesi?” chiede Enrico.

    Stefano: “Chi pensi possano essere questi personaggi misteriosi che arrivano al sabba satanico per mare? Molto probabilmente è gente potente e piena di soldi. Non è da escludere che in mezzo a loro ci sia stato un personaggio pubblico di primo piano. Ora mettiamo che Daniele, coinvolto in qualche modo, avesse per puro caso scoperto l’identità di qualcuno molto importante noto a livello nazionale o addirittura internazionale, pensate che lo avrebbero lasciato libero di andare in giro a diffondere la notizia e sollevare uno scandalo planetario?” 

    “Se, se … “ replica Enrico  “ … se mia nonna avesse le ruote sarebbe un tram. Mi sembra tutto frutto della fantasia eccitata di un ragazzo che deve aver visto Eyes Wide Shut di Kubrick”.

    Stefano: “Ma Nicola non era solo e anche i suoi due amici fanno lo stesso racconto”.

    Roberta: “Io non saprei quale tra le due ipotesi è quella più plausibile. In effetti la scena raccontata dai ragazzi ricorda molto il film “Eyes Wide Shut” ma potrebbe essere che proprio i partecipanti al rito si siano ispirati al film”.

    La tagliatelle sono finalmente arrivate e, affamati come sono, le ipotesi sulla morte di Daniele passano in secondo piano. Se la prendono comoda sul terrazzo del Pederù, prendono il caffè e, dopo due ore, ripartono per il Rifugio Fanes.

    La prima parte del sentiero per la Val di Rudo è abbastanza ripida e Roberta sembra subito in difficoltà.

    “Non avrei dovuto mangiare le tagliatelle al ragù … continuano a salirmi in gola” dice Roberta.

    “Quando vuoi ci fermiamo” propone Stefano.

    Roberta: “No, no, grazie. Con questo passo dovrei farcela. Non ti preoccupare”.

    In effetti, i tre riescono a scollinare senza problemi e a prendere il sentiero in lieve salita che percorre l’alpe costeggiando laghetti con acque di colore verde smeraldo.

    Quando arrivano al Rifugio Fanes una sorpresa li aspetta: una comitiva di turisti tedeschi occupa tutti i tavoli del terrazzo.

    “Ma questi pernotteranno tutti qui al rifugio? “ chiede perplesso Stefano.

     “E’ possibile. Qui ci sono ben 30 posti letto in cuccetta, oltre a dodici camere con due letti” risponde Enrico.

    “Non dirmi che noi dormiremo in cuccetta nello stesso stanzone!” dice preoccupata Roberta.

    “Tranquilla” risponde Enrico “Ho prenotato due camere, una per te e una per noi due”.

    “A proposito” aggiunge “qui c’è una lava-asciuga a disposizione. Consiglio di usarla prima di scendere per la cena”.

    Quando entrano nella Stube per la cena trovano quasi tutti i tavoli già occupati dalla comitiva di tedeschi. L’atmosfera è festosa anche per il costante rifornimento di boccali di birra. Finita la cena il clima si vivacizza ulteriormente: alcuni tavoli vengono spostati e, al ritmo della fisarmonica, in tanti si scatenano nei volteggi della polka tirolese. Tra un ‘Ein Prosit’ e un altro, la serata procede in allegria con danze e canti tirolesi. Anche Stefano, dopo qualche boccale di birra, si fa coinvolgere nell’allegria generale e si getta nella mischia con una prosperosa e matura signora tedesca.

    Enrico e Roberta rimangono al tavolo e si divertono un mondo a vedere come Stefano piroetta al centro della pista con la sua grassa tedesca.

    “Stefano è pieno di sorprese,” dice Roberta “Dove avrà imparato a ballare la polka così bene?”

    Ma Enrico sembra all'improvviso  assorto in pensieri più intimi.

    Guarda Roberta con un sorriso e con qualche esitazione chiede: “Durante le estati a Riaci, da ragazza, ti eri accorta che ero pazzamente innamorato di te?”

    Roberta è presa di sorpresa e non risponde subito. Lo guarda con un lungo sorriso, poi dice: “Come facevo a non accorgermi. Poi … anch’io ero innamorata di te … in un certo senso”.

    “Cosa vuol dire … in un certo senso” chiede Enrico.

    Roberta: “Il mio, più che amore, era un’infatuazione adolescenziale. Mi piacevi per il tuo sguardo intenso, per il tuo sorriso e, soprattutto per la bontà che i tuoi occhi esprimevano. Insomma per me era una cosa solo spirituale”.

    “Quello che si chiama amore platonico" riflette tristemente Enrico "… pensi che se mi fossi dichiarato tu avresti potuto provare qualcosa in più?”

    Roberta: “Non posso saperlo. Però ricordo che speravo sempre che tu facessi un passo avanti. Mentre ti aspettavo, Daniele mi ha letteralmente travolta sentimentalmente stregandomi, soprattutto, con la sua intelligenza e anticonformismo”.

    Annelise Kerer

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