LIBERO ARBITRIO E RESPONSABILITA’ MORALE

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    Se chiedo a cento persone se credono nel libero arbitrio, sono convinto che novantanove risponderanno ‘Sì, certo’.  E non potrebbe essere diversamente: il libero arbitrio è il pregiudizio più profondamente radicato nella nostra cultura.

    Secondo il sentire comune, l’uomo ha il libero arbitrio e agisce con assoluta libertà in tutte le scelte e decisioni che prende. Questo sarebbe un dono di Dio fatto agli uomini: ‘un potere quasi divino di astrarsi dal tessuto causale del mondo fisico’ (D. Dennett). Ma è proprio così? L’argomento è dibattuto da millenni ma nessuna prova convincente è stata portata per affermare o negare definitivamente il libero arbitrio. Bisogna dire, comunque, che, negli ultimi decenni, lo sviluppo delle neuroscienze sembra dare ragione agli scettici del libero arbitrio.

    Come mai il pregiudizio del libero arbitrio è così profondamente radicato? La risposta è ovvia: perché la nostra mente, o meglio il nostro ‘Io Pensante’, ha la netta ‘sensazione’ di avere la potenza di poter liberamente scegliere di volere questo o quello. Ma avere ‘sensazione’ di qualcosa non implica che questo qualcosa sia reale. Da dove nasce questa sensazione? Secondo me dall’evoluzione della specie: nella lotta per la sopravvivenza contro gli elementi naturali ostili, gli animali e i propri simili, avere la ferma convinzione della potenza del proprio volere è stato un vantaggio competitivo fondamentale.  Gli individui con la più radicata fiducia nella propria potenza di volontà sono stati i più adatti alla sopravvivenza. Quindi, la capacità del nostro cervello di creare l’immagine dell’Io Pensante nella sua piena potenza di volere è un regalo ereditato dai nostri lontani ascendenti pre-potenti.

    Il nostro caro libero arbitrio avrebbe dunque una genealogia evoluzionistica. L’idea illusoria di libero arbitrio è frutto dell’evoluzione e si è sviluppata a livello cognitivo per permettere a noi di rapportarci efficacemente con la natura e con i nostri simili da una posizione di potenza. Si potrebbe dire che questa idea derivi direttamente dal ‘conatus sese conservandi’, cioè dallo sforzo per sopravvivere e affermarsi, che è caratteristica comune di tutti gli esseri viventi.

    Anche il pensiero religioso e filosofico ha contribuito, nel corso dei secoli, a consolidare l’illusione del libero arbitrio.

    La religione, in particolare, ha fondato sul libero arbitrio la concezione retribuitivistica della sua morale. In altre parole, se, con la potenza del tuo volere, tu scegli di fare il bene sei premiato con il paradiso, se scegli di fare il male vai all’inferno. E’ evidente che, non presupponendo il libero arbitrio, non ci sarebbe né inferno, né paradiso e tutto il castello dottrinale e morale della Chiesa franerebbe come un castello di carte.

    Nella storia della filosofia è Kant il filosofo che ha formalizzato il concetto di libero arbitrio nella maniera più compiuta e precisa. Per sostenere il libero arbitrio, Kant dice che noi avremmo quella piena libertà perché siamo agenti causali non determinati, in altre parole siamo agenti con il potere di produrre effetti senza essere, a nostra volta, determinati in alcun modo da cause esterne o interne. Questa tesi non è una possibilità incoerente o da escludere, ma alla luce delle attuali conoscenze della fisica e delle neuroscienze non è credibile.  

    Vediamo perché.

    Gli stati mentali, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri … ecc., sono ‘ALTRO’ rispetto all'apparato biologico, cioè il corpo in senso lato e il cervello in senso stretto, ma partono da esso e dal suo stesso interno. Se c’è una modificazione dell’apparato biologico, c’è una parallela e simultanea modifica dello stato mentale e viceversa. Il corpo e la mente non fanno altro che mimarsi completamente e reciprocamente nelle loro diverse manifestazioni.

    Per esempio, mettiamo che tu incontri per strada una persona amata. Che cosa succede? Attraverso il nervo ottico, un flusso di segnali arriva al tuo cervello e cambia lo stato dell’apparato biologico settando in un certo modo un gruppo di neuroni. Immediatamente una raffica di segnali è irradiata a moltissime aree cerebrali correlate, dove ci sono i ricordi, i marcatori somatici, ecc. Da questa coordinata attività cerebrale emerge in te un’emozione di gioia, allo stesso modo che dall’attività di un’orchestra emerge la melodia di una sinfonia.

    Da questa semplice analogia si possono capire alcune cose.

    1. Senza strumenti musicali, senza l’orchestra, non si può suonare una sinfonia. Allo stesso modo, senza i neuroni, senza il cervello non possono esserci pensiero, emozioni e decisioni.

    2. Se anche un solo strumento musicale non è accordato, la melodia ne risentirà negativamente. Allo stesso modo, danni, anche limitatissimi, delle strutture cerebrali comportano deficit del pensiero e deterioramento del processo decisionale.

    3. Ciascuno strumento dell’orchestra segue uno spartito. Allo stesso modo, l’attività dei neuroni e il flusso dei segnali elettrochimici del cervello segue le leggi fisiche.

    A questo punto appare evidente che Kant, non avendo le conoscenze scientifiche disponibili oggi, si sbagliava: non è vero che siamo agenti con il potere di produrre effetti senza essere determinati in alcun modo da cause esterne o interne. In effetti, siamo determinati dallo stato dell’apparato biologico, cioè da quello che abbiamo immagazzinato nel cervello, oltre che dalle leggi fisiche che governano il suo funzionamento.

    Il neuropsicologo Michele Poletti così sintetizza il processo decisionale: “Il risultato del processo decisionale, cioè la scelta di un’opzione, va globalmente intesa come prodotto finale dell’interazione dell’attività neurale di sottosistemi distinti, governati da diversi principi e parametri” (M. Poletti)

    Nel processo decisionale che dovrebbe essere alla base della libertà della scelta e quindi del concetto di libero arbitrio, possiamo distinguere fra due tipi di scelte: (1) quelle governate da processi mentali automatici, intuitivi e affettivi; (2) e quelle basate su processi cognitivi /deliberativi. Nel primo caso è evidente che nella selezione della scelta non entra in gioco il libero arbitrio. Le scelte emergono da un processo automatico che ha luogo in ben determinati siti cerebrali come “l'amigdala, la corteccia insulare, la corteccia orbitofrontale, la corteccia cingolata anteriore e il nucleo occumbus" (M. Poletti).

    Nel secondo tipo di scelte, quelle basate su processi cognitivi /deliberativi, ‘sembra’ che entri in gioco una certa libertà di scelta. Infatti, mentre prendo una decisione importante, io vedo con la mente l’immagine del mio ‘Io Pensante’ che valuta le situazioni e ‘decide’ di volere questo o quello. Ma cos’è quest’Io Pensante? E’ l’anima intesa come puro spirito, ente immateriale svincolato dalle regole della natura? In questo caso Kant avrebbe ragione perché l’anima, così intesa, potrebbe interferire con i processi biologici e decidere senza essere determinata da cause. Ma credere nell’anima è un atto di FEDE  … se tu hai la fede, non hai alcuna difficoltà ad affermare l’esistenza dell’anima e del libero arbitrio  … puoi fermarti qui nella tua lettura … dovresti però chiederti come fa uno spirito immateriale a interagire con la materia del cervello. E non dire che c’è un ‘qualcosa’, una forma di energia immateriale, che interagisce con la materia del cervello, perché il ‘qualcosa’ non può essere immateriale. Ricordi la famosa equazione E=mc^2? Materia ed energia coincidono.

    Per chi è rimasto, vediamo come le neuroscienze spiegano l’Io Pensante o Coscienza di Sé.

    Francis Crick è un fisico, biologo e neuro-scienziato inglese, Nobel nel 1962 per le scoperte sulla struttura molecolare degli acidi nucleici e la loro rilevanza nella trasmissione delle informazioni nella materia vivente. Crick ha scritto: "Le tue gioie e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso d’identità personale (l’Io Pensante), non sono altro che il risultato dell’attività di una grande quantità di cellule cerebrali e delle molecole a esse associate".

    Per Antonio Damasio, celebre neurobiologo:  ‘Questo insieme di rappresentazioni (dell’Io Pensante) è contenuto nelle cortecce di associazione di molti siti cerebrali’.

    Secondo le neuroscienze l’immagine mentale dell'Io Pensante è un epifenomeno (manifestazione collaterale, aspetto secondario di un fenomeno primario) emergente dai processi cerebrali. Insomma anche l’Io Pensante fa parte della sinfonia suonata dal cervello e precisamente da ben definite aree cerebrali come "la corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia prefrontale anteriore e la corteccia parietale posteriore" (M. Poletti). E' stato empiricamente provato che danni a queste aree del cervello comportano un deficit a livello decisionale chiamato 'blindness to the future'

    Quelli che, come me, sono scettici nei confronti del libero arbitrio affermano che l’uomo non ha potenza assoluta di volere ma che il volere è un effetto determinato da cause antecedenti. Potrei dire che in questo momento io scrivo per mia libera potenza di volere ma direi una sciocchezza. Se scrivo, è perché voglio raggiungere qualcosa scrivendo quindi sono condizionato dal fine che mi riprometto di conseguire, oltre che da altre cause sconosciute o, magari, da una catena infinita di cause che mi ha spinto ORA a VOLER scrivere.

    Ci sentiamo liberi perché non conosciamo fino in fondo le cause del nostro agire o le consociamo pressappoco. Infatti, non possiamo mai conoscere cosa, nella nostra costituzione mentale e corporea, possa averci condotto a certo atto in un certo momento.

    Se diciamo che il volere è pre-determinato da cause antecedenti, implicitamente, affermiamo il determinismo. Qui sorgono i primi problemi. Il determinismo, infatti, è stato sconfessato dalla meccanica quantistica. Detto con poche parole, secondo la meccanica quantistica, data una causa, non è possibile prevedere quale sarà l’effetto. Sarà solo possibile calcolare con quale percentuale un certo effetto si verificherà.  A questo punto i sostenitori del libero arbitrio intervengono per dire che, se non è possibile, data una causa, prevederne l’effetto, il determinismo è da buttare nel cestino della spazzatura e quindi il libero arbitrio può rientrare in gioco. Il ragionamento sembra non fare una grinza. Ma consideriamo bene cosa significa IMPREVEDIBILE.

    Imprevedibile è  ‘ciò che non si può prevedere ‘. Ma chi è che non può prevedere? Chiaro, è l’uomo, con la sua finitezza, a non essere in grado di prevedere tutto; per prevedere tutto l’uomo dovrebbe avere la mente di Dio e conoscere tutte le regole che governano la natura. Quello che voglio dire è che se un evento non è prevedibile secondo le attuali conoscenze scientifiche, ciò non dimostra che l’evento stesso sia indeterminato e che si verifica in assenza di regole. Le regole della natura ci sono sempre, anche se non le conosciamo tutte.

    Per me è assolutamente ingiustificato affermare la coincidenza di IMPREVEDIBILITA’ e ASSENZA DI REGOLE. Oltre alle regole del determinismo classico, ci sono le regole della meccanica quantistica, quelle che governano il funzionamento della mente e soprattutto, un’infinità di regole sconosciute. Mi sembra abbastanza logico dire che in natura tutto è governato da regole. L’imprevedibile e incomputabile movimento di ogni singola molecola di H2O nelle nubi o l’imprevedibile e incomputabile movimento delle particelle a livello quantico, l’imprevedibile decadimento di un atomo d’idrogeno e l’imprevedibile (fino a un certo punto) funzionamento del cervello umano … , tutto è governato da regole.

    A questo punto, se tutto è governato da regole e se, quindi, anche il nostro cervello e la nostra mente sono governati da regole, non vedo come la mente umana possa svincolarsi dalla catena di causalità. Per quale motivo il nostro cervello dovrebbe essere l’unica cosa nell’universo svincolata da regole? Rispondi ancora 'perchè abbiamo un'anima'? Ma non ti avevo detto che se 'credi' nell'anima puoi tranquillamente smettere di leggermi?

    Sembra che da qualsiasi punto di vista si esamini la questione, il risultato è sempre lo stesso: il libero arbitrio non esiste.

    Questa è una conclusione che non è facile accettare. La prima obiezione dice pressappoco così: ‘perché dovrei darmi da fare, lavorare e lottare visto che è tutto predeterminato?’. La risposta a quest’obiezione è ovvia: ‘tu non hai la libertà di decidere di startene con le mani in mano ad aspettare cosa ti riserva il domani.  Tu sei determinato a fare quello che fai sia se ti comporti come un nullafacente infingardo sia se lotti strenuamente per un futuro migliore’.

    Un mio amico per contestare la mia posizione scettica nei confronti del libero arbitrio mi scriveva qualche giorno fa: ‘prova a dire ai civili siriani in fuga da bombe e proiettili che le scelte sono illusorie. Scambiamoci i ruoli, potrebbero risponderti, visto che non hai niente da perdere.’ Questa frase è un concentrato delle idee confuse che regnano su questo argomento. Chi nega il libero arbitrio non nega la realtà delle scelte. Le scelte sono reali ma governate da cause. Mettendomi nei panni dei siriani, anch’io scapperei dalle bombe a gambe levate, ma non per mia libera potenza di volere, ma per raggiungere un obiettivo, quello della sopravvivenza, effetto ultimo di una catena causale che affonda nel passato.

    Essere scettici sul libero arbitrio non cambia assolutamente niente nella vita di ogni giorno. Non sapendo cosa, in effetti, è determinato in base alle regole eterne, né conoscendo le infinite cause che mi determinano , io non posso prevedere se accadrà l’evento A o l’evento B, quindi, ‘in pratica’ sono tenuto a comportarmi ‘come se’ il libero arbitrio esistesse.

    La seconda obiezione suona così: ‘se non c’è il libero arbitrio allora siamo delle macchine, dei robot!’ Provo a fare in proposito una mia personale riflessione. Se io sono scettico sul libero arbitrio devo per forza negare ogni forma di libertà? Esiste una libertà senza libero arbitrio? Io credo di sì: credo che, grazie alla ragione e alla conoscenza, emerge per l’uomo una forma di libertà che viene a coincidere non tanto con il ‘potere’ quando piuttosto con la ‘comprensione’.  

    Spinoza partendo da una riflessione sulla schiavitù umana (l’uomo non è libero perché schiavo dell’ignoranza, della superstizione, della passività nei confronti degli agenti esterni e interni, ecc ) sfocia in una idea di ‘liberazione’ fondata sulla conoscenza razionale e l’intuizione di un ordine necessario del tutto.  Secondo Spinoza, il comprendere le cose ‘sub specie aeternitatis’, cioè nella prospettiva della totalità assoluta perfetta e fuori del tempo, è la forma più compiuta di libertà. Ma questo è forse un concetto troppo complesso … più comprensibile è Massimo Cacciari quando scrive: "Io sono in qualche modo libero durante la mia vita, e la mia libertà, però, coincide nel corso della mia vita con il conoscere; cioè io sono libero nel corso della mia vita di accumulare tutte le conoscenze necessarie perché poi nel momento supremo della decisione io possa essere consapevole del destino che scelgo"

    Se affronto la questione dalla mia prospettiva temporale di persona che vive giorno per giorno nello spazio e nel tempo, è evidente che, psicologicamente, non mi è possibile svincolarmi dai meccanismi cerebrali scritti nel mio patrimonio genetico dal processo evolutivo. Ai fini pratici, non sono un robot … anzi … sono attivamente impegnato, tra le altre cose, ad aumentare la mia vera ‘libertà’ tramite una migliore e più profonda comprensione delle cose.

    Diverso è il discorso se invece analizzo la questione nella prospettiva dell’assoluto, eterno e infinito, cioè ‘sub specie aeternitatis’. In questo caso, io non mi vedo assolutamente come un robot ma come un ingranaggio della perfezione del tutto. Sono due prospettive incompatibili? Non credo. Nel mio caso la prospettiva dell’eterno agisce come sottofondo acquietante della prospettiva temporale.

    Un altro problema che si pone è quello della responsabilità morale. Come fa una persona le cui azioni sono causalmente determinate da fattori al di fuori del suo controllo a essere ritenuta responsabile delle azioni che compie?

    Il concetto di legge morale, come intesa comunemente, ha radici molto profonde nella religione e nelle speculazioni filosofiche. E’ ancora Kant a definire in modo preciso cosa s’intende per legge morale. Per Kant, la legge morale ha un valore universale, non è necessaria ricavarla dall’esperienza, è ‘a priori’, è trascendentale, quindi esiste come se fosse ‘scritta in cielo’. La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per necessità di natura ma è un ‘imperativo categorico’, assoluto, applicabile sempre e di cui dobbiamo rispondere all’assoluto, cioè a Dio.

    Nella responsabilità morale così intesa è implicato il concetto di ‘puro merito’. Il merito è ‘puro’ nel senso che l'agente merita il biasimo o la lode SOLO in considerazione del valore morale assoluto dell’azione compiuta senza alcuna valutazione delle condizioni di contorno.  La concezione retributivistica della pena, difesa da Kant nella Metafisica della morale, sostiene che la punizione di un criminale è giustificata sulla base del fatto che egli la merita, e la merita perché ha trasgredito ai dettami della legge morale con piena libertà di volere.

    Anche assumendo l’esistenza di valori morali trascendentali assoluti e universali, cosa succede se non c’è libertà di volere? Appare evidente, in questo caso, che la responsabilità nei confronti del Dio padre non ha più ragione di essere: fine dell’inferno e del paradiso. E’ possibile immaginare, a questo punto, una morale svincolata da qualsiasi riferimento ad una divinità personale o ad un aldilà extraterreno, che prende le mosse dalla naturalità dell’uomo per mirare ad un benessere terreno da realizzarsi nell’aldiquà.

    In questa prospettiva è evidente che l’uomo rimane responsabile nei confronti della natura, degli animali e, soprattutto dei propri simili.

    Ad esempio, per quanto riguarda i criminali e tutti quelli che hanno comportamenti dannosi alla corretta vita sociale, io non penso che essi non debbano essere ritenuti responsabili dei loro delitti, semplicemente ritengo che la giustificazione della pena non possa basarsi sul ‘puro merito’.

    La condanna, la prevenzione e la repressione dei crimini non sono assolutamente compromesse dallo scetticismo sulla libertà umana né da altre considerazioni morali. Consideriamo l'analogia tra il trattamento dei criminali e il trattamento di chi è portatore di pericolose malattie. Chi è infettato da tali patologie non è responsabile in alcun senso del pericolo che procura. Tuttavia, in genere pensiamo che qualche volta sia lecito mettere il malato in quarantena. Ma allora, anche se un criminale non è responsabile dei propri delitti nel senso del "puro merito", è lecito porlo in detenzione, così come si mette in quarantena il portatore di una malattia infettiva.

    Una teoria basata su quest'analogia richiede un grado di attenzione per la riabilitazione e il benessere del criminale che dovrebbe portare a modificare molte delle nostre attuali regole. E se il criminale non riesce a emendarsi e la nostra sicurezza richiede la sua incarcerazione a tempo indeterminato, la prospettiva scettica sulla libertà non dà giustificazioni per rendere la sua vita meno dignitosa di quanto necessario per proteggerci dalla minaccia che egli rappresenta.

    Spesso giustifichiamo le nostre espressioni d’indignazione e le pene che infliggiamo sostenendo che chi le riceve se lo merita proprio per ciò che ha fatto. Se però ci convinciamo che chi commette un reato o ci fa un torto non ha quella libertà che è richiesta per la responsabilità morale nel senso classico, dovremmo reprimere l’indignazione e la rabbia ed essere più tolleranti. 

    Sulla mancanza del libero arbitrio per l'essere umano, nell'Etica Spinoza scrive: ‘questa dottrina contribuisce alla vita sociale in quanto insegna a non odiare nessuno, a non avere disistima per nessuno, a non dileggiare nessuno, a non adirarsi con nessuno’.

    Sarebbe però necessaria una rivoluzione copernicana del concetto di morale …

    EPILOGO
    Ciro è nato e cresciuto in un quartiere degradato della periferia di Napoli. La natura non è stata prodiga con lui: non è proprio un deficiente, ma il suo quoziente intellettivo è al di sotto alla media. Ciro vive con in genitori, un fratello e una sorella in un mini appartamento al pianoterra di un edifico fatiscente. La madre si prostituisce, il padre spaccia droga, lui e il fratello fanno apprendistato in un clan camorristico. Nel quartiere dove vive, la violenza fisica e verbale, la sopraffazione, la legge del più forte e del più violento regnano incontrastati. I soli valori che Ciro conosce sono quelli della violenza, del denaro e dell’onore camorristico … altro che imperativi categorici.
    A 16 anni, cercando di sfuggire a una pattuglia di carabinieri su una moto appena rubata, Ciro viene colpito a morte da un colpo di pistola.
    Scortato da due angeli-brigadieri, Ciro si presenta davanti al Giudice Supremo. Dopo averlo scrutato con severità dall’alto del suo trono, il Giudice tuona: “Vergognati! Nella tua vita, tu non hai fatto altro che il Male! Eppure ti avevo fatto il dono del libero arbitrio per scegliere il Bene! Cosa ne hai fatto? Hai trascredito ai miei imperativi categorici! Via, via! All’inferno!!!”
    Mentre si avvia verso l’inferno scortato dai due angeli-brigadieri, Ciro scuote la testa e pensa sconsolato “sfortunato alla nascita, sfortunato nella vita … mo’ sfortunato anche dopo la morte. Vabbe’… ma quale c. di dono mi ha mai fatto quel vecchio con la barba bianca e che c. sono questi imperativi categorici?”.
    Povero Ciro! Cornuto e mazziato. Io, personalmente, all’inferno ci avrei mandato qualcun altro a cominciare da Kant e i suoi seguaci con la pena eterna di cercare di arrampicarsi nudi sul palo di ghiaccio dell’Imperativo Categorico. Così, congelandosi le parti intime, possono liberarsi almeno dall'ossessione del peccato della carne.

     

    Luigi Di Bianco

    PS: Per la serie completa dei miei scritti visita il mio sito web  SUM ERGO COGITO 

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