IN RICORDO DI SALVATORE QUASIMODO

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    IN RICORDO DI SALVATORE QUASIMODO

     

    14 giugno 1968-14giugno 2009

    “Oh, il Sud è stanco di trascinare morti/in riva alle paludi di malaria,/è stanco di solitudine,stanco di catene/è stanco nella sua bocca/delle bestemmie di tutte le razze/che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,/che hanno bevuto il sangue del suo cuore. …./più nessuno mi porterà nel Sud”.

    Questi versi mi scoppiavano nel cuore con ritmo metallico quel drammatico pomeriggio di giugno di 41 anni fa. La canicola esplodeva violenta, sanguigna sullo strapiombo aereo dei Cappuccini. Sulle siepi di aranci e di cedri, sospesi ai burroni, il meriggio bruciava le essenze mediterranee. Lungo il sentiero profumato di zagare e rosmarino, interrotto bruscamente dalla sciabolata di un’agave, mi strinse forte la mano e mi sorrise per l’ultima volta, prima di naufragare nell’evanescenza della morte. Se ne andò così Salvatore Quasimodo, con negli occhi di pellegrino la stupenda visione di Amalfi, immersa nelle reti di colori puri. Era lo stesso paesaggio della sua isola. Il fiotto dei ricordi dell’infanzia dovette premere alle porte della morte ed accese l’ultimo sorriso.

    Moriva al sud, tra la gente del sud; e la sua parabola terrena si chiudeva, come s’era aperta, nell’incandescenza solare di una terra carica di storia, di miti, di leggende. Lì, nella sua terra, l’ira del Ciclope, qui, ad Amalfi, il tormento di Ulisse ed il richiamo d’amore delle sirene. Lì come qui le impronte di tutte le razze:araba, greca, romana. E, forse, nel respiro estremo si ricordò “di quel

    ragazzo che fuggì di notte col mantello corto- e alcuni versi in tasca”

    Certamente l’affinità di Amalfi con la sua Sicilia lo portava spesso qui da noi. Rispondeva con entusiasmo ai miei inviti. E per me che, giovane liceale, mi ero avvicinato sgomento ed immaturo alla sua poesia, quelli erano giorni di indicibile godimento spirituale, riempiti dalla scoperta dell’uomo che dava volto, voce, anima al Poeta. Un arcano disegno volle che gli fossi accanto, solo ed impotente, a sillabare un dialogo, in cui affetto, devozione, sgomento, pietà si sposarono al dolore in una fredda stanza di una clinica napoletana. Ho continuato e continuerò il dialogo con i suoi libri vergati di frasi affettuose per il giovane amico. Tutti abbiamo da apprendere dai poeti. Il loro magistero è eterno, perché la posizione del poeta non è passiva nella società. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è liberta e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento. Gli uomini si dividono in due categorie, mi diceva spesso il mio Amico e Maestro Alfonso Gatto: c’è chi vive per l’essere e chi vive per l’avere. I poeti vivono per l’essere. Per questo, forse, i poeti non muoiono mai. Così come è vivo Quasimodo nella perennità della sua poesia. Credo che Amalfi gli debba una Fondazione a suo nome, in grado di ideare, promuovere e realizzare eventi di respiro internazionale.

    Ritornerò sul tema con una proposta motivata ed articolata. In questo pomeriggio torrido di giugno nel chiuso della mia casa romana riempio cuore, anima e pensieri di Amalfi e Quasimodo, anzi di Amalfi cantata da Quasimodo, i cui occhi non si stancavano di  guardare cadute e salite a vortice verso la superficie dell’acqua di cupole  di meduse e pagode di molluschi, minareti di ricci e capelli di anemoni, perché ad Amalfi è facile dimenticare la morte e pensarla come eco cangiante delle grotte e dei calanchi.

    14 giugno 2009 –ore 16,30                                                         Giuseppe Liuccio

                                                                                                  Email:g.liuccio@alice.it

     

     

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