Omaggio a Sergio Piro: generoso intellettuale dei padri dell´anti-psichiatria.

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    Era il 1979, la Legge 180 era stata da poco approvata, io giovane studentessa in psicologia partecipavo attivamente all’occupazione del Centro di Igiene Mentale di Bari, insieme con gli psichiatri, gli assistenti sociali, i sociologi, gli psicologi, i medici. Tra le tante cose che volevamo per cambiare il mondo, c’era anche l’apertura del manicomio di Biseglie, dove per primi entrammo, alla fine, nei lunghi e immensi corridoi, nei luoghi dove la reclusione, la contenzione, l’isolamento erano senza via di scampo. Trovammo i lungodegenti in condizioni tali da non poter essere considerati quasi più esseri umani, gettati per terra, preda dei loro fantasmi, sedati e quasi nudi, una umanità che dava il tormento alla nostra acerba sensibilità. Ma c’erano anche i nostri miti: Franco Basaglia, Giovanni Jervis, Sergio Piro. Erano dei miti assoluti. D’inverno ad Arezzo si tenne un convegno, forse l’ultimo con Franco Basaglia, fummo invitati a partecipare e ci andammo riempiendo all’inverosimile le nostre automobili che al ritorno si scassarono pure. Ma lì, ad Arezzo, ascoltammo rapiti ed entusiasti i nostri maestri, Franco Basaglia e Sergio Piro.

    Poi, tornati a casa, l’occupazione finita, tutto il lavoro ricadde sulle nostre spalle di volontari, tutto l’entusiasmo poco a poco si spense di fronte alla tenaglia della burocrazia, la grande macchina che da generazioni macina e frantuma in Italia qualunque velleità di cambiamento, qualunque ragionamento di trasformazione, qualunque lotta e qualunque sostanza.  Sì, la legge Basaglia era stata approvata, ma con il trascorrere del tempo, come sappiamo, anche ampiamente disattesa nella sua parte più preponderante, la terza, quella del reinserimento, delle comunità terapeutiche, le case famiglia. E’ vero, ci fu qualche tentativo, ma più per coloro che già ce la facevano da soli, perché una volta buttato fuori il malato mentale dai manicomi c’era soltanto la famiglia a farsi carico del problema, eravamo pur sempre in Italia.

    Sergio Piro aveva una grande barba e lo sguardo scintillante di chi non si lascia piegare, aveva le parole giuste per liberare la mente di noi giovani, come Basaglia, come Jervis, e allora, ricordiamocele un po’ le sue parole, che risultano oggi ancora più importanti, moderne, rivoluzionarie, a proposito degli psicofarmaci, o della famiglia oppure di cosa sia un rapporto sintelico, questo modo creativo e curativo di essere insieme.

     

    In risposta ad una domanda sull’uso degli psicofarmaci:

    “Se Lei sta un po’ ansiosa e si prende qualche goccia di Valium, va dove deve andare, ad una festa, a studiare e si sente meglio. Se lei di gocce di Valium ne prende il doppio o il triplo le viene sonno ed è infelice. Non so se è chiaro. Allora certamente, Lei che può scegliere, sceglierebbe di prendere poche gocce. E in questo caso lo psicofarmaco è una cosa meravigliosa. Se invece lo psicofarmaco fosse usato dai suoi familiari, dai professori di scuola per farla stare buona, per non rompere le scatole, per non creare turbamento, per non essere pericolosa per sé e per gli altri, per non farla essere di pubblico scandalo, lo scopo non è più quello esistenziale suo, ma è uno scopo sociale, in questo caso negativo, perché si ottiene la propria comodità, sacrificando la libertà altrui. Quindi lo psicofarmaco, come gran parte delle armi, tranne quelle belliche, che costruisce l’uomo, sono strumenti a doppia faccia: sono buoni se sono a servizio di una intenzionalità socialmente positiva, sono invece, secondo me, da considerare pessimi strumenti se servono a creare uno svantaggio di colui che li subisce a vantaggio di colui che li infligge. Le bombe e i missili, secondo me, non hanno l’uso buono, hanno solo quello pessimo”

     

     A proposito della famiglia:

    “Scopriamo […] che la malattia mentale non è statica. Io ho studiato il linguaggio dei pazzi tutta la prima parte della mia vita e ho scoperto che è diverso se essi sono in manicomio o se essi sono fuori – e dico i pazzi per mantenere il linguaggio familiare ed è una designazione che essi stessi talora fanno per se stessi – dicevo che cambiano, sono diversi, che tirano fuori le risorse più incredibili. E dirò solo questo per poi riavviare le Vostre domande: gente avvilita, silenziosa, con la testa china, che passava i giorni gettata in un corridoio, se Voi iniziavate un’assemblea di reparto, un’assemblea di tutto l’ospedale, rialzavano la testa, incominciavano a parlare e, quando chiedevano la parola non è per dire una delle loro follie, ma per chiedere: “Ma perché non miglioriamo il vitto? Ma perché non cominciamo a uscire fuori?”. E questo lo facevano insieme. Ecco che allora si creava una coscienza. Allora io vorrei che fosse chiaro che la condizione di sofferenza che noi chiamiamo “malattia mentale”, “nevrosi” o con altri termini brutti di gergo, è una condizione, come tutte quelle umane, trasformabili, anzi, che dalla trasformazione trae modo di superamento di se stessa. Teniamo conto che inserire le persone nella famiglia significa pur sempre inserirli in qualcosa che molte volte è nocivo. […] e le associazioni dei familiari ci fanno molta paura, per questo tentativo di rimangiarsi il malato come un figlio piccolo. Io considero in genere la famiglia come un fatto pericoloso in sé, da guardare con attenzione e da cercare di liberarsene il prima possibile. Allora, se reinserimento in famiglia significa ripresa di un rapporto dialettico con la famiglia, quello che i giovani, gli adolescenti dovrebbero avere e gli viene tante volte negato, se significa questo va bene, altrimenti è bene che se ne guardino bene dal reinserirsi in famiglia. Tante volte il problema è di reinserirsi nella società. Ma in una società dove le nostre strade sono continuamente percorse da una schiera di disoccupati, che lo sono e lo saranno per molto tempo, questo reinserimento nella società rischia di diventare l’inserimento in un circolo parrocchiale oppure in un luogo di buona accoglienza. Il reinserimento principale è nel lavoro e questo è negato ai pazzi, come ai sani, in questo momento storico, dalle parti nostre soprattutto. E certamente per i pazienti, per i pazienti psichiatrici, che sono passati dal manicomio al territorio, dovrebbero valere le stesse attenzioni, la stessa intensa cura che si dovrebbe avere per dare lavoro alle persone che sono disoccupate e alle persone che arrivano da altre culture, da altri climi, agli emigrati. Non so se è chiaro. Siamo molto lontani dal potere affrontare seriamente questo problema del reinserimento della società, se inteso in senso totale, altrimenti tutto il resto che si fa è un surrogato”.

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