Le Amiche del Museo Correale e le Ville Marittime Romane

Le Amiche del Museo Correale hanno organizzato per venerdi 11 maggio, presso la sala consiliare del comune di Sorrento, alle ore 18.00, la presentazione del libro sulle Ville marittime Romane. Con l’editore  Gino Fienga  Con -Fine e Lucio Esposito la presenza straordinaria del prof Umberto Pappalardo, archeologo di fama internazionale, reduce da un tour di conferenze dagli  Stati Uniti a Shangai, nonchè autore della introduzione del libro.

L’Associazione Le Amiche del Museo Correale di Terranova nasce a giugno 2010,su iniziativa di cinque amiche : Paola Savarese ,Anna Pane ,Rossella Di Leva , Angela Cacace , Désirée Marino.Intento propulsore dell’Associazione e’ la rivalutazione del Museo Correale di Terranova,attraverso eventi culturali come presentazioni di libri, concerti ,progetti in collaborazione con istituti scolastici, contatti o gemellaggi con altre Associazioni Museali, conferenze di natura scientifica. Ultima in ordine cronologico il restauro di una pala d’altare tardo medievale  raffigurante la deposizione di Cristo. Ma le migliorie apportate nell’ambito del Museo sono tante.

 

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Introduzione

 

In questo suo libro Lucio Esposito, raffinato esegeta dei monumenti classici, ci  illustra uno dei fenomeni più interessanti e suggestivi testimoniati dalle antiche civiltà in Campania, quello delle “ville romane”.

Alla luce di quanto tramandatoci dagli scrittori antichi – quali Columella, Catone, Varrone, Vitruvio, Seneca, Plinio et alii – e dell’interpretazione degli odierni resti monumentali, egli illustra due differenti tipi di ville: quelle rustiche (noi diremmo, “di campagna”), destinate alla produzione agricola, e quelle marittime, destinate ai soggiorni estivi e pertanto particolarmente sfarzose nelle architetture e nelle decorazioni.

Di seguito, con ricchezza di immagini, illustra le ville costiere della Campania, ovvero le più belle, quali quelle di Posillipo, del Capo di Sorrento, dell’imperatore Tiberio a Capri, di Positano, di Minori e di Vietri.

Le descrizioni sono corredate da utilissimi inserti di carattere tecnico relativi all’ approvvigionamento idrico ed alla realizzazione di murature, impianti termali ed affreschi.

 

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La storia dell’area vesuviana e flegrea ci mostra che questa regione – sebbene ad alto rischio sismico e vulcanico – fu densamente abitata fin dal Paleolitico. In età imperiale romana vivevano a Pompei almeno 20.000 abitanti, ad Ercolano almeno 10.000 e senza dubbio decine di volte maggiore deve essere stata la popolazione di Neapolis e di Puteoli (Pozzuoli). Strabone  ci riferisce che, vista dal mare, la costa fra Neapolis e Stabiae doveva apparire come una megalopoli per l’infittirsi degli abitati. Oggi in questa area vivono circa 2 milioni di abitanti e si continua a vivere ed a costruire, benché i vulcanologi abbiano già preannunciata la prossima grande eruzione del Vesuvio per i prossimi 30-300 anni.

Perché allora l’uomo è stato attirato e continua ad essere attratto da una regione tanto pericolosa ? La risposta è semplice: le risorse naturali. Infatti un vulcano che diventa improvvisamente causa di morte e di distruzione, costituisce per molte generazioni una fonte di inesauribili ricchezze: i terreni ricchi di minerali e pertanto insolitamente fertili, che consentono fino a quattro raccolti l’anno, l’incredibile varietà ed abbondanza di materiali da costruzione, l’abbondanza di corsi fluviali, le acque termali e minerali  e – non per ultimo – la bellezza dei paesaggi, che solo nelle aree vulcaniche appaiono tanto articolati e variopinti.

Questa fertilità prodotta dal Vesuvio, la vicinanza del mare e il clima mite costituirono (e costituiscono) un ecosistema particolarmente favorevole all’antropizzazione, che è la causa di quell’affollamento di insediamenti che ha caratterizzato il Golfo dall’antichità ad oggi. Tutto ciò i Romani lo esprimevano con una denominazione molto semplice: “Campania Felix”. Del resto già nel 1879 Julius Beloch scrisse nel suo famoso “Campanien”: “La fisionomia del Golfo di Napoli sarebbe irriconoscibile se venisse a mancare il Vesuvio”.

Come apparirebbe infatti oggi la pianura campana senza questo grande vulcano, grande e minaccioso, ma anche produttore di terre fertili ? Potremmo immaginarla veramente come un immenso “Graben”, un’immensa fossa carbonatica – come dicono i geologi – colmata da sedimenti alluvionali, ovvero senza quel caratteristico addensamento di ville e cascinali e senza quelle colorite varietà di piccole culture pregiate ?

In sostanza con il Vesuvio da un lato ed il mare dall’altro, già gli antichi furono consapevoli di trovarsi dinanzi ad uno degli scenari più suggestivi del Mediterraneo; lo dimostrano sia le fonti letterarie che le numerosissime ville romane costruite da Miseno fino al Capo di Sorrento. Cicerone (Epistulae ad Atticum II 8, 2) parlando del golfo di Napoli, dove molti Romani avevano le loro ville, lo definisce “crater ille delicatus” e il geografo Strabone (circa 64 a.C.- 23 d.C.) – in età augustea – così ci descrive la baia dal mare: “Tutto il golfo è trapunto da città, edifici, piantagioni, così uniti fra loro, da assumere l’aspetto di un’unica metropoli  … Sovrasta questi luoghi il monte Vesuvio, ricoperto  di  bellissimi campi, tranne che in cima …” (Strabone, Geografia 5,4,8).

Virgilio celebra l’agro vesuviano-campano per la sua fertilità, che per Strabone è direttamente dipendente dal suo suolo vulcanico, una terra giovane e ricca di sostanze minerali. Prelibati erano il cavolo e la cipolla di Pompei (Columella), i fichi di Ercolano (Catone). Famosa era la produzione vinicola (Columella e Plinio), fatto che trova riscontro nel rinvenimento di anfore pompeiane in Inghilterra, in Gallia, in Spagna, in Africa e persino in India.

Non si devono poi dimenticare i molteplici ed abbondanti materiali da costruzione presenti nelle città campane (tufi, lave, pozzolane etc.), anche essi forniti dall’attività vulcanica. La famosa “pozzolana”, il “pulvis puteolanus” denominato dalla città di Pozzuoli, era una sabbia vulcanica impiegata nella preparazione di quelle malte idrauliche, che consentirono ai Romani di costruire grandiose strutture portuali.

Pompei e Nola sono menzionati come mercato di frantoi per l’olio (Catone), ai quali potremmo aggiungere anche le macine per grano realizzate nella cd. “schiuma di lava”. E’ probabile che proprio l’area vesuviana ne costituisse uno dei centri maggiori di produzione ed esportazione.

Occorre ribadire anche l’importanza dell’acqua come risorsa indispensabile alla vita dell’uomo antico. In Campania molti corsi d’acqua sono persino termali  o abbastanza larghi da essere usati per i trasporti. A questo proposito vale la pena di sottolineare come l’uomo romano, anticipando l’uomo moderno, seppe sfruttare le risorse naturali in senso mercantile e industriale, come nel caso di Caius Sergius Orata che inventò le piscine d’acqua calda (“balineae pensiles”) sulle sorgenti calde di Baia e vasche per l’allevamento di murene ed ostriche, delle quali andavano ghiotti i Romani, anche esse alimentate da sorgenti naturali di vapore, in quanto nel caldo si riproducono meglio.

Un suo collega, Marcus Crassus Frugi impiantò delle terme a pagamento a Torre Annunziata (ancora oggi in funzione come “Terme Nunziante”) su delle sorgenti miste di acque marine e termo-minerali. Lo stesso è ricordato da Plinio per aver fatto costruire a Pozzuoli un’isola artificiale per sfruttare una polla d’acqua calda che sgorgava dal mare.

Ovviamente la bellezza dei paesaggi e la ricchezza delle risorse non bastarono da sole ad incrementare il turismo e la villeggiatura, infatti occorreva anche la tranquillità politica.

I Romani furono sempre interessati a Napoli, in virtù del suo porto. Quando nell’ 88 a.C. scoppiò la guerra tra Mario e Silla, i ceti mercantili di Neapolis parteggiarono per il console Caio Mario, leader del partito popolare, contro l’aristocratico Silla, appoggiato invece dai grandi proprietari terrieri. In seguito alla sconfitta di Mario, Silla nell’ 82 a.C. conquistò Neapolis e i suoi partigiani trucidarono quasi tutti i cittadini, confiscando le triremi della città. Pertanto la vecchia classe dirigente venne non solo eliminata fisicamente, ma furono annientate le basi stesse del suo potere economico, le navi. Pertanto ad un ceto dirigente mercantile se ne sostituì uno residenziale, legato alle rendite ed alla proprietà fondiaria. Fu proprio in questi anni che Napoli incominciò a caratterizzarsi come città tranquilla, adatta all’ “otium”, ed incominciò ad essere frequentata da nobili e senatori.

In quest’epoca il senatore romano Lucullo, a conclusione della sua carriera politica e militare, deciso ad appartarsi in una vita di ozio, scelse l’area di Pizzofalcone e dell’isola di Megaride  per costruirvi una splendida villa, celebre per le sue peschiere ed i suoi giardini fioriti.

Successivamente, durante l’Impero, si ebbe una voluta esaltazione dei caratteri greci della città: istituzioni, associazioni (‘fratrie’) e lingua ufficiale restarono greci, come greci erano i giochi quinquennali che si celebravano in città sul modello dei giochi olimpici (“Italikà Romaia Sebastà Isolympia”) con gare di musica, ginniche ed equestri. La città mantenne l’uso corrente della lingua greca: Nerone in visita a Napoli nel 64 d.C. parlò ai cittadini in lingua greca e greche sono le iscrizioni sepolcrali nelle necropoli della Sanità almeno fino al II secolo d.C.

Napoli divenne pertanto in quest’epoca una sorte di “Firenze dell’antichità”, ricercata per la sua tranquillità, la bellezza del paesaggio, la dolcezza del clima e la sua antica cultura, al punto da attirare aristocratici e letterati in cerca di quiete. Alla città di un intraprendente ceto mercantile si era sostituita una città di villeggiatura e di svago.

L’area costiera di Napoli ed i Campi Flegrei divennero la zona prediletta dalla classe dirigente romana per impiantarvi  lussuose ville di ozio, frequentate dagli stessi imperatori con le loro corti. Tutti i grandi personaggi, quali Mario, Silla, Crasso, Cesare, Pompeo, Ortensio, Lucullo, Cicerone ebbero proprietà nella zona.

Nell’occidente romano le ville individuate sono in totale più di 3.000 ma quasi in nessun caso è stato possibile identificarne il proprietario. In Campania, invece, per una serie di fortunate coincidenze, siamo bene informati sui proprietari e talvolta ne sono state perfino individuate le proprietà.

Dall’epoca di Augusto al 400 d.C. disponiamo di 47 nomi di proprietari attraverso le fonti antiche, ma anche attraverso le epigrafi, le ‘fistulae aquariae’, le tavolette cerate ed i bolli laterizi. Si ha pertanto un quadro vivace della “villa society” campana, così come è stata definita dallo studioso americano John d’Arms, forse sotto la suggestione della “villa society” californiana.

 

Umberto PAPPALARDO

Prof. di Archeologia Pompeiana

Università “Suor Orsola Benincasa”

Napoli

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