Nipote di San Carlo Borromeo per linea materna, compositore di musica sacra e madrigalista tra i più noti del suo tempo, il ventenne Carlo Gesualdo, principe di Venosa, si reputò fortunatissimo quando poté impalmare a Napoli l’avvenente cugina  Maria d’Avalos, di quattro anni più anziana, due volte vedova, discendente di una stirpe di nobili scesi al Sud al seguito di re Alfonso V d’Aragona.

Sotto, Maria d’Avalos:

All’epoca, era il maggio 1586, il matrimonio rappresentò un vero e proprio evento per la Napoli vicereale, dato il lustro e la popolarità dei casati coinvolti.

Sotto, Carlo Gesualdo:

L’unione, tuttavia, nonostante la nascita del sospirato erede Emanuele, non risultò felice per la diversità caratteriale degli sposi, tanto severo e riflessivo Carlo, quanto romantica ed impulsiva Maria. Ben presto l’irrequieta e insoddisfatta giovane incontrò, ad una delle tante feste cui prendeva parte, il nobile Fabrizio Carafa, duca d’Andria, anch’egli sposato,  con quattro figli. Nonostante i rischi e le difficoltà d’incontrarsi, divampò immediata la passione tra i due che divennero amanti, accantonando la prudenza e provocando un’ondata di pettegolezzi negli ambienti napoletani.

Incredulo dapprima, via via sempre più sospettoso, il principe di Venosa si arrese all’evidenza delle accuse d’infedeltà della moglie, e cominciò a meditare vendetta. L’agguato scattò la sera del 16 ottobre del 1590, quando Carlo annunciò di volersi recare agli Astroni per una battuta di caccia, uno dei suoi passatempi preferiti. Benchè avvisati del pericolo corso, gli amanti sfidarono la sorte per potersi incontrare di nuovo proprio nel palazzo di lei, protetti soltanto dalla presenza di una domestica all’esterno della camera matrimoniale.

Il Castello di Don Gesualdo. Fotografia di pubblico dominio via Wikipedia:

Quando tre uomini armati, seguiti dal principe di Venosa, fecero irruzione nell’alcova, nulla poté il disperato tentativo di difesa di Fabrizio, che cadde trafitto, come Maria, sotto i fendenti degli assassini. Si narra che il principe tradito, dopo essersi accanito sui cadaveri delle vittime, li esponesse seminudi e sanguinanti al pubblico ludibrio nell’androne del palazzo.

Inutile dire che il Vicerè, in considerazione dell’alto lignaggio dell’autore del crimine e delle sue attenuanti per il subito adulterio, archiviò rapidamente il caso. L’efferato delitto restò pertanto impunito ed il vedovo ben presto libero di risposarsi con Eleonora d’Este..

Unica testimonianza del tardivo pentimento del principe è forse la pala commissionata molti anni dopo, nel 1609, al pittore Giovanni Balducci, attualmente collocata sull’altare della chiesa di Santa Maria delle Grazie in Gesualdo, presso Avellino. In essa il committente a mani giunte, in atto di preghiera, implora il perdono al fianco di San Carlo Borromeo, suo illustre congiunto e presunto protettore.

Di sicuro chi non perdonò l’assassino per il brutale crimine fu Torquato Tasso, che compose quattro sonetti destinati a rendere immortale la storia d’amore e di morte degli sventurati protagonisti.

I suoi versi recitano:

Piangete o Grazie, e voi piangete Amori,
feri trofei di morte, e fere spoglie
di bella coppia cui n’invidia e toglie,
e negre pompe e tenebrosi orrori.

Piangete o Ninfe, e in lei versate i fiori
pinti d’antichi lai l’umide foglie
e tutte voi che le pietose doglie
stillate a prova e lacrimosi odori.

Piangete Erato e Clio l’orribil caso
e sparga in flebil suono amaro pianto
in vece d’acque dolci o mai Parnaso.

Piangi Napoli mesta in bruno ammanto,
di beltà di virtù l’oscuro occaso
e in lutto l’armonia rivolga il canto.

Sotto, la Pala del Balducci che ricorda l’evento:

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